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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Camorra, il boss al 41bis comparava armi e minacciava il pm: ‘Anche dal carcere posso far fare una brutta fine alle persone’

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In vista di quella che si pensava fosse un’imminente uscita dal carcere del boss di Mondragone , Augusto La Torre, il clan si stava riorganizzando sul territorio comprando armi e avvisando gli imprenditori. Lo ha scoperto la Dda di Napoli, che ha chiesto e ottenuto dal Gip la carcerazione preventiva per Antonio La Torre, 62 anni, per il nipote 31enne Tiberio, figlio di Augusto, per il 29enne Luigi Meandro e il 41enne Salvatore De Crescenzo, con l’accusa per tutti di detenzione illegale di armi comuni da sparo e da guerra con l’aggravante del metodo mafioso. Per il boss, in carcere dal 1996, e’ arrivato invece un avviso di garanzia per estorsione aggravata. Nell’indagine, realizzata dai carabinieri della Compagnia di Mondragone e dal personale del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria, sono stati intercettati numerosi colloqui in carcere tra Augusto e i parenti, tra cui quello in cui il boss minaccia esplicitamente il pm anticamorra Alessandro D’Alessio, titolare dell’inchiesta insieme alla sostituta Maria Laura Morra. Dai colloqui captati dalla Penitenziaria, si evince come Augusto fosse sicuro, gia’ nel 2015, di uscire di cella e di andare ai domiciliari, essendo stato colpito da due sentenze definitive a 22 anni e 9 anni per i reati di associazione mafiosa ed estorsione aggravata; in passato aveva collaborato con la giustizia senza pero’ ricevere sconti di pena, in quanto le sue dichiarazioni erano state ritenute riduttive dai giudici; in carcere aveva inoltre dato prova di voler cambiare, essendosi laureato in psicologia. Cosi’, con la collaborazione del figlio e del fratello, peraltro gia’ raggiunto da provvedimenti per reati associativi, ha iniziato a riorganizzare l’arsenale del clan, reperendo armi e custodendole; tra quelle sequestrate vi sono una pistola Glock, un mitra da guerra, una calibro 38 e un 7,65, un fucile M52. Armi che servivano a presentarsi dagli imprenditori cui chiedere il pizzo. Ma gli inquirenti hanno scoperto di piu’: lo stesso boss, tra marzo e aprile 2015, ha inviato dal carcere di Pescara una lettera minatoria all’amministratore di un condominio di Mondragone, con la quale pretendeva l’assunzione di suo figlio Tiberio, fatto che poi non si e’ verificato per il rifiuto della vittima; nello stesso periodo, Augusto La Torre ha inviato una seconda lettera di minacce al proprietario di numerose abitazioni all’interno del condominio, con la quale ha richiesto la somma di 25.000 euro. Anche in questa occasione la vittima pero’ non ha aderito alla pretesa.

 “D’Alessio deve sapere che se anche se sto al 41bis comando lo stesso e posso sempre far fare una brutta fine alle persone”. Parole choc quelle che il boss della camorra casertana Augusto La Torre pronuncia contro il pm della Dda di Napoli Alessandro D’Alessio nel corso di un colloquio in carcere avuto con il fratello Antonio. La minaccia emerge dall’indagine che oggi ha portato in carcere proprio Antonio La Torre e il figlio 31enne di Augusto, Tiberio. Per il boss, in carcere dal 1996 dopo essere stato arrestato in Olanda, e’ arrivato un avviso di garanzia per estorsione aggravata. Una vicenda particolare quella di La Torre, divenuto collaboratore di giustizia nel 2003, quando fu arrestata la moglie; in tale veste La Torre ha fatto arrestare numerosi affiliati al suo clan confessando decine di omicidi e facendo ritrovare anche resti umani nelle campagne di Mondragone. Ma per i giudici il suo contributo non e’ stato ampio ed esaustivo, ma riduttivo, in quanto avrebbe taciuto le circostanze che potevano danneggiarlo dal punto di vista economico, infatti non ha mai fornito indicazioni sul tesoro accumulato negli anni, forse depositato proprio in Olanda. Il contributo in ogni caso fornito gli ha permesso di avere una mitigazione del carcere duro nel 2011. Proprio nel giugno di quell’anno si e’ laureato in psicologia presso l’allora Seconda Universita’ degli studi di Napoli (oggi Universita’ della Campania Luigi Vanvitelli) con studi che hanno riguardato Jacques Lacan e la scuola della psicologia della Gestalt, e hanno comportato la lettura dell’opera omnia di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Per un periodo e’ stato anche difeso dall’ex pm di Palermo, protagonista delle indagini sulla trattativa Stato-Mafia, Antonio Ingroia.

Cronache della Campania@2018


Riciclaggio in Romania, l’Alta Corte rumena scarcera Inquieto il braccio destro del boss Zagaria

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Casapesenna. Riciclaggio per il boss Zagaria in Romania: scarcerato Nicola Inquieto. Dopo quasi due settimane di carcere, l’Alta Corte di Cassazione e giustizia della Romania ha disposto la scarcerazione di Nicola Inquieto, l’imprenditore di Casapesenna ritenuto dalla Dda di Napoli il soggetto che ha riciclato i soldi del boss Michele Zagaria creando un impero immobiliare in Romania, in particolare nella cittadina di Pitesti. Inquieto fu arrestato il 12 aprile in forza di un mandato d’arresto europeo, insieme al fratello Giuseppe (detenuto in Italia), altro imprenditore accusato di aver favorito la latitanza di Michele Zagaria, durata oltre 15 anni, la maggior parte dei quali trascorsi proprio nel suo comune di nascita, Casapesenna. Un altro fratello, Vincenzo Inquieto, era il proprietario dell’abitazione dove c’era il bunker in cui, nel dicembre 2011, fu stanato il capoclan. Nicola Inquieto è stato scarcerato in attesa che venga discussa la causa per la sua estradizione in Italia. E’ stato invece confermato il sequestro degli appartamenti e dei fabbricati che ha costruito a Pitesti.

Cronache della Campania@2018

Camorra: scarcerato anche Giuseppe Inquieto accusato di aver costruito il bunker di Zagaria

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E’ stato scarcerato nella serata di ieri l’imprenditore di Aversa, Giuseppe Inquieto, arrestato il 12 aprile scorso insieme con il fratello Nicola perché sospettati di essere i prestanome del boss Michele Zagaria. Nicola era stato arrestato a Pitesti in Romania, dove secondo le accuse aveva costruito un verto e proprio impero economico fatto da centinaia di immobili che rappresentavano la “cassaforte” del clan Zagaria, ma anche lui giovedì pomeriggio era stato scarcerato dall’Alta Corte di Cassazione e giustizia della Romania. Dovrà  essere processato prima per un diverso reato per il quale si era macchiato a Pitesti, ovvero un omicidio colposo legato alla morte di un operaio avvenuta in una delle aziende di Inquieto. La custodia cautelare con mandato europeo ha validità un mese ma prima dell’estradizione la legislazione rumena prevede che debbano chiudersi prima i procedimenti commessi in quello Stato, per consentire poi l’estradizione (a meno che non si disponga una consegna temporanea). L’autorità giudiziaria vuole che Inquieto chiuda il conto prima di concedere all’Italia l’estradizione. I due fratelli inquieto, secondo le accuse contenute nelle 324 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Federica Colucci, avrebbero favorito la latitanza del boss Michele Zagaria ( il boss fu arrestato nel 2010 in casa di Vincenzo Inquieto, in via Mascagni a Casapesenna). Giuseppe avrebbe costruito il bunker dentro il quale fu trovato “capastorta” mentre Nicola avrebbe riciclato i soldi del boss in Romania. Nell’inchiesta “Transilvania” sono indagati a piede libero anche gli imprenditori caseari Salvatore Nobis, il fratello Giovanni insieme con la moglie Rita Fontana e il figlio Mario. Ad accusarli una decina di pentiti tra cui Massimiliano Caterino, ex braccio destro di Zagaria, Generoso Restina, Luigi Cassandra, Attilio Pellegrino, Benito Natale, Pietropaolo Venosa, Salvatore Venosa, Raffaele Venosa e Michele Barone. Ora alla luce delle due scarcerazioni l’inchiesta “Transilvania” e sul clan Zagaria attende le contromosse della Dda di napoli pronta a presentare ricorso sulle due scarcerazioni.

Cronache della Campania@2018

Clan Pagnozzi, la Cassazione annulla la condanna per lady Annamaria: ora è libera

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La Cassazione annulla la condanna a dieci anni nei confronti d Annamaria Rame, moglie del boss Domenico Pagnozzi e la donna torna libera. Era accusata di aver retto il clan durante il periodo di carcerazione in regime di 41 bis, del marito, ma la Cassazione ha accolto il ricorso del suo difensore, l’avvocato Dario Vannetiello, annullando la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Napoli. Il clan Pagnozzi ha segnato la storia criminale di questi ultimi cinquanta anni, prima con il capostipite Gennaro, soprannominato ”o giaguaro’, contrabbandiere napoletano che fu tra i primi ad opporsi a Raffaele Cutolo allorquando quest’ultimo voleva imporre una tassa su ogni cassa di sigaretta commercializzata. La guerra tra “nuova camorra organizzata” e “nuova famiglia” era alle porte. Ma è con il primogenito Domenico che il clan fa il “salto di qualità” sotto il profilo criminale, prima riuscendo a resistere alla invasione dei Casalesi nel territorio a cavallo tra le province di Benevento, Avellino e Caserta, poi partecipando alla cruenta guerra di camorra di Marcianise tra i Piccolo ed i Belforte, ed infine esportando in tempi recenti il “sistema camorra” nella capitale, vicenda questa per la quale vi è processo in corso presso la Corte di appello di Roma, ritenuto di rilievo nazionale, tanto da aver indotto il Presidente del collegio giudicante ad autorizzare la registrazione e la trasmissione delle udienze da Radio Radicale. In una delle tante azioni di contrasto allo storico clan Pagnozzi fu arrestata, insieme ai sodali, anche la cinquantaseienne ed incensurata Rame Annamaria, moglie del boss Domenico Pagnozzi, soprannominato ‘il professore’. La condotta attribuita alla donna dalla direzione distrettuale antimafia era quella di aver retto il clan durante la sottoposizione al regime del carcere duro a cui era ed è tuttora sottoposto il marito, coordinando i vari affiliati, ricevendo le direttive da costui, nonché costituendo talune società in cui reinvestire i profitti illeciti del clan, gruppo che aveva interessi sia in Campania che a Roma. L’impianto accusatorio, fondato in larga parte su intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché su servizi di osservazione, controllo e pedinamento, appariva fondato, tant’è che in data 22.02.16 Annamaria Rame fu condannata in primo grado a 12 anni di reclusione, poi ridotti a 10 in data 23.05.17 dalla Corte di appello di Napoli – VI sezione -. Il verdetto emesso dalla Corte di Cassazione, relativo alla posizione di coloro che optarono per il rito abbreviato, è stato sorprendente.
Hanno fatto breccia nei supremi giudici gli argomenti giuridici indicati nel diffuso ricorso proposto dall’avvocato Dario Vannetiello. Infatti, nonostante il Procuratore Generale Elisabetta Cennicola avesse concluso per la inammissibilità della impugnazione proposta nell’interesse di Rame, la Corte di cassazione – II sezione penale – presieduta dal dott. Diotallevi e che ha visto come relatore il dott. Pellegrino, ha accolto in pieno il ricorso proposto dall’avvocato Vannetiello ed ha annullato in toto la sentenza di condanna nei confronti della donna boss, ordinando un nuovo giudizio innanzi alla Corte di appello di Napoli.
Viceversa, sono stati dalla Suprema Corte dichiarati inammissibili i ricorsi proposti nell’interesse del commercialista Fiore Umberto (condannato per una pluralità di reati ad anni 11), dell’imprenditore Cavaiuolo Salvatore (condannato per concorso esterno ad anni 6), del boss Pagnozzi Domenico (giudicato responsabile in tale processo solo per reati di minore allarme ad anni 5). Mentre la Corte ha rideterminato la pena nei confronti del braccio destro del boss, Silenti Ferdinando, in anni 10 e mesi 8 di reclusione, riducendola di un anno e dichiarando sugli altri punti inammissibile anche tale ricorso.
Al momento degli arresti suscitò indubbiamente interesse sia la presenza del gruppo criminale nel salotto della città di Roma, sia il sofisticato tentativo di introdursi nel sistema informatico protetto di una banca londinese per trasferire poi i fondi in una banca di Beirut, cercando di sfruttare anche la complicità di un direttore di banca, di un esperto informatico e di un avvocato libanese.
Dopo aver ottenuto l’annullamento della sentenza di condanna da parte dei giudici “romani” , sulla scia del risultato favorevole, l’avvocato Dario Vannetiello, in tempi record, ha ottenuto anche la remissione in libertà del “boss in gonnella”, grazie ad una immediata istanza che ha fatto leva su un complesso calcolo dei termini di custodia cautelare previsti dal codice di procedura penale, modalità di calcolo che è stata anch’essa condivisa dalla Corte di appello di Napoli – VI sezione – riunitasi urgentemente in camera di consiglio per decidere sulla richiesta. E così, dopo circa tre anni, la moglie del boss ritenuto a capo di una organizzazione tentacolare – operante a cavallo tra le province di Benevento ed Avellino, con diramazione nella zona di Napoli, zona San Giovanni a Teduccio, e più recentemente anche nella città di Roma-, ha potuto lasciare la casa circondariale di Lecce dove era detenuta in regime di alta sicurezza. Adesso si dovrà attendere il deposito della motivazione della sentenza da parte della Corte di cassazione sia per conoscere quale tra i tanti motivi di legittimità formulati dall’avvocato Vannetiello è stato condiviso sia per comprendere quali sono state le ragioni che hanno portato la Suprema Corte a dichiarare addirittura inammissibili tutti gli altri ricorsi.  Guadagnata ora la libertà, la signora Rame dovrà stabilire se riprendere la attività di imprenditrice quale gestore della società Premier Energy s.r.l. che si occupa delle distribuzione di gas ed energia elettrica. Tale società operava in Campania e nel Lazio prima del sequestro disposto dalla direzione distrettuale antimafia di Roma, poi revocato dal Tribunale penale di Roma – sezione misure di prevenzione – grazie al certosino lavoro difensivo. Intanto presso il Tribunale di Benevento prosegue il processo a carico degli affiliati che optarono a suo tempo per il rito ordinario la cui conclusione è prevista per la fine dell’anno, mentre per la prossima estate è prevista la conclusione del giudizio di appello per il processo “camorra capitale”, il quale sta viaggiando parallelamente all’altra inchiesta che ha sconvolto i palazzi del potere capitolino, quella etichettata “mafia capitale”. 
La storia giudiziaria del clan Pagnozzi pare proprio che non è ancora finita. Pur essendo ancora pendenti vicende processuali relative a gravissimi reati, a differenza di molte organizzazioni camorristiche, nel corso di questi decenni la vita del clan Pagnozzi è stata costellata da numerose assoluzioni e da clamorose scarcerazioni, oltre che essere caratterizzata da assenza di condanne all’ergastolo, queste infatti mai inflitte né ai Pagnozzi, né ai luogotenenti della consorteria criminale.

Cronache della Campania@2018

Augusto La Torre torna in aula per accusare ‘Sandokan’

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Parlerà ad un processo di camorra che si terrà lunedì prossimo 7 maggio al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Augusto La Torre, ex boss della camorra casertana e collaboratore di giustizia indagato per estorsione aggravata dal metodo mafioso nell’ambito dell’indagine della Dda di Napoli che venerdì scorso ha portato in carcere il figlio Tiberio e il fratello Antonio. I due sono accusati di aver iniziato a riorganizzare le fila della cosca, acquisendo armi, nell’eventualità che Augusto la Torre, in carcere dal 1996, fosse scarcerato; un’eventualità che sembrava potesse realizzarsi di qui a qualche anno, in quanto La Torre, pur avendo confessato una cinquantina di omicidi, non ha mai avuto una condanna all’ergastolo essendo collaboratore di giustizia. Una collaborazione, la sua, definita “riduttiva” dai giudici, ma che comunque ha fatto sperare al “boss psicologo” – si e’ laureato in carcere in psicologia nel 2011 – di poter ottenere almeno i domiciliari visto anche che c’é un contenzioso sul cumulo di pene definitive che lo riguardano. La nuova indagine della Dda sembrerebbe allontanare però questa eventualità. La Torre mentre godeva dei benefici dello status di collaboratore di giustizia, scriveva a vecchie conoscenze, intenzionato da un lato a sistemare il figlio, dall’altro, probabilmente, a tastare il territorio. Dal carcere di Pescara La Torre fece partire una serie di lettere con lo scopo di sistemare il suo ragazzo. Quelle missive non sono state ritenute penalmente rilevanti e la lettera che farebbe riferimento ai 25mila euro di un’estorsione non è mai stata trovata. Infatti, il gip, nei giorni scorsi, per Augusto La Torre ha rigettato la richiesta di arresto. “Tiene 33 anni, nessuno lo prende a lavorare perché è mio figlio… viene discriminato… vorrei che facesse il tuo segretario”. Poi all’ex amico, in un’altra lettera. “vi ricordo che per il parco Pineta ho speso 300 milioni di lire e non ho mai preteso nulla… ho fatto le strade… potevo rivalermi sui condomini… ma non l’ho fatto”. Nessuno però ha preso in considerazione quelle lettera che tra l’altro hanno accusato anche una profonda rottura tra lui e il padre. Il boss chiede un posto di lavoro anche per la sua nuova compagna Maribel. Il figlio lo esorta a: “Non scrivere più a nessuno”.  Un’feesa per Augusto La Torre che dice al figlio “da questo momento non hai più un padre” e il ragazzo senza perdersi d’animo ribatte “io un padre non ce l’ho da tanti anni”.Dalla scorsa settimana anche Tiberio La Torre è in carcere su ordine del gip Maria Gabriella Pepe. I carabinieri di Mondragone (agli ordini del capitano Luca Gino Iannotti) hanno notificato la misura anche a suo zio, Antonio e Luigi Meandro e Salvatore De Crescenzo. Per tutti loro l’accusa è quella di aver cercato di preparare il terreno per il ritorno di Augusto. Il piano, per ora, è fallito. Mentre c’è attesa per le dichiarazioni che Augusto La Torre renderà al processo del 7 maggio, in cui compare tra gli imputati anche il capoclan dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone; La Torre, che sarà sentito come teste, vestirà i panni del collaboratore.

Cronache della Campania@2018

Salerno, slitta all’11 giugno la sentenza per l’attore Domenico Diele

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La sentenza del processo, con rito abbreviato, in cui e’ imputato per omicidio stradale l’attore Domenico Diele arrivera’ il prossimo 11 giugno. L’attore 31enne e’ accusato di aver tamponato mentre era alla guida della sua autovettura lo scooter sul quale viaggiava una donna di 48 anni, Ilaria Dilillo. La donna mori’ a seguito del violento impatto. Il fatto avvenne, la notte del 24 giugno dello scorso anno, lungo la corsia nord dell’autostrada del Mediterraneo, nei pressi dello svincolo di Montecorvino Pugliano in provincia di Salerno). Al tribunale di Salerno oggi sono stati ascoltati i periti nominati lo scorso 12 marzo dal giudice per l’udienza preliminare Piero Indinnimeo. Il pool di esperti, quest’oggi, ha spiegato le risultanze delle proprie valutazioni.

Cronache della Campania@2018

Avvelenò l’ingegnere Buonomo e la fidanzata: a processo il prof assassino

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E’ stata fissata per il 18 maggio l’udienza preliminare, che si terrà nel tribunale di Venezia,  a carico del professore d’inglese Stefano Perale accusato del  duplice omicidio di Anastasia Shakurova, di 30 anni, di cui si era invaghito, e il suo compagno Biagio Junior Buonomo, ingegnere di 31 anni, originario di Sant’Arpino in provincia di Caserta ma era cresciuto a Sant’Antino. L’omicidio, che potrebbe inquadrarsi in un episodio della serie “A cena con delitto” si consumò il 18 giugno dello scorso anno a Mestre in provincia di Venezia. Il professore Perale, molto conosciuto per organizzare periodicamente gli ‘spritz english’ con gli studenti, incontri per bere assieme l’aperitivo parlando rigorosamente in inglese, aveva invitato a cena la coppia che avrebbe peraltro voluto comunicargli  che la donna era incinta al quinto mese di gravidanza. Era stato proprio questo secondo l’accusa a far scattare la molla omicida nell’uomo. I  due  giovane sarebbero stati in parte sedati con un mix di farmaci. La donna sarebbe stata uccisa per soffocamento in camera da letto, mentre l’uomo a sprangate quando, riavutosi, avrebbe fatto un estremo tentativo di fuga. Fu lo stesso Perale, in stato confusionale, a chiamare in piena notte la Polizia e confessare: “venite ho ucciso due persone”. Quando gli agenti arrivarono sul posto i segni della carneficina erano ancora evidenti, a partire dalla grande macchia di sangue all’ingresso del condominio. L’uomo aveva prima fatto bere alla coppia una sostanza narcotizzante, mescolata alle bibite servite a tavola, e poi li aveva uccisi. Si accanì prima sulla sua ex, una bella ragazza dai lunghi capelli castani che aveva studiato all’Universita’ Ca’ Foscari di Venezia, soffocandola in camera da letto, forse con un fazzoletto premuto a lungo sul volto abusando perfino sessualemente della ragazza già morta, e poi rivolese la sua rabbia contro il ‘rivale’, colpito a sprangate in cucina e finito, nell’androne del palazzo, raggiunto in un disperato tentativo di fuga.Nell’udienza preliminare  oer Anastasia si costituirà parte civile l’ex marito, attraverso il legale Monica Marchi. Mentre i genitori di Biagio e la sorella sono rappresentati in udienza dall’avvocato Raffaele Costanzo. Biagio junior Buonomo era originario di Sant’Arpino in provincia di Caserta ma era cresciuto a Sant’Antimo. Vito Buonomo, padre del ragazzo ucciso, lavora come geometra al comune di Sant’Arpino e la sua è una famiglia molto conosciuta nel paese casertano. Biagio junior aveva molti amici a Sant’Antimo dove era cresciuto. Aveva studiato al liceo Diaz di Caserta, poi  la laurea in ingegneria all’ università Federico II di Napoli.Da qualche anno viveva a Gallarate, in provincia di Varese, insieme alla bellissima ragazza russa. I due erano stati in Campania la settimana prima del duplice omicidio a Barano d’Ischia, dove aveva preso la residenza, per le elezioni comunali. La donna aspettava un bambino e avevano acquistato una casa a Mestre.

 

 

Cronache della Campania@2018

Salerno: confermate tutte le accuse all’attore Domenico Diele

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Salerno. E’ stata un’udienza che ha segnato molti punti a favore della pubblica accusa quella di ieri del processo che vede imputato come accusato di omicidio stradale l’attore romano Domenico Diele che drogato e ubriaco alla guida nel giugno dello scorso anno investì e uccise la salerniatna Ialria Dilillo nei pressi dell’uscita autostradale di Montecorvino Pugliano.

Nel corso dell’udienza è stato ascoltato il collegio di periti nominati dal gup, Pietro Indinnimeo, in merito ai quesiti loro posti circa il reale stato psico-fisico del Diele al momento del sinistro. Il collegio peritale era composto dal neurologo Prof. Antonello Crisci, dal tossicologo Ciro Di Nunzio e dall’ing. Alessandro Lima. Sotto l’aspetto clinico-tossicologico è emerso il fatto che, non essendo più disponibili reperti fisiologici acquisiti al momento del sinistro del Diele (tutti utilizzati dal consulente tossicologo del PM dott.ssa Maria Pieri), non è stato possibile effettuare nuove analisi. Dalle attività medico-tossicologiche effettuate è emersa l’impossibilità per gli stessi periti medico-legali di potersi esprimere con assoluta certezza sulla stato psico-fisico del Diele, non essendo stati effettuati all’epoca dei fatti alcuni esami tossicologici che avrebbero sciolto oggi ogni dubbio. E’ emerso tuttavia che il Diele, subito dopo il fatto, presentasse valori relativi alla presenza di cannabinoidi oltre 3 volte quelli che in letteratura medica vengono riferiti come soglia in cui sono manifesti gli effetti compromissivi alla guida. Per quanto concerne le attività dell’ingegnere Lima, egli ha confermato pienamente quanto già relazionato dal consulente tecnico incaricato dalla Procura della Repubblica, ingegnere Gerardo Mirabelli, in particolar modo per quanto concerne il tempo prima dell’impatto in cui il Diele poteva avvistare il motociclo condotto dalla vittima,Ilaria Dilillo, pari a 3 secondi, e soprattutto il valore del tempo di reazione dopo l’urto, quantificato da entrambe i tecnici in circa 2,2 secondi, ampiamente compatibile con uno stato di alterazione alla guida da parte del Diele. L’udienza è stata ora rinviata all’11 giugno per le discussioni degli avvocati e per la requisitoria del PM, Elena Cosentino. In quella stessa data sarà anche emessa la sentenza. Il pm Elena Cosentino, al termine della requisitoria pronunciata lo scorso febbraio, chiese per Domenico Diele 8 anni di reclusione, riconoscendogli solo lo sconto previsto dalla scelta del rito.

Cronache della Campania@2018


Il boss e la busta con mille euro per il compleanno della moglie del carabiniere colluso

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Fuochi d’artificio, una torta con 120 delizie al limone e tanti regali, tra i quali una busta con 1000 euro: il 13 ottobre del 2017, Emilia D’Albenzio, la signora Cioffi ha compiuto 50 anni e la festa di compleanno è tra le prove che l’antimafia ha acquisito per ‘avallare’ i rapporti tra il brigadiere dei carabinieri, in servizio a Castello di Cisterna, e Pasquale Fucito, Sherek, il narcos del Parco Verde di Caiavano. A confezionare la torta per l’evento è stato Ciro Astuto, il pasticciere, anch’egli implicato nell’indagine della Dda di Napoli, sul traffico di stupefacenti e sui rapporti tra il ras e il carabiniere ‘infedele’. Per l’occasione la moglie di Lazzaro Cioffi, Marcolino, – finita ai domiciliari – ha chiesto una torta a forma di ’50’ composta da delizie a limone, 120, in base al numero degli ospiti. A raccontare i dettagli è proprio il pasticciere Astuto nel corso di una conversazione con un tale Filippo. “La torta era la delizia a limone – spiega Astuto – il numero 50 e la piramide… erano 120 delizie … quanto poteva venire quella torta dici la verità su per giù… gliel’ho regalata io la torta, gliel’ho regalata”. Il pasticciere racconta anche che era tra gli invitati alla festa ma non è andato perchè c’era qualcuno che non voleva vedere, ma era anche impegnato per lavoro. Ma Astuto riferisce al suo interlocutore, uno degli invitati alla festa, che il giorno dopo l’evento il brigadiere e la moglie erano andati a portargli la bomboniera.  In quell’occasione Lazzaro Cioffi aveva chiesto di pagare la torta, ma il pasticciere non aveva voluto i soldi. “Me la voleva pagare per forza, uagliò, ma che si fa non esiste proprio, no ma quello è bravo, comunque si comporta troppo a uomo. Mo ti dico una cosa rispetto al compagno mio ci sta solo un paragone di soldi, ma come persona, quello vicino a quello è zero, Hai capito cosa ho detto?” dice Astuto.
A quella festa c’erano tanti invitati, tra questi anche Pasquale Fucito, il ras del parco Verde e nel corso delle indagini emerge un altro episodio inquietante e che, per gli inquirenti, è indice dei rapporti tra il narcos e il brigadiere dei carabinieri. Quella sera del compleanno, Emilia D’Albenzio riceve tra i tanti regali anche una busta con dei soldi, proprio da parte di Fucito e della moglie: mille euro in contanti. Ma quei soldi la festeggiata non li ha potuti tenere per sè tanto che se ne lamenta, prima con la moglie di Fucito, poi con la figlia. Un’intercettazione ambientale del 15 novembre del 2017 captata in auto dove sono presenti Emilia D’Albenzio, Veronica Zaino, moglie di Fucito e una loro amica. Si discute della gestione del danaro nelle rispettive famiglie. Emilia D’Albenzio si lamenta allora che lei non gestisce il danaro. Confessa, poi, che per il suo compleanno Pasquale Fucito le aveva consegnato una busta contenente denaro, precisamente 1.000 euro ma, subito dopo la consegna, il pluripregiudicato aveva riferito a Cioffi del denaro consegnato indicandone anche la somma. Il militare, quindi, si era preso l’intera somma senza dar nulla alla moglie festeggiata. “Lo sai Veronica? Le buste della festa non mi ha dato un solo euro quanto è vero Dio…niente..hai capito? Io come mi andai a sedere lui fece “I soldi”…. perché tuo marito andò a dirglielo…gli disse “Gli ho dato i soldi alla signora”, lui disse ‘dove stanno?'”. Due giorni dopo Emilia D’Albenzio si lamenta con la figlia Ilaria della moglie di Fucito e del fatto che pur accudendo il suo bambino non le dà mai dei soldi. E proprio alla figlia racconta della conversazione in auto con Veronica Zaino e Lucia Puccinelli: “…ah…mi sono lamentata vicino a lei, che mio marito non mi da un solo euro…gli ho detto che si è preso perfino i soldi della festa, anche i 1.000 euro che mi hai dato tu gli ho detto…perché tuo marito andò a dirglielo”.

Rosaria Federico

@riproduzione riservata

Cronache della Campania@2018

Delitto Vassallo, la nuova pista investigativa e la ‘strana presenza’ di tanti carabinieri in quei giorni

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Il pm della Dda di Napoli Mariella Di Mauro, che in questi giorni sta svolgendo una inchiesta su un narcotraffico, e il suo collega della procura di Salerno Marco Colamonici, titolare dell’inchiesta sull’omicidio del sindaco di Pollica Angelo Vassallo, si sono incontrati oggi per uno scambio di informazioni relativo all’acquisizione di elementi utili per le rispettive indagini. L’iniziativa e’ scaturita dall’arresto, nell’ambito dell’inchiesta su un clan dedito al traffico di droga, del brigadiere dei carabinieri Lazzaro Cioffi, accusato di aver avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione. Il nome di Cioffi spunto’ negli atti di indagini svolti sull’omicidio di Vassallo: un testimone riferi’ della sua presunta presenza nella zona nei giorni dell’omicidio ma tale circostanza non risulto’ confermata dagli approfondimenti investigativi (Cioffi in ogni caso non e’ stato mai indagato nell’ambito dell’inchiesta sul delitto del sindaco). Secondo questa pista investigativa – che in assenza di riscontri fu archiviata negli anni scorsi a Salerno – il sindaco sarebbe stato ucciso per il suo impegno nella lotta allo spaccio nel suo territorio e per aver scoperto un giro di droga sulla costa cilentana. Nell’inchiesta della Dda di Napoli sono indagati anche altri tre carabinieri (nei confronti dei quali si ipotizzano omissioni e rivelazione di segreti) che appartenevano allo stesso reparto di Cioffi, alla caserma di Castello di Cisterna, e che a quanto si e’ appreso sono stati di recente trasferiti in seguito al loro coinvolgimento nell’inchiesta. Ma nelle ultime settimane sembrano essere tornati alla ribalta alcuni personaggi e alcuni esponenti dell’arma dei carabinieri su cui si è già indagato negli anni scorsi senza mai trovare però riscontri. In quel periodo, Acciaroli, come del resto tutto il Cilento in maniera particolare in estate, era molto frequentato anche da camorristi, pentiti veri e falsi pentiti, e quindi anche da forze dell’ordine che li controllavano. Il lavoro degli investigatori ora è andare a ritroso nel tempo e magari rileggere informative che all’epoca non furono tenute in considerazione perchè si preferì privilegiare la pista di Bruno Damiani. Ora qualcosa di nuovo e di sospetto sembra emergere dal passato.

Cronache della Campania@2018

Appropriazione indebita: chiuse le indagini sugli ex vertici della Cisl Campania

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Appropriazione indebita. Con questa accusa il pm Giuseppe Cimmarotta ha chiuso le indagini e si appresta a chiedere il rinvio a giudizio per Lina Lucci e Salvatore Denza, rispettivamente ex segretario della Cisl Campania e funzionario amministrativo dell’organizzazione sindacale. In particolare, a Lucci e’ contestata l’utilizzo indebito di 206mila euro del sindacato, una cui parte fu utilizzata per l’affitto di un appartamento e una parte per pagare incarichi presso Fondi interprofessionali e spese varie in un negozio del centro di Napoli. Denza, invece, e’ indagato per una appropriazione ma di 172mila euro per incarichi svolti presso Fondi ed altri soggetti rientranti nelle attivita’ e nelle funzioni di sindacato. “Oggi finalmente ho contezza, nel dettaglio, delle accuse che mi vengono mosse a mio avviso pretestuose e destituite di ogni fondamento, oltre che profondamente ingiuste. Conto di riuscire a chiarire le mie ragioni gia’ di fronte al pubblico ministero” dice Lina Lucci, ex segretario generale della Cisl campana, in una dichiarazione. “Prendo atto che gia’ in questa fase sono notevolmente ridimensionati gli addebiti a mio carico – aggiunge – laddove gli accertamenti svolti autonomamente dal pm hanno evidenziato importanti responsabilita’ di altri per importi, questi si’, molto rilevanti. La Procura ha anche effettuato indagini patrimoniali e da queste sono emersi dati che qualcuno dovra’ pur giustificare”. “Io – lo ribadisco ancora una volta – non ho mai preso un euro senza autorizzazione dei vertici dell’organizzazione e non ho mai sottratto alcunche’. La verita’ piano piano sta emergendo. E’ solo questione di tempo” conclude Lina Lucci.

Cronache della Campania@2018

Riciclavano i soldi del clan a Montecatini, condannati due albergatori

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Montecatini Terme. Riciclavano in Toscana i soldi del clan Formicola di San Giovanni a Teduccio: condanna bis per due albergatori  campani. Francesco Rastelli e la moglie Laura Abagnale, sono stati condannati rispettivamente a 4 anni e 3 mesi di reclusione e a 2 anni e 10 mesi dalla corte di appello di Firenze, in un processo che li vedeva imputati con le accuse di aver riciclato e impiegato denaro proveniente dal clan camorristico Formicola attraverso l’attività di tre alberghi da loro gestiti a Montecatini Terme. Nei loro confronti è stato disposto anche il sequestro di beni per 936mila euro. I due erano stati arrestati nel settembre del 2007 nell’ambito delle indagini condotte dal gico della guardia di finanza di Firenze e coordinate dalla Dda fiorentina, che poi hanno portato al processo di primo grado davanti al tribunale di Pistoia, conclusosi nel 2015 con un’assoluzione con la formula ‘perche’ il fatto non sussiste’. I giudici di primo grado accolsero la tesi della difesa, secondo la quale Rastelli e la moglie non avrebbero riciclato il denaro dei Formicola, ma sarebbero stati a loro volta vittime di usura da parte del clan camorristico. Nei giorni scorsi la condanna, inflitta dalla seconda sezione penale della corte di appello del capoluogo toscano. Per l’accusa la coppia avrebbe riciclato in Toscana denaro sporco riconducibile al clan Formicola, usando in particolare le società di tre alberghi di Montecatini (Le Fonti, I Medici e Hotel Granduca), per ripulire proventi di usura, spaccio di droga e altro. In base agli accertamenti condotti dalla gdf, tra il 2003 e il 2005 la coppia di imprenditori, avrebbe riciclato circa 90mila euro e reimpiegato denaro di provenienza illecita per 250mila euro. In particolare, gli imprenditori avrebbero riciclato il denaro attraverso il cambio con denaro contante degli assegni ricevuti dal clan.

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Sapri, confessa l’anziano che ha ucciso la moglie: “E’ partito un colpo mentre pulivo la pistola”

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Sapri. Confessa l’anziano che ha ucciso la moglie Antonietta Ciancio. Gabriele Milito, 75 anni, rintracciato in una località campestre in provincia di Potenza ha raccontato ai carabinieri della Compagnia di Sapri e al magistrato che l’uccisione è stata accidentale ed è avvenuta ieri pomeriggio, mentre era intento a maneggiare una pistola per pulirla. Il ritrovamento del corpo della donna, 69 anni, è avvenuto oggi pomeriggio a seguito di una segnalazione al 112 della nipote della donna che non riusciva a mettersi in contatto con la zia. I militari della compagnia di Sapri hanno trovato la donna nella sua camera da letto. Nel frattempo hanno avviato le ricerche del marito, 75enne, che era scomparso. L’uomo è stato rintracciato a Rivello in provincia di Potenza.
Interrogato dal magistrato e dai carabinieri, l’anziano ha ammesso di essere l’autore dell’omicidio, riferendo agli inquirenti che, nella giornata di ieri, mente era intento a maneggiare una pistola regolarmente detenuta, sarebbe partito accidentalmente un colpo, che avrebbe attinto mortalmente la moglie alla nuca. Milito, ragioniere in pensione, sarebbe apparso in stato di shock, fornendo spiegazioni confuse sull’accaduto e sui motivi della sua fuga. La coppia, che ha due figli, era molto nota e stimata a Sapri: i due anziani coniugi venivano visti spesso passeggiare insieme sul lungomare, e i conoscenti li descrivono come persone legate e tranquille. Il piccolo centro costiero ai confini tra Campania e Basilicata reagisce con incredulità e dolore alla notizia. Nelle menti di tutti torna il dolore per un’altra morte di una donna avvenuta alcuni anni fa nella vicina Vibonati: il 30 novembre 2014 Pierangela Gareffa fu uccisa dal marito con una coltellata. Nel luglio scorso è stata inaugurata una panchina rossa in sua memoria.
Dopo l’interrogatorio, l’uomo è stato sottoposto a fermo del pubblico ministero per omicidio volontario e trasferito nel carcere di Potenza. Sul posto sono presenti i Carabinieri della Sezione Investigazioni Scientifiche del Comando Provinciale di Salerno che stanno eseguendo il sopralluogo sulla scena del crimine, i cui esiti, unitamente a quelli dell’autopsia che sarà eseguita nei prossimi giorni, dovranno chiarire la dinamica del delitto. Le indagini sono coordinate dalla Procura della Repubblica di Lagonegro e dal pm Vittorio Russo. Antonietta Ciancio, insegnante in pensione, potrebbe essere morta già da alcuni giorni e non ieri come ha sostenuto il marito. Il suo corpo, infatti era in avanzato stato di decomposizione. Non è escluso che la morte possa risalire a sabato.

 

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Furbetti del cartellino alla Reggia di Caserta, ordinanza per due custodi. Sei gli indagati

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Caserta. Furbetti del cartellino: obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per due dipendenti della Reggia di Caserta. Truffa aggravata e continuata e false attestazioni sulla presenza in servizio: sono i reati ipotizzati nei confronti dei dipendenti della Reggia di Caserta, Giovanni Maiale e Raffaele Narciso, addetti alla vigilanza presso il complesso Vanvitelliano – Reggia di Caserta, destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare con obbligo di presentazione prima e dopo gli orari di lavoro, notificata questa mattina dalla polizia nell’ambito di una inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Dalle indagini, basate su intercettazioni video ambientali e pedinamenti, sono emerse numerosi episodi di assenteismo a carico dei due dipendenti e di altre quattro persone indagate per gli stessi reati.  Secondo gli inquirenti, i due custodi avrebbero – con la loro condotta esposto la Reggia al rischio di atti di vandalismo. Non a caso l’indagine è partita proprio dalla commissione di un furto. agevolato, proprio dalla mancanza di sorveglianza che Maiale e Narciso avrebbero dovuto assicurare. I due, dipendenti del Ministero per i beni culturali, sono indagati per truffa aggravata e falso.

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Stupefacenti tra Italia e Spagna, sequestro beni per un milione e mezzo di euro

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Napoli. La Guardia di Finanza di Napoli e Pisa stanno effettuando nelle province di Napoli, Milano, Roma e Pescara, una vasta operazione per sequestri patrimoniali per un valore di oltre 1,5 milioni di euro, disposti dal gip del Tribunale di Napoli nei confronti di 11 italiani, residenti sul territorio nazionale, in Spagna e Germania. Il sequestro in corso scaturisce dal recepimento della richiesta formulata dal tribunale centrale di Istruzione di Madrid (Spagna), accolta dall’autorità giudiziaria nazionale, secondo la legislazione vigente in materia di applicazione di provvedimenti di blocco di beni nell’ambito del territorio dell’Unione europea. L’intervento di polizia giudiziaria rappresenta, infatti, un ulteriore tassello di aggressione, anche dal punto di vista patrimoniale, nei confronti di una organizzazione a delinquere radicata nel territorio di Napoli, con proiezioni imprenditoriali anche in Spagna, ritenuta responsabile di notevoli importazioni di sostanze stupefacenti, oggetti di sequestro sia in Spagna che in Italia, tra cui 520 kg di cocaina provenienti dal Sud America ed oltre 450 kg di hashish provenienti dal Marocco e dall’Olanda. 
Il carattere di transnazionalità delle indagini, condotte dai Nuclei di polizia economico-finanziaria di Pisa e Napoli sotto il coordinamento della procura di Napoli – Dda, ha portato alla costituzione di una squadra investigativa comune (Sic), siglata ad ottobre 2016, cui hanno preso parte la guardia civil (Unidad central operativa di Madrid), i mossos d’esquadra di Barcellona (Spagna), nonché l’autorità giudiziaria spagnola (Juzgado central de Instrucción núm. 6 e Fiscalía especial contra la corrupción y la criminalidad organizada), con il coordinamento e il supporto dell’organo di giustizia europeo (Eurojust). A supporto della squadra investigativa comune italo-spagnola, spiegano i finanzieri, “un significativo contributo alle indagini è stato fornito anche dalla polizia tedesca dello Stato di Baden-Wurttemberg (Germania) in relazione al coinvolgimento di alcune società in territorio tedesco”. Sottoposti a sequestro oggi, con il supporto del Gico del Nucleo pef di Roma, di 11 immobili (tra appartamenti, garage e cantine) a Napoli, Casandrino (Napoli), Mentana (Roma), Pomezia (Roma) e Pescara, 32 rapporti bancari, sei veicoli e quote societarie di due persone giuridiche in Milano e Monterotondo. 

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Omicidio premeditato: rischia l’ergastolo il marito killer di Torre del Greco

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Non solo omicidio volontario con una lunga sfilza di aggravanti, ma anche minacce di morte: se le contestazioni saranno confermate in sede di giudizio, all’assassino di Mariarca potrebbe non bastare la scelta del rito abbreviato per evitare l’ergastolo. Sono state accolte con favore dal legale della famiglia della vittima, l’avvocato Alberto Berardi, del Foro di Padova, le conclusioni a cui è giunta la Procura di Venezia al culmine delle indagini preliminari del procedimento penale a carico di Antonio Ascione, il 44enne pizzaiolo di Torre del Greco che il 23 luglio 2017 accoltellò a morte l’ex moglie Maria Archetta Mennella, 38 anni, nell’abitazione di Musile di Piave, nel Veneziano, dove la donna risiedeva. Il 24 aprile il Pubblico Ministero della Procura di Venezia, dott. Raffaele Incardona, ha chiesto il rinvio a giudizio e il Gip, dott. Massimo Vicinanza, ha fissato l’udienza preliminare per il 4 giugno 2018, alle 11, presso la Cittadella della Giustizia di Piazzale Roma.

L’ennesimo femminicidio aveva destato profonda eco e stimolato iniziative e fiaccolate contro la violenza sulle donne, non solo nel Veneto ma anche in Campania: pure la vittima, infatti, era originaria di Torre del Greco. A colpire era stata tutta la vicenda a partire dalla generosità di “Mariarca” che, pur essendosi separata da quel marito violento e oppressivo ed essendosi rifatta una vita lontano, nel Veneto Orientale, trovando un’occupazione come commessa all’outlet di Noventa di Piave, aveva deciso di riaccoglierlo temporaneamente in casa per riavvicinarlo ai figli di (oggi) 16 e 10 anni, le altre due vittime della tragedia. Un atto di amore e un’attenzione per la figura paterna che ha pagato con la vita, perché Ascione, non accettando la fine del rapporto e spinto dalla gelosia, l’ha barbaramente, proditoriamente e “lucidamente” trucidata.

Quello che emerge dal quadro probatorio e dai capi d’imputazione, infatti, non è una improvvisa furia omicida, non è un raptus, ma un crimine frutto di un escalation di violenza e minacce covato nel tempo. Il reato principale di cui dovrà rispondere il 44enne di Torre del Greco, peraltro reo confesso e detenuto nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, è ovviamente quello di omicidio “per aver accoltellato ripetutamente sul tronco e sull’arto superiore sinistro la moglie cagionandone la morte con un fendente al dorso che ne perforava il polmone sinistro e che determinava lesioni viscerali e vascolari con emorragia massiva ed esito letale” scrive nella sua richiesta il Pubblico Ministero, sulla scorta dei risultati della perizia medico legale disposta sulla salma della vittima. Ma anche con diverse aggravanti: per aver commesso il fatto “per futili motivi, perché non accettava che la moglie, dalla quale era legalmente separato, avesse una relazione con un altro uomo” scrive il Pm; per aver agito “con premeditazione, dopo aver reiteratamente minacciato di morte la moglie, in un’occasione anche con l’uso del coltello”; per aver perpetrato il crimine contro il proprio coniuge e madre dei suoi figli, e quindi aggravato dal vincolo di parentela; “per aver aggredito la moglie nelle prime ore del mattino quando la stessa era ancora distesa a letto e incapace di opporre una adeguata difesa”. L’autopsia ha confermato come si sia trattato di una vile aggressione a tradimento e come i colpi siano stati inferti mentre Mariarca dormiva, elemento tutt’altro che secondario in quanto esclude che il delitto sia avvenuto al culmine di una lite ed è una conferma schiacciante che è stato premeditato.Ma non solo. Ascione dovrà rispondere anche del reato di minacce per aver appunto “minacciato di morte la moglie nei giorni precedenti con un coltello in mano” e, anche qui, con l’aggravante di aver commesso il fatto usando un coltello, strumento idoneo a offendere che poi, purtroppo, avrebbe usato davvero. Non un dettaglio da poco.

“Le indagini, come sostenevamo fin dall’inizio, hanno confermato non solo l’aggravante della premeditazione, ma anche il reato delle minacce: un quadro pesantissimo che, se confermato in sede di giudizio, apre alla possibile applicazione della pena dell’ergastolo anche in caso di accesso dell’imputato al rito alternativo” spiega l’avvocato Berardi, che assiste la famiglia Mennella in collaborazione con Studio 3A, società specializzata a livello nazionale nella valutazione delle responsabilità in ogni tipologia di sinistro, a tutela dei diritti dei cittadini, che a titolo gratuito ha messo a disposizione dei propri assistiti e del loro penalista i propri esperti per i vari accertamenti disposti dalla Procura (ad esempio il medico legale di parte che ha partecipato all’esame autoptico, la dott.ssa Elisa Vermiglio dello Studio Luigi Sergolini di Padova), e che li ha anche affiancati a sostenuti nei tanti risvolti di questa terribile vicenda, non ultimi quelli legati alla tutela dei figli minori della vittima.

Una soddisfazione doppia in ragione dell’apporto fornito in tal senso dallo stesso Berardi, dal consulente personale di Studio 3A, Riccardo Vizzi, e dai familiari della vittima. E’ stato infatti Vizzi ad acquisire dalle sorelle di Mariarca e a fornire all’avvocato Berardi alcuni messaggi whatsapp che si erano scambiati nei giorni precedenti la figlia della Mennella e il padre e in cui la ragazza accusava il genitore, che tentava di giustificarsi, di aver minacciato la mamma con un coltello e gli giurava che lei e il fratellino non l’avrebbero più guardato in faccia se le avesse fatto del male. “Messaggi che ci sono apparsi subito significativi ai fini delle indagini” aggiunge l’avvocato Berardi, che ha inviato una memoria ad hoc al Pm, il quale a sua volta ha disposto l’acquisizione dello smartphone della ragazza. Un “gioco di squadra” che ha fornito un contributo importante per costruire un quadro accusatorio solido e raggiungere l’obiettivo invocato dalla famiglia della 38enne: giustizia esemplare per il carnefice e carcere a vita.

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Clan Loreto-Ridosso e Cesarano: ecco le condanne dei nuovi ras. Assolti 8 imputati

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Scafati. Estorsioni, usura, riciclaggio, intestazione fittizia di beni: diciassette condanne per gli esponenti del clan Loreto-Ridosso e Cesarano di Pompei-Castellammare, 8 le assoluzioni tra le quali anche quella del boss Franchino Matrone, alias ‘a belva e dei ras di Acerra Di Fiore. I venticinque imputati sono stati giudicati con rito abbreviato dinanzi al Gup Maria Zambrano del Tribunale di Salerno, nell’ambito dell’inchiesta sui clan operanti tra Scafati, Pompei e Castellammare di Stabia che aveva portato in carcere numerosi esponenti dei due clan.
Condannati i reggenti del clan Loreto-Ridosso e in particolare il giudice ha inflitto 7anni e 10 mesi di reclu­sione a Luigi Ridosso; 7 anni e 4 mesi a Gennaro Ridosso; 6 anni e 10 mesi a Salvatore Ri­dosso; 4 anni e 4 mesi a Romo­lo Ridosso (collaboratore di giustizia); 4 anni e 2 mesi di reclusione ad Alfonso Loreto anch’egli pentito e 6 anni e 8 mesi al padre Pasquale Lo­reto. Condanna anche a 4 anni e 6 mesi per Anto­nio Matrone, detto Michele, figlio del boss Francesco Matrone; 3 anni e due me­si a Vincenzo Pisacane; un an­no e due mesi di reclusione a Giuseppina Casciello. Conannato a 4 anni e 4 mesi Roberto Cenatiempo, ritenuto il factotum e il prestanome dei Loreto-Ridosso nella gestione delle imprese che lavoravano nell’ambito delle pulizie. Mano pesante del giudice anche per gli uomini del clan Cesarano di Ponte Persica, accusati di numerose estorsioni ai danni di commercianti tra le quali quella ai titolari della Sala Bingo di Pompei: 5 anni e 10 mesi sono stati comminati a Giovan­ni Cesarano; 2 anni e 6 mesi a Francesco Paolo D’Aniello; 6 anni e 4 mesi a Fiorentino Di Maio; 9 anni e 6 mesi a Luigi Di Martino, ‘o profeta; un anno e due mesi a Vincenzo Giovanni Im­mediato; un anno a Mario Sa­batino; un anno e 10 mesi ad Andrea Spinelli.
Otto le assoluzioni alcune delle quali eccellenti come quella di Francesco Matrone, alias Franchino a belva, Giuseppe Di Iorio, Mario Di Fiore, Pasquale Di Fiore (i boss di Acerra), Giovan­ni Messina, Giuseppe Morel­lo di Torre Annunziata, Francesco Nocera e Vin­cenzo Pisacane.
La sentenza completa l’udienza preliminare iniziata alcuni mesi fa, che ha portato al rinvio a giudizio di una parte degli imputati, alcuni prestanome dei Loreto-Ridosso nelle attività apparentemente ‘pulite’. Numerose le accuse, valutate dal giudice per le udienze preliminari Maria Zambrano: associazione per delinquere, usura, estorsione, intestazione fittizia di beni furono scoperte grazie alle indagini dei carabinieri e della Dia, coordinate dal pm della Dda Giancarlo Russo. L’indagine si è arricchita delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia tra i quali Alfonso Loreto, Romolo Ridosso e successivamente anche quelle di Andrea Spinelli.
Tra le estorsioni messe a segno dal clan quelle alla Sala Bingo di Scafati e al Re Bingo di Pompei gestito dai fratelli Moxedano. Tra gli episodi emersi nel corso delle indagini le estorsioni a numerosi industriali conservieri imposte dai nuovi rampolli del clan Loreto-Ridosso con la supervisione di Pasquale Loreto, il pentito che dalla località protetta gestiva gli affari insieme al figlio Alfonso nella sua terra di origine. Pasquale Loreto, protagonista della camorra degli anni ’90, anche da pentito riusciva ad incutere timore alle sue vittime, tanto che in alcune occasioni aveva fatto prelevare e minacciare dai suoi accoliti alcuni industriali per imporre loro di pagare il pizzo.

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Condannati i baby pusher del Vesuviano

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Si conclude il processo in primo grado dei presunti baby pusher dell’area Vesuviana. Sono cinque le condanne per poco più di 20 anni per i giovani coinvolti e ritenuti parte attiva di un gruppo dedito allo spaccio di droga tra Boscoreale, Poggiomarino e Scafati. Il verdetto è arrivato nella giornata di ieri. Gli imputati sono stati tuti giudicati con il rito abbreviato con condanne che partono dai 7 anni e terminano ai due anni. I tre minorenni coinvolti, invece, saranno giudicati dal Tribunale per i minori. La pena più grande è toccata al 20enne di Poggiomarino, si tratta di Bruno D’Avino. Fiore Bianco, 21enne di Boscoreale invece dovrà scontare 6 anni. Quattro anni per Giuseppe Nappo e Gianluca Marano di Poggiomarino. 2 anni e quattro mesi per Salvatore Verde di Scafati. A smantellare la banda un’accurata indagine dei carabinieri partita nel 2016. I militari grazie alle telecamere di videosorveglianza hanno notato dei movimenti sospetti di giovani dediti alla vendita al dettaglio della droga. Secondo gli inquirenti i minorenni sarebbero stati impiegati per la consegna delle dosi. Ognuno all’interno dell’organizzazione aveva un ruolo preciso, dal reperimento di grossi carichi, allo smistamento e alla vendita.

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Strage del bus ad Avellino, il giudice ordina una nuova perizia sulla dinamica: è protesta

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Avellino. Strage del bus nella scarpata: chiesta una nuova perizia sull’incidente. Tre perizie non sono state sufficienti a chiarire la dinamica dell’incidente che il 28 luglio 2013 provocò la morte di 40 persone, tutte a bordo di un bus turistico precipitato da un viadotto autostradale dell’A16 Napoli-Canosa. Così il giudice monocratico del tribunale di Avellino, dove e’ in corso il processo a carico di 15 persone imputate a vario titolo di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e omissioni varie, oltre che di falso in atto pubblico, ha disposto una nuova perizia, indicando in un ingegnere, docente presso l’università di Parma, l’esperto che dovrà valutare la dinamica e le cause dell’incidente. Al consulente del tribunale Felice Giuliani l’incarico sarà affidato nella prossima udienza, fissata per il 16 maggio prossimo. Una decisione che ha suscitato la reazione polemica dei parenti delle vittime presenti in aula, che temono, con la nuova perizia, un rallentamento nell’iter processuale, ormai lungo 5 anni. Il giudice Luigi Buono ha assicurato che fisserà un calendario serrato per arrivare alle conclusioni entro la fine di quest’anno. Nell’udienza di oggi ha reso dichiarazioni spontanee uno degli indagati tra i dirigenti di Autostrade per l’Italia, il responsabile del tronco dell’epoca, Michele Renzi. L’ingegnere ha spiegato il sistema di monitoraggio e manutenzione del tratto autostradale di sua competenza, chiarendo anche i livelli di responsabilità nel servizio e ribadendo che il sistema di protezione era superiore a quello richiesto e adeguato a un tratto che non presenta particolari criticità. Nella prossima udienza il giudice ha accolto la richiesta del pm Rosario Cantelmo di ascoltare nuovamente due testimoni superstiti dell’incidente per chiarire alcuni aspetti della dinamica e del comportamento dell’autista Ciro Lametta, morto nello schianto di Acqualonga. Nelle testimonianze già rese era emerso infatti che i passeggeri avevano avvisato molto prima l’autista di un possibile guasto al bus. Indicazioni che Lametta avrebbe ignorato, proseguendo la corsa fino a perdere totalmente il controllo del mezzo.

Cronache della Campania@2018

L’ex sindaco di Casapesenna confessa: ‘Nel 2010 pagai il pizzo al clan’

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“Nel 2010, quando ero sindaco di Casapesenna, diedi seguito ad una richiesta estorsiva del clan e pagai duemila euro”. Confessione choc quella resa nell’aula del tribunale di Santa Maria Capua Vetere dall’ex sindaco di Casapesenna Fortunato Zagaria, imputato con il boss omonimo Michele Zagaria, capoclan dei Casalesi, che nel paesino del Casertano ha sempre risieduto con fratelli e sorelle trascorrendovi parte della sua lunga latitanza; Zagaria fu stanato proprio a Casapesenna, nel bunker realizzato in via Mascagni a casa di una famiglia di fiancheggiatori, gli Inquieto, dagli uomini della Squadra Mobile di Napoli il 7 dicembre 2011. I due Zagaria rispondono del reato di violenza privata con l’aggravante mafiosa commesso ai danni dell’altro ex primo cittadino, costituitosi parte civile, Giovanni Zara, in carica per dieci mesi tra l’aprile 2008 e il febbraio 2009, e mandato a casa dalla sua stessa maggioranza, secondo la Procura antimafia di Napoli (pm Maurizio Giordano) proprio perche’ si opponeva apertamente ai condizionamenti del clan, allora molto forte perche’ il boss era latitante e si nascondeva a Casapesenna. “Pagai quei soldi attraverso il barbiere”, ha detto l’ex sindaco, riferendosi al negozio dove si recava tutte le mattine, e dove il clan gli faceva recapitare pizzini con le minacce; in uno dei messaggi, ha ricordato Zagaria, c’era scritto “sappiamo dove i tuoi figli vanno a scuola”, in un altro, “ti bruceremo la villa di Baia Verde”, che “era poi quella di mio fratello” ha precisato. L’ex primo cittadino, che nel processo risponde anche di concorso esterno in camorra, ha spiegato di “non aver mai denunciato all’autorita’ giudiziaria ne’ questo episodio ne’ altre minacce” pervenutegli dal clan mentre era in carica. “Avrei potuto cavalcare questa cosa come altri politici – ha proseguito – ma non l’ho fatto”. L’ex amministratore, che in totale ha governato a Casapesenna dal 1998 al 2008 e dal 2009 al 2010, quando fu arrestato proprio in seguito alla denuncia di Zara, ha poi negato di aver incontrato Michele Zagaria; degli incontri tra i due hanno invece parlato vari pentiti, tra cui l’ex vivandiere del boss, Generoso Restina. “Non l’ho mai visto – ha detto l’ex sindaco – tranne nel 1997 quando era ai domiciliari, nel senso che mi recai a casa di mia zia e lo vidi da lontano a casa sua”. L’ex primo cittadino ha negato inoltre di aver incontrato anche i fratelli del boss. Un’annotazione delle forze dell’ordine parla pero’ di un incontro tra l’ex sindaco e Carmine Zagaria, fratello di Michele. “Non e’ vero, quell’annotazione io e miei legali (Paolo Trofino e Giuseppe Stellato, ndr) l’abbiamo chiesta ma non e’ mai uscita. Potrei averlo salutato, ma non ricordo”. L’esame dell’ex sindaco proseguira’ il 12 giugno. Il boss Zagaria, che anche doveva essere esaminato, si e’ avvalso della facolta’ di non rispondere.

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