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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Rivelazione del segreto, l’ex pm della Dda Raffaele Marino assolto da ogni accusa

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Napoli. E’ stato assolto con formula piena dopo una condanna in primo grado il giudice Raffaele Marino, ex pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e procuratore aggiunto a Torre Annunziata, attualmente in servizio al Tribunale di Salerno. Il magistrato è stato assolto dall’accusa di rivelazione di segreto di ufficio dalla terza sezione della Corte di Appello di Roma, che ha accolto le richieste dei legali del magistrato, gli avvocati Alfonso Furgiuele e Giuseppe Fusco. Marino è stato assolto con formula ampia, ”perchè il fatto non sussiste”. L’imputazione si riferiva al fatto che Marino, quando era procuratore aggiunto a Torre Annunziata, aveva riferito a un sottufficiale dei carabinieri, investigatore presso la Dda, che un avvocato era sotto inchiesta. Tale informazione – come hanno spiegato Marino e i suoi legali durante il processo – era stata fornita rispondendo a domanda del sottufficiale, il quale chiedeva informazioni sull’avvocato perchè, dovendo partecipare a un convegno al quale avrebbe dovuto essere presente il legale, intendeva sapere se fosse opportuno accettare l’invito. La vicenda giudiziaria, che si è protratta per cinque anni, era stata all’origine del trasferimento prima al Tribunale di Pistoia e successivamente al Tribunale di Salerno, dove attualmente è in servizio nel settore civile. Marino da magistrato antimafia a Napoli ha condotto importanti inchieste sui clan della camorra coordinando, tra l’altro, le indagini che portarono all’individuazione e alla condanna degli autori dell’uccisione di Silvia Ruotolo, colpita a morte durante uno scontro tra clan rivali, e Annalisa Durante, anche lei vittima innocente della camorra, raggiunta da un proiettile durante una sparatoria nel rione Forcella. Marino era stato anche procuratore presso il Tribunale Napoli Nord quando fu istituito il nuovo ufficio giudiziario. 

Cronache della Campania@2018


Consip, il pm di Roma: “Su Scafarto il Riesame viola il diritto penale”

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Napoli. “Su Scafarto il Riesame viola il diritto penale”: lo sostiene la Procura di Roma che ha impugnato in Cassazione l’ordinanza del Riesame con la quale viene revocata la sospensione dal servizio per un anno del maggiore Gianpaolo Scafarto che ha indagato al Noe sul caso Consip. Secondo la Procura la decisione del Riesame rappresenta una “palese violazione del diritto penale, delle regole processuali che governano la prova indiziaria, di travisamento dell’ipotesi di accuse e dei fatti posti a suo fondamento”. Per il procuratore capo Giuseppe Pignatone e per i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi “l’impugnata ordinanza del Riesame, che trasforma orrori di sicuro rilievo penali in errori, qualificati con evidente ridondanza linguistica ‘involontari'”, è un provvedimento “che si contrappone alle regole del diritto sostanziale e processuale, della logica e del buonsenso”. Scafarto, indagato dalla Procura di Roma per falso, depistaggio e rivelazione del segreto d’ufficio, era stato sospeso per un anno dal servizio su richiesta dei magistrati romani. Il 27 marzo scorso il tribunale del Riesame di Roma ha annullato la sospensione disposta dal Gip Gaspare Sturzo, ma la in quindici pagine di ricorso, ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione.

Cronache della Campania@2018

Il boss stragista pentito ‘cacciato’ dal programma di protezione: ‘E ora come faccio a vivere senza un lavoro?’

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“Mi hanno fatto uscire dal programma di protezione senza un motivo. Sono stato abbandonato dallo Stato dopo sette anni. E ora non so più come andare avanti con una famiglia e con un bimbo piccolo di poco più di due anni che è nato durante il periodo in cui ero sotto protezione. Io non chiedo di vivere ma almeno di farmi sopravvivere per far crescere questo piccolo”. Parole e firma di Giuseppe Esposito detto ‘o maccarone, 53 anni, boss fondatore del famigerato clan Sarno di Ponticelli, cugino di Ciro ‘il sindaco’, e degli altri fratelli. Esposito, uno dei protagonisti della spietata strage del bar Sayonara a Ponticelli (novembre 1989, con 6 morti di cui 4 innocenti e numerosi feriti) è agli arresti domiciliari, dopo venti anni trascorsi in carcere. Deve scontare un’altra dozzina di anni di arresti in casa. “Posso uscire di casa per tre ore al mattino e tre ore la sera – spiega – ma dove vado? Non ho neanche i soldi della spesa. E non posso andare da nessuna parte a chiedere lavoro. Chi mi prende a questa età e con il mio curriculum criminale? Non capisco questa decisione della Procura di Napoli. Eppure io mi sono sempre comportato bene durante il programma di protezione. Mi fa rabbia questa cosa perché due anni fa dopo la ‘nuova stagione’ di omicidi a Ponticelli nella nostra famiglia con le uccisioni di Mario Volpicelli e Giovanni Sarno si è deciso di portare via dal quartiere e proteggerli circa 60 persone legate da vincoli familiari e di affiliazione. E io che sono uno dei fondatori del clan e che ho collaborato con lo stato dopo sette anni vengo scaricato senza motivo? Eppure Papa Francesco e il cardinale Sepe e tanti parroci napoletani non invitano sempre i camorristi a pentirsi, a convertirsi e a deporre le armi?. Ebbene io l’ho fatto. E a che è servito? E’ giusto che io sia stato abbandonato come un giocattolo che non piace più? Che devo fare? Mettermi un corda al collo?”.

Cronache della Campania@2018

Crac della Cassa di risparmio di Ferrara, indagati anche due finanzieri napoletani

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Ferrara. Crac Carife: ci sono anche due professionisti napoletani indagati per bancarotta fraudolenta nello scandalo della Cassa di Risparmio di Ferrara, inserito nel decreto Salvabanche del 2015 con Banca Marche, Etruria e Carichieti. La Procura di Ferrara ha chiesto un ultimo atto di proroga di indagini per i reati di bancarotta fraudolenta per dissipazione e per distrazione. Sono accusati gli ex amministratori di Carife che si sono succeduti dal 2007 al 2013 nella gestione della banca commissariata da Banca Italia per irregolarità e perdite del patrimonio. E anche tutti coloro che hanno avuto rapporti economici con Carife in questo periodo. Negli atti notificati in questi giorni, ai 25 indagati di cui si era già a conoscenza si sono aggiunti altri 9 nuovi indagati, mentre nelle migliaia di pagine depositate dalla Guardia di finanza di Ferrara alla procura sono state denunciate altrettante 99 persone e per le quali sono in corso verifiche, da qui la necessità di prolungare le indagini fino al novembre prossimo. Tra i nuovi indagati i dirigenti di vecchia Fondazione Carife, Piero Puglioli e Guido Reggio (già coinvolti ma poi archiviati nella prima indagini conclusa del crac Carife-aumento di capitale, processo fissato al 18 giugno con 12 imputati) e tecnici di Carife, Michele Sette (già imputato nel crac-aumento di capitale) e Gabriele Galliera, direttore commerciale. Due i professionisti napoletani coinvolti nell’inchiesta l’ex dirigente della finanziaria Commercio & finanza di Napoli, Giovanni Coraggio e il finanziere napoletano Raffaele Petrone, della FinPosillipo, società che aveva rapporti con ‘Commercio e Finanza’, una finanziaria che Carife acquistò nei primi anni 2000, e che diventò con l’esposizione documentata e denunciata dal commissario Antonio Blandini negli atti di 1 miliardo e 200 milioni di euro, la vera zavorra di Carife. I due napoletani sono le vere new entry dell’inchiesta. Gli altri indagati sono i dirigenti di CariCesena: Germano Lucchi, Maurizio Teodorani e Adriano Gentili, per i rapporti avuti con Carife e per altri fatti slegati al crac-aumento di capitale, processo per cui sono già imputati per bancarotta patrimoniale. 
L’inchiesta di procura e Guardia di finanza, come ribadiscono gli inquirenti nell’atto di proroga, deve «verificare le cause del dissesto e più in generale le eventuali condotte di rilevanza penale nella gestione della banca, nel corso degli anni». Una indagine complessa, le indagini hanno portato gli inquirenti a raccogliere riscontri ora selezionati in migliaia e migliaia di pagine: solo i nuovi documenti presentati un mese fa, sono racchiusi in oltre 11 faldoni e questo sarebbe il quinto deposito documentale, per dare l’idea della mole di carta da studiare e valutare. Nell’inchiesta, oltre ai nuovi 9 indagati figurano anche i vertici che si sono succeduti negli anni: l’ex dg Giuseppe Grassano, rimasto appena un anno su incarico consigliato da Banca Italia a Carife, Daniele Forin e Sergio Lenzi, vertici succeduti alla gestione storica Murolo-Santini. Poi i membri del vari cda dagli anni 2007 al 2013: gli ex consiglieri Tiziano Artioli, Marco Berti, Antonio Bondesani, Andrea Calamanti, Aleandro Capatti; Giuseppe Vancini, Simonetta Talmelli, Riccardo Fava, Paolo Govoni, Mario Guidi, Ennio Manuzzi, Massimo Marchetti, Teodorico Nanni, Corradino Merli e Renzo Ricci. Poi i sindaci Paolo Lazzari, Luigi Argentini e Valter Bignozzi, Stefano Leardini e Marco Massellani.

Cronache della Campania@2018

Assolto il giudice Marino: rivelò che un avvocato era sotto inchiesta

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La vicenda, lunga, finalmente è arrivata a conclusione. Il giudice Raffaele Marino, ex pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, ora in servizio al Tribunale di Salerno, è stato assolto dall’accusa di rivelazione di segreto di ufficio, assolto con formula piena: il fatto non sussiste. L’imputazione si riferiva al fatto che Marino, da procuratore aggiunto a Torre Annunziata, aveva riferito a Carmine Confuorto, un sottufficiale dei carabinieri, investigatore presso la Dda, che un avvocato era sotto inchiesta, Catello Di Capua, legale dei Casalesi. In primo grado, Marino era stato condannato a 5 mesi.

Cronache della Campania@2018

Castellammare, fece fuoco nella sala giochi: a processo il baby pistolero

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Castellammare di Stabia. E’ stato rinviato a giudizio Ivano. R. il 17enne che lo scorso 21 gennaio fece fuoco contro Catello Cerchia, figlio di un commerciante in centro città, in una sala giochi di Corso Vittorio Emanuele. Il figlio del noto pregiudicato resta nel carcere minorile di Nisida e dovrà difendersi dall’accusa di aver tentato di uccidere un 19enne. Resta, però, ancora il mistero sul movente di quel raid che sarebbe potuto sfociare in una tragedia.  Le immagini delle telecamere interne della sala giochi mostrano il baby sicario che fa irruzione nel locale e si dirige verso la vittima. Estrae la pistola ed esplode due colpi. Va via lasciando il 19enne in una pozza di sangue. Poi la corsa disperata in ospedale e i medici sono costretti ad asportargli la milza per salvargli la vita. Le indagini condotte dai carabinieri della compagnia di Castellammare di Stabia riescono quasi subito a stringere il cerchio e ad individuare l’autore che decide di consegnarsi  poco più di 48 ore dopo l’agguato. “Ho visto che aveva un coltello ed ho deciso di sparare” – questa la versione che fornì I.R. Una versione che non ha mai convinto gli inquirenti. I militari si concentrarono su altre piste, tra cui quella della droga e quella passionale. La vittima, però, non ha mai avuto problemi con la giustizia ma vantava di amicizie pericolose. C’è anche l’ipotesi che qualcuno abbia armato il 17enne ordinando di sparare il 19enne. Ora i pistolero dovrà difendersi dalle accuse di detenzione illegale di arma da fuoco e tentato omicidio.

Cronache della Campania@2018

Camorra, il pentito: ‘Anticipammo un agguato perché dopo c’era il Napoli in tv’

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La squadra del cuore, ovvero il Napoli prima di tutto. E il tifoso è tifoso e anche se camorrista pensa prima alla partita di calcio. Il singolare episodio della gambizzazione di un pusher che aveva “sgarrato” e punito in fretta e furia perché “dopo c’era la partita del Napoli in tv” è stato raccontato dal pentito Salvatore Marfè, esponente del clan Mauro del Rione Sanità ai magistrati della Dda di Napoli. Marfè, ex esponente dal clan Ferraiuolo di Forcella è uno dei due ultimi pentiti (l’altro è Rosario De Stefano del clan Lo Russo) che hanno contribuito con le loro dichiarazioni a smantellare il potente clan Vastarella del rione Sanità. Parte dei suoi racconti sono contenuti nella circa 400 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Francesca Ferri che il mese scorso ha portato in carcere il boss Patrizio Vastarella e gran parte del suo clan, in un’ inchiesta che vede 20 indagati. Ha raccontato Marfè: 

“…Alla Sanità ci sono stati diversi cambiamenti di fronte, diverse alleanze a cui hanno fatto seguito schieramenti contrapposti, ci sono cioè stati molti voltafaccia che cercherò di spiegare . I gruppi di cui parlo sono i Mauro, Esposito, Sequino, Savarese , Staterini – Vastarella. A questi gruppi si deve sempre aggiungere Miano cioè i Lo Russo che hanno sempre avuto voce in capitolo sulla Sanità e come spiegherò sono stati con noi alleati nel periodo in cui noi Mauro siamo stati alleati con Esposito Pierino ed il figlio Antonio che sono referenti dei Lo Russo alla Sanità unitamente a Lelle’…Non ho commesso in prima persona omicidi, ho partecipato solo a dei tentati omicidi… omissis… e poi nel periodo in cui stavo con i Mauro nel 2013 ai danni di un ragazzo che venne sparato in una gamba fuori al biliardo dietro a San Gennaro dei Poveri . In questa ultima occasione con me c’erano Emanuele Staterini e Antonio Vastarella il figlio di Patrizio, e Ciro Magallo . Ho poi preso parte ad una serie di sparatorie che hanno contrassegnato gli scontri armati , azioni dimostrative, di forza, nel periodo in cui siamo diventati contrapposti ai Sequino. Si deve cioè comprendere che uscito Pierino Esposito dopo due settimane fu fatto lui responsabile , il figlio Antonio era ai domiciliari a Marano, nel mese di agosto del 2013 si ruppero i rapporti tra i Sequino e Pierino nel senso che i Sequino ed i Savarese fecero l’alleanza con i Sibillo , mentre Pierino venne da noi ai Miracoli , ci spiegò la situazione ci disse che aveva litigato con Silvio Pellecchia dei Sequino e con Emanuele Sibillo . Ciro Mauro quindi si schierò con Pierino Esposito contro i Sequino ed i Savarese che si erano alleati con i Sibillo e quindi con i Forcelliani . Era assurdo che avessero stretto alleanza con Forcella, il quartiere è dei quartierani”. Dopo aver parlato dello scenario criminale del rione Sanità, Salvatore Marfè ha spiegato nei dettagli la gambizzazione di un pusher e dell’episodio della partita del Napoli in tv: “…mentre stavamo….allora fu prima… Fu prima che andammo a sparare a quel ragazzo dietro al San Gennaro. Questo vendeva l’erba. L’imbasciata l’aveva portata Antonio Vastarella e Emanuele Staterini e dato che, secondo me, Antonio è un tipo un poco eccentrico, quando ha qualcuno sott’occhio…comunque voleva togliersi una soddisfazione, perché si dice che questo era andato dai Sequino a portare la (…incomprensibile…) perché questo gli aveva fatto chiudere la piazza di spaccio. Comunque ci organizzammo di sera, loro volevano andare alle dieci alle undici, ed io dissi – “Ma quali dieci o undici! Ci sta la partita del Napoli!”. Erano le otto meno un quarto di sera, ed io dissi “Andiamocene ora”.
Con una 9×21 e con un’altra pistola…”. Il pm a quel punto gli chiede se era un sabato e o una domenica e se era una partita di campionato. E Marfè precisa: “no, no, era in settimana, secondo me era una partita di Europa League. Io dovevo andare a vedere la partita e dissi “ Andiamo là, facciamo una cosa presto presto”.
Comunque partimmo, andammo alle Fontanelle, prendemmo un SH nero , rubato, e un People, scendemmo le Fontanelle , entrammo per dove si va al San Gennaro, invece di andare verso il biliardo facemmo il giro per quel vicoletto di dietro, scendemmo per il San Gennaro…scendemmo per il San Gennaro, ci fermammo fuori al biliardo e di fronte c’erano sette-otto ragazzi, tra i quali c’era questo qua. Scese Antonio Vastarella dal motorino, gli andò vicino e gli sparò un colpo nella gamba. Ciro Magalli …vabbè che stava là faceva …non sparò comunque, si faceva notare con la pistola , faceva confusione…e ce ne andammo un’altra volta sopra ….Eravamo quattro di noi. Emanuele Staterini-Vastarella… coi caschi e quei cosi dietro…io guidavo il motorino, il People, con Ciro Magalli dietro, che poi doveva guidare lui ma che per forza fece guidare me, perché io non sono bravo a portare il motorino. e c’era Antonio Vastarella e Emanuele Staterini. Emanuele Staterini portava l’SH Honda, nero, rubato… nero, 300, rubato, il quale a me fu dato …questo motorino lo andai a prendere io a Miano. mi fu dato da Salvatore Silvestri, da Gigiotto. Gli avevano promesso a Pierino che gli davano un motorino perché non aveva niente…non teneva un motorino rubato per accompagnare. Comunque siamo arrivati fuori al biliardo, ci siamo fermati, Antonio è sceso dal motorino , è andato di fronte e ha visto il ragazzo , gli ha sparato la botta, ci siamo rimessi sopra al motorino, ce ne siamo risaliti di fronte dove abita (…incomprensibile…) dove abita o’ Filosc, va! Abbiamo fatto tutta la zona di Materdei e abbiamo rimasto i motorini …giù ci sono le Fontanelle e sopra ci sono i ferri che scendono le scale delle Fontanelle . Le pistole se le venne a prendere Michael detto il Nero e questa pistola… Michael. Questo è di colore scuro, è uno che è stato adottato dai Vastarella-Staterini…”. E infine la spiegazione del perchè della gambizzazione: “…gli abbiamo sparato perché vendeva l’erba dietro al San Gennaro e questi si era rivolto ai Sequino e, se non mi sbaglio, lo Scuro aveva sentito che questo si era rivolto ai Sequino e ce l’aveva detto ad Antonio. Antonio che era un tipo un po’ focoso… Vastarella. Tutto quello che aveva sullo stomaco del passato, che aveva subìto, o di qualche cosa, subito voleva togliersi le pietre dalle scarpe. Comunque quella sera organizzammo questa cosa e…. decidemmo perché… vendeva l’erba. non la doveva vendere perché noi là avevamo chiuso tutte le piazze. perché noi avevamo chiuso le piazze, se voleva vendere l’erba doveva portare i soldi a noi o doveva passare per noi. perché noi avevamo chiuso le piazze, se voleva vendere l’erba doveva portare i soldi a noi o doveva passare per noi”.

 Rosaria Federico

 @riproduzione riservata

 

 

Cronache della Campania@2018

Trattativa Stato-Mafia, chiesti 90 anni di carcere: i giudici in camera di consiglio

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Oltre 220 udienze, centinaia di testimoni di accusa e difesa, una trasferta persino al Quirinale per sentire il Presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e tante polemiche. Si avvia a conclusione il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Oggi, dopo cinque anni dalla prima udienza, i giudici della Corte d’assise sono entrati in Camera di consiglio per emettere la sentenza prevista per la fine della settimana. Anche se ogni ipotesi è aperta. E’ un fatto che i giudici popolari, sette in tutto, sono entrati in Camera di consiglio con tanto di borsoni, trolley, beauty case. Qualcuno, prima dell’inizio dell’aula si lascia andare a una battuta: “Le mie prigioni…”. Altri, preferiscono il silenzio. Ma l’ora x sta per avvicinarsi. Era il 27 maggio 2013, quando, davanti all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo, la stessa di oggi, si presentarono i pm dell’accusa, compreso Antonio Ingroia, che allora era Procuratore aggiunto di Palermo. Ma fu pm solo per poco perché il mese successivo volò in Guatemala per ricoprire un ruolo su incarico dell’Onu. Sul banco degli imputati siedono dieci imputati, quattro sono appartenenti a Cosa Nostra, tra cui il Capo dei capi Salvatore Riina, che nel frattempo è deceduto ma che risulta ancora alla sbarra, e poi Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà. La posizione di Bernardo Provenzano, che nel frattempo è morto, era stata stralciata per motivi di salute. Imputati anche quattro rappresentanti delle istituzioni, cioè Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Marcello Dell’Utri, accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Massimo Ciancimino è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro, mentre Nicola Mancino è accusato di falsa testimonianza. Anche la posizione dell’ex ministro Calogero Mannino e di Bernardo Provenzano, nel frattempo deceduto, furono stralciate. La Procura di Palermo, al termine della requisitoria, aveva chiesto la condanna a 15 anni di carcere per l’ex capo del Ros Mario Mori. Chiesti rispettivamente 12 anni e 12 anni per gli altri due ufficiali dell’Arma accusati: Antonio Subranni, prima di Mori al comando del Raggruppamento Speciale dei carabinieri, e Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per Marcello Dell’Utri. Per l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di aver detto il falso, la procura chiede una condanna a 6 anni. Una condanna viene chiesta anche per i mafiosi che vollero minacciare lo Stato a suon di bombe: 16 anni per Leoluca Bagarella, 12 per Antonino Cinà. Per Massimo Ciancimino, accusato di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni Di Gennaro, la procura chiede 5 anni. Per l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, viene invece sollecitato il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione”. Stessa richiesta per il pentito Giovanni Brusca.

Tra le parti civili spiccano la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Comune di Palermo, il centro Pio La Torre. Secondo l’accusa, all’inizio degli Anni Novanta ci sarebbe stata una sorta di trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato italiano, per raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, in cambio dell’attenuazione delle misure detentive. Tutto partirebbe all’indomani della sentenza del Maxi-processo del gennaio 1992, quando Cosa Nostra decise di eliminare gli amici ‘traditori’ e i grandi nemici. Così, nel giro di pochi mesi furono uccisi l’eurodeputato Dc Salvo Lima, ma anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma per i magistrati, oltre alla vendetta, l’obiettivo di Cosa Nostra era anche quello di ricattare lo Stato. Così furono organizzati una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni. Secondo l’accusa, la trattativa sarebbe proseguita anche oltre l’arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993. L’impianto accusatorio si basa, tra l’altro, sulle testimonianze di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, e Giovanni Brusca. Ciancimino, nel corso di una decina di udienze, più volte rinviate per lo stato di salute precario dell’imputato, ha ricostruito tutti gli incontri che sarebbero avvenuti fra i Carabinieri e il padre. Mentre Giovanni Brusca è il primo a parlare del cosiddetto «Papello», cioè la lista di richieste di Totò Riina allo Stato. E’ ancora Brusca ad avere indicato l’ex Presidente del Senato Nicola Mancino come terminale ultimo degli accordi.  Suscitò clamore la decisione dei pm di sentire, al Quirinale, il Presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. L’ex Capo dello Stato venne sentito, tra le polemiche politiche, il 28 ottobre 2014. In ‘aula’ anche l’allora Procuratore aggiunto Leonardo Agueci, oltre ai pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi. Più di recente non sono mancate ulteriori polemiche. Come lo scorso 19 ottobre, quando si regsitrò uno scontro tra il consulente della difesa di Marcello Dell’Utri e i consulenti della procura sulle intercettazioni delle conversazioni tra il boss Giuseppe Graviano e il detenuto Umberto Adinolfi ascoltate dalle microspie in carcere, nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Gli esperti interpellati dal legale di Dell’Utri, hanno riascoltato le conversazioni captate in carcere e hanno smentito che Graviano abbia mai pronunciato la parola “Berlusca”. Ma l’esperto ha contestato anche la trascrizione di altri due dialoghi in cui, per la procura, si parlerebbe di Berlusconi. In uno il nome dell’ex premier sarebbe incomprensibile, in un altro, invece di “B”, si sentirebbe “Mi”. Il giorno dopo, è il 20 ottobre scorso, lo stesso Graviano, chiamato a deporre davanti alla Corte d’assise di Palermo si è avvalso della facoltà di non rispondere. Una facoltà che gli è stata consentita in quanto indagato in un procedimento connesso. Graviano avrebbe dovuto riferire su alcune sue conversazioni in carcere col detenuto Umberto Adonolfi. I dialoghi, intercettati per mesi, sono stati ritenuti rilevanti per il processo trattativa. Adesso, il processo è in dirittura d’arrivo. Proprio negli stessi giorni in cui dovrebbe essere formato il nuovo Governo.

 

Cronache della Campania@2018


Camorra, il pentito: ‘Zia Rosaria quando manda un’imbasciata il suo ordine viene eseguito immediatamente’

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“Quando manda un’imbasciata il suo ordine viene eseguito immediatamente”, si può sintetizzare in queste parole il potere criminale di Rosaria Pagano detta, zia Rosaria. La donna boss per antonomasia. E’ in carcere dal 17 gennaio dello scorso anno quando con un blitz ordinato dalla Dda di Napoli fini in carcere con altri 17 affiliati. Blitz ordinato dal gip Ludovica Mancini e che vede indagati complessivamente 58 persone tra esponenti di spicco e semplici manovali della cosca degli Amato-Pagano e di alcune famiglie camorriste satelliti dei melitesi. Ma zia Rosaria per quell’inchiesta ha ricevuto il provvedimento di scarcerazione per decorrenza dei termini della custodia cautelare grazie alla difesa dei suoi avvocati Luigi Senese ed Emilio Martino. resta però in carcere per un residuo pena di pochi mesi per riciclaggio. E quindi la donna boss potrebbe presto tornare in libertà se non interverranno fatti nuovi nel frattempo. Di lei nelle 382 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare , relative al blitz del gennaio scorso, parlano molti pentiti. Ma uno in particolare, Fabio Vitagliano, ex componente del gruppo di fuoco del clan, arrestato insieme con altri cinque complici la sera di Capodanno del 2012, mentre si preparavano a un agguato. Ecco il racconto di Vitagliano che poco dopo il suo arresto decise di passare dalla parte dello Stato.

“E’ uno dei capi, perché quando manda un’imbasciata il suo ordine viene eseguito immediatamente. La ZIA ROSARIA ha una quota su tutte le attività criminali del clan, non so di quanto sia ma è di milioni di euro; è Mariano RICCIO che divide le quote per la famiglia Amato-Pagano. Io so che ZIA ROSARIA andava ai colloqui in carcere con i figli, sempre accompagnata non so da chi; non so se andava anche dai fratelli. Zia Rosaria abita a Via Cicerone a Melito, io ci sono stato con BAIANO Emanuele, TEATRO Raffaele e ROMANO Mirco. Le prime volte rimanevo fuori, poi durante la faida sono entrato in casa; la casa è molto bella. Voglio precisare che parlavano dinanzi a me di cose semplici del clan, per esempio “rapporti con la Vinella”, “come vanno le piazze”; quando poi il discorso diventava delicato, la Zia Rosaria si alzava e Baiano, o Teatro, o Romano si spostavano in un ‘altra stanza ed io rimanevo in cucina. Qualche volta in casa c ‘era la moglie di PAGANO Carmine, detto ANGIOLETTO, che rimaneva con me a farmi compagnia e qualche volta c ‘era anche un ‘altra signora che saprei riconoscere. Io non ho mai sentito discussioni o voci alterate, anche perché la Zia Rosaria non strilla. Qualche volta dopo che la Zia Rosaria si appartava con le persone che ho detto prima. quando tornavano e ci salutavamo per andare via, la Zia Rosaria diceva ” ci siamo chiariti, non voglio sapere più niente”. Ricordo un episodio specifico, verifìcatosi dopo che io, Romano Mirco, LIGUORI Gennaro e PALMA Pasquale, andammo alla 219 da TURAM, ossia FRANCESCO, che era in quel periodo era il responsabile della 219; nell’occasione il ROMANO lo picchiò perché si stava comportando male. Poco dopo il Romano venne convocato dalla Zia Rosaria; in quell’occasione si fece accompagnare da me e me la presentò. Quella volta io ero in macchina ad attendere, loro uscirono e MIRCO mi presentò alla Zia Rosaria, dicendo che ero “FABIO un fratello nostro”, anzi lui mi chiamava il “parente. La donna mi invitò ad entrare in casa, io rimasi nel salone e loro andarono in un ‘altra stanza a parlare; quando uscirono i due ridevano e MIRCO disse “la prossima volta a TURAM non gli faccio uscire il sangue ma gli spezzo proprio il collo”; la Zia Rosaria continuo’ a ridere…né BAIANO né il TEATRO hanno mai commentato i discorsi fatti con Zia Rosaria in modo riservato, credo parlassero di soldi e comunque non erano mai sereni né quando andavamo né al ritorno…”.

Antonio Esposito

@riproduzione riservata

 (nella foto Rosaria pagano al momento dell’arresto dello scorso anno e nel riquadro il pentito Fabio Vitagliano)

Cronache della Campania@2018

Delitto di Ravello: ai domiciliari Vincenza Dipino

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Arresti domiciliari per Vincenza Dipino, la 57enne di Ravello accusata dell’omicidio della scafatese Patrizia Attruia, per motivi di gelosia torna a casa. E’ la clamorosa decisione accolta dai giudici dopo la decisione della Corte d’Assise d’Appello che aveva ridotto da 23 a 9 anni di carcere la sua condanna riconoscendole un ruolo secondario nell’omicidio. La richiesta avanzata da suoi legali di fiducia, gli avvocati Stefania Forlani e Marcello Giani, riporta a casa la donna che era in carcere dal marzo del 2015. Andrà ad abitare , molto probabilmente, nella stessa casa dove si è consumato il delitto. Resta in carcere invece il suo compagno Giuseppe Lima che è diventato il principale responsabile di quell’omicidio e per il quale nel processo che si sta celebrando con il rito abbreviato il pm Giancarlo Russo ha chiesto 30 anni di carcere. un omicidio passionale dettato dalla difficile convivenza di un “Ménage à trois” nella casa di Ravello dove la scafatese Patrizia Attruia aveva trovato ospitalità: la donna fu uccisa e fu ritrovata in una cassapanca. La Dipino si accusò dell’omicidio ma come hanno stabilito i giudici dell’appello quella confessione fu “forzata” per salvare Lima del quale la donna era succube e innamorata. E ora dopo tre anni di carcere  torna a casa.

 

Cronache della Campania@2018

Corruzione, sequestro beni all’ex sindaco di Giugliano e consigliere regionale Giovanni Pianese

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Giugliano. La Guardia di Finanza di Napoli ha eseguito un decreto di sequestro patrimoniale per un valore di circa 6 milioni di euro nei confronti di Giovanni Pianese, ex sindaco di Giugliano in Campania (Napoli) e già consigliere regionale della Campania. Il sequestro è stato disposto dal gip di Napoli su richiesta della Direzione distrettuale antimafia ad esito di indagini condotte dal Gico della Guardia di Finanza di Napoli nei confronti di Pianese, indagato per presunti episodi di corruzione risalenti al 2011, periodo in cui ricopriva la carica di sindaco di Giugliano in Campania. Già a luglio 2017 Pianese è stato raggiunto da un provvedimento cautelare per 250mila euro per una presunto caso di corruzione relativo all’approvazione del piano di lottizzazione nella zona di Lago Patria, denominata “Ex Terre di Ferlaino”, in cui aveva interessi di investimento la società Progetto Grano spa. Gli approfondimenti sul patrimonio accumulato nel tempo dall’ex primo cittadino giuglianese, secondo gli investigatori, avrebbe evidenziato una disponibilità di beni non coerente con le effettive fonti di ricchezza delle quali risultava ufficialmente titolare, portando alla luce una sproporzione tra i beni a lui riconducibili e i redditi dichiarati. Il sequestro, eseguito dal nucleo di polizia economico-finanziaria di Napoli, riguarda 5 auto, 8 immobili tra Gaeta, Roccaraso e Giugliano in Campania, quote societarie, una farmacia e 22 rapporti finanziari, 3 dei quali aperti in Svizzera, nella piena disponibilità di Pianese e del proprio nucleo familiare.

Cronache della Campania@2018

Evasione fiscale, sequestro da un milione di euro per un’azienda di Vallo della Lucania

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Salerno. Da una verifica fiscale svolta dai Finanzieri della Tenenza di Vallo della Lucania, Salerno, nei confronti di un’azienda operante sul territorio, il Tribunale ha disposto il sequestro per equivalente di beni per un valore pari a circa 1 milione di euro. Il provvedimento cautelare, promosso dalla Procura della Repubblica di Vallo della Lucania ed eseguito nei confronti di una società operante nel settore dell’installazione di impianti idraulici e di condizionamento, è giunto al termine di una complessa attività di polizia economico-finanziaria che ha visto i Finanzieri salernitani impegnati a ricostruire la reale contabilità aziendale e ad accertare un’evasione fiscale pari a 960 mila euro. A fronte del provvedimento dell’Autorità Giudiziaria, le Fiamme Gialle hanno sequestrato, a tutela degli interessi dell’Erario, diversi beni immobili intestati al rappresentante legale dell’azienda, tra cui terreni e 4 fabbricati (magazzini e locali commerciali). 

Cronache della Campania@2018

Mala milanese, Vallanzasca chiede la libertà condizionale e la semilibertà: il ‘bel Renè torna in aula

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Milano. Renato Vallanzasca, protagonista della mala milanese e condannato a 4 ergastoli e 296 anni di carcere, ha avuto un “cambiamento profondo”, “intellettuale ed emotivo”, “non potrebbe progredire con altra detenzione” e dunque si ritiene che “possa essere ammesso alla liberazione condizionale”, ossia possa concludere la pena fuori dal carcere in regime di libertà vigilata. Lo scrive l’equipe di osservazione e trattamento del carcere di Bollate in una relazione depositata dalla difesa al Tribunale di Sorveglianza che deve decidere sull’istanza di liberazione condizionale e la semilibertà avanzata dalla difesa del ‘Bel Renè’. Nel fascicolo al vaglio dei giudici del Tribunale di Sorveglianza c’è anche un rapporto disciplinare nei confronti della guardia penitenziaria che ebbe una discussione, lo scorso agosto, nel carcere di Bollate con Renato Vallanzasca, protagonista della mala milanese tra gli anni ’70 e ’80. La semilibertà gli era stata revocata nel 2014 dopo che era stato arrestato in un supermercato per rapina impropria di oggetti di poco valore. Durante un permesso premio era stato sorpreso da un vigilante dell’Esselunga di viale Umbria a Milano mentre avrebbe tentato di rubare due paia di boxer, delle cesoie e del concime per le piante per un valore di circa 70 euro. Episodio che gli è valso una condanna a 10 mesi per tentata rapina impropria e soprattutto il ritorno al regime carcerario. Nell’agosto del 2017, poi, Vallanzasca è tornato a far parlare di sè. Questa volta per l’aggressione di un agente a Bollate, nell’area colloqui, in presenza di altri detenuti e familiari. La direzione del carcere ha avviato accertamenti per ricostruire i fatti, un “alterco” più che vivace tra l’ex bandito della ‘ligera’, la mala milanese, e il poliziotto penitenziario. L’Osapp, sindacato degli agenti, aveva detto che il Bel Rene’ aveva “scagliato” una borsa piena sulla gamba del poliziotto penitenziario, che “per il trauma ha dovuto lasciare il servizio”, mentre tra i presenti ci sono stati “attimi di tensione”. E il segretario dell’Osapp, Leo Beneduci aveva colto l’occasione per segnalare “i limiti” di determinati “modelli ‘custodiali'” troppo “permissivi”. Il difensore di Vallanzasca, l’avvocato Davide Steccanella, oggi ha chiesto ai giudici di acquisire “copia del rapporto disciplinare” stilato dal carcere di Bollate su quell’episodio che inquadrerebbe in maniera del tutto diversa l’operato dell’agente. I giudici si sono riservati di decidere nei prossimi giorni se concedere o meno a Vallanzasca la misura alternativa al carcere. Vallanzasca è tornato in aula davanti ai giudici della Sorveglianza (udienza a porte chiuse) che, dopo l’acquisizione di questo nuovo documento a lui favorevole, dovranno decidere nei prossimi giorni. “Confido – ha spiegato l’avvocato Davide Steccanella – che il Tribunale accolga un’istanza che alla luce di quanto scrive il carcere di Bollate (in una relazione, ndr) appare del tutto legittima dopo mezzo secolo di carcere”.
La lite dell’agosto scorso tra Vallanzasca e un agente carcerario di Bollate è comunque ben lontana dalle sommosse di cui il ‘bel René’ è stato protagonista negli anni ’70-’80 e per le quali venne trasferito da un istituto all’altro. Nato nel 1950, due mogli, un’infinità di storie sentimentali vere o presunte, 4 ergastoli e 296 anni di reclusione, è diventato un personaggio per la sua ‘carriera’ criminale, l’amore per la bella vita e le belle donne. Ha 18 anni quando entra nel giro dei malavitosi del quartiere Comasina. A 22 il primo arresto per una rapina in un supermercato: condannato a 10 anni, fugge corrompendo un agente. Nel 1976 il salto di qualità, la lotta col clan di Turatello. Poi il sequestro di Emanuela Trapani, figlia di un imprenditore, e dell’imprenditore del legno Rino Balconi. Latitante, a ottobre uccide a un casello l’agente della polstrada Bruno Lucchesi. Pochi giorni dopo ammazza un medico, Umberto Premoli, pare per rubargli l’auto e continuare la fuga. Il 6 febbraio 1977 in una sparatoria a Dalmine vicino Bergamo, uccide due agenti della stradale: ferito ad una gamba viene arrestato nove giorni dopo. Nell’aprile 1980 tenta di evadere da San Vittore, poco tempo dopo partecipa alla rivolta nel carcere di Novara e uccide il detenuto Massimo Loi, facendone trovare la testa in una cella. Nel 1984 nuova mancata fuga da Spoleto. Ci riesce tre anni dopo a Genova con un’evasione rocambolesca dall’oblò della nave con cui stava per essere trasferito all’Asinara. La fuga dura alcune settimane. Ne tenterà un’altra nel 1995 da Novara. A partire dal 2010 più volte, non senza polemiche, ottiene l’ammissione al lavoro esterno, per poi rientrare in carcere nel 2014 dopo il tentativo di furto al supermercato.

Cronache della Campania@2018

Moto sospette: ristoratore, preso dalla paura, spara colpi di pistola contro quattro persone

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Parete. Sparatoria a Parete, in provincia di Caserta. Secondo quanto ricostruito dai Carabinieri, Federico Falco di 50 anni ha esploso diversi colpi di pistola in aria mentre si trovava all’interno del cortile di casa dei genitori in via Matteotti, con un’arma legalmente detenuta. L’uomo avrebbe sparato per paura all’arrivo di quattro persone a bordo di due moto che, dall’esterno dell’abitazione, a suo dire gli avrebbero puntato una pistola contro. Non si registrano feriti. I Carabinieri stanno eseguendo un’ispezione per verificare eventuali danni da proiettili vaganti. Il 50enne è proprietario di un ristorante e di uno stabilimento balneare sul litorale domizio. Ai carabinieri Falco ha raccontato di aver visto quattro uomini giungere a bordo di due moto all’esterno dell’abitazione; uno gli avrebbe puntato l’arma contro, e a quel punto Falco avrebbe sparato quattro volte in aria con la sua calibro 38 legalmente detenuta. L’uomo non ha riferito di minacce o intimidazioni di matrice camorristica. I carabinieri hanno effettuato un sopralluogo nelle strade del centro per accertare la presenza di proiettili. La scorsa vigilia di Natale, un ragazzo di 14 anni fu ferito alla testa proprio da un proiettile vagante mentre era sulla strada principale del paese con gli amici. Il responsabile di quel gesto non è stato ancora individuato, ma intanto il minore, dopo mesi di ospedale, si è ripreso ed è tornato a casa. 

Cronache della Campania@2018

Operazione ‘Paga globale’, arrestato un imprenditore napoletano e sei professionisti campani

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Parma. Nell’ambito dell’operazione denominata ‘Paga Globale’, i militari del comando provinciale della guardia di finanza di Parma hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di misura cautelare personale con contestuale emissione di decreto di sequestro preventivo, emessa dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Parma, su richiesta della Procura della Repubblica di Parma, nei confronti di un sodalizio criminoso dedito alla frode fiscale ed alla truffa ai danni dello Stato. L’ordinanza in questione ha portato all’arresto, in custodia cautelare in carcere, di un imprenditore di origini campane che operava nel territorio parmense nel settore dell’impiantistica industriale, e di altre sei persone, finite agli arresti domiciliari, coinvolte a vario titolo nella vicenda. Tra questi ultimi figurano cinque professionisti, di stanza nel napoletano ma operanti nel territorio parmense, che avevano messo a disposizione dell’imprenditore campano le proprie competenze per scopi fraudolenti. Le indagini, condotte dalla tenenza della guardia di finanza di Fidenza e coordinate e dirette dalla Procura della Repubblica di Parma, sono nate da un’attività di verifica fiscale avviata nei confronti di due distinte società, riconducibili all’imprenditore arrestato. L’esame preliminare della documentazione contabile ed extracontabile ha portato alla luce, sin da subito, un meccanismo artificioso e fraudolento posto in essere ai danni dell’Inps: uno schema criminoso, spiegano gli inquirenti, che prevedeva il sistematico e illecito ricorso agli istituti della malattia e dell’ammortizzatore sociale del contratto di solidarietà. Infatti, i lavoratori dipendenti, pur risultando assenti per malattia o inseriti nel programma di riduzione dell’orario di lavoro, continuavano a lavorare nei medesimi giorni in cui sarebbero dovuti essere a riposo, percependo lo stipendio con un sistema di retribuzione ufficioso definito ‘paga globale’. In sostanza, il lavoratore veniva retribuito, a prescindere dalle previsioni del contratto nazionale di categoria del settore, con una paga oraria forfettaria: le buste paga ufficiali erano regolarmente predisposte con l’inserimento delle ore da contratto sindacale, mentre la retribuzione effettiva veniva calcolata sulla base dei fogli di lavoro, con le ore effettivamente svolte. Con tale modus operandi, quindi, a farne le spese era lo Stato, sia in quanto erogatore, al posto del datore di lavoro, di indennità non dovute, sia perché incamerava meno tasse a titolo di trattenute fiscali e previdenziali. A perderci, tuttavia, sono stati anche gli stessi dipendenti i quali, pur percependo nell’immediato una retribuzione più alta, non hanno maturato la giusta contribuzione ai fini pensionistici.
Per contro, con tale stratagemma, la società era riuscita, nel tempo, a contabilizzare indebitamente ingenti crediti erariali grazie all’anticipo, per conto dell’Inps, delle indennità economiche di malattia e contratto di solidarietà. Questi crediti, fittizi e non spettanti, venivano successivamente utilizzati per compensare i debiti tributari e, conseguentemente, non versare le altre imposte dovute all’amministrazione finanziaria (quali ritenute alla fonte, Iva e imposte sui redditi). I dipendenti, peraltro, a loro insaputa, erano stati anche sottoposti a licenziamento collettivo e collocati in mobilità, per poi essere immediatamente riassunti da un’altra società riconducibile alle stesso imprenditore: in questo modo, grazie alla consulenza dei professionisti compiacenti, l’imprenditore ha potuto accedere alle agevolazioni previste per l’assunzione di lavoratori in mobilità, pagando meno di un quinto dei contributi previdenziali effettivamente dovuti. L’attività di indagine, sviluppata mediante intercettazioni telefoniche e ambientali, pedinamenti, appostamenti ed esame documentale, oltre alla truffa ai danni dello Stato, ha consentito di svelare un sistema criminoso “ampio e collaudato” nel quale l’imprenditore, grazie al contributo di vari professionisti ed alla costituzione di una serie di società succedutesi nel tempo, era riuscito a costruirsi una realtà contabile totalmente artefatta.
Gli espedienti posti in essere per suffragare l’attività, spiegano gli inquirenti, spaziavano dalla simulazione di operazioni straordinarie (affitto di rami d’azienda) all’emissione ed annotazione di fatture per operazioni inesistenti (avvalendosi di numerose società cartiere, tutte facenti capo ad un ulteriore soggetto, finito a sua volta agli arresti domiciliari), passando per l’indebita fruizione di agevolazioni fiscali e la compensazione di tributi con crediti Iva inesistenti. Nel giro di un paio d’anni, gli illeciti hanno fruttato oltre 2,6 milioni di euro. Nell’ambito dell’indagine, inoltre, gli inquirenti hanno accertato anche un episodio di usura, posto in essere da uno dei professionisti coinvolti nella vicenda, nei confronti di un imprenditore del parmense. In particolare, a seguito della querela sporta dall’usurato, sono stati svolti accertamenti documentali e bancari, che hanno consentito di accertare l’applicazione di un tasso usurario del 117% su un prestito di 10.000 euro, concesso per sopperire ad una momentanea mancanza di liquidità. Gli esiti delle attività investigative hanno indotto l’autorità giudiziaria all’emissione, oltre che dell’ordinanza di custodia cautelare, anche di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta e, in alternativa, per equivalente, di beni mobili, immobili, quote societarie e disponibilità liquide delle società coinvolte e dei solidali fino alla concorrenza dei tributi evasi, pari a 2,3 milioni. Contestualmente all’ordinanza di custodia cautelare, sono state eseguite, su disposizione della Procura della Repubblica di Parma e con l’impiego di circa 100 militari del comando provinciale Parma e dei reparti del corpo territorialmente competenti, circa 30 perquisizioni locali, in provincia di Parma, Napoli, Salerno, Modena, Reggio Emilia, Roma e Crotone, nei confronti dei 26 indagati per truffa ai danni della Stato e frode fiscale. 

Cronache della Campania@2018


Crollo a Torre Annunziata: indagini concluse, sedici persone indagate

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Torre Annunziata. Crollo in via Rampa Nunziante: concluse le indagini per la vicenda che causò la morte di otto persone. La Procura della Repubblica di Torre Annunziata, tramite la Compagnia dei Carabinieri di Torre Annunziata ed il locale Commissariato Ps, ha eseguito la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari nei confronti di sedici soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda del crollo del palazzo di Via Rampa Nunziante il 7 luglio 2017 che portò alla morte di otto persone. Le indagini svolte dalla Procura, dai Carabinieri e dalla Polizia, corroborate dalle consulenze tecniche sulle cause del crollo e sulla legittimità urbanistica dei lavori, hanno permesso di delineare un quadro chiaro in ordine alle responsabilità, sia relativamente al crollo che agli abusi urbanistici e ai connessi falsi in atto pubblico rilevati. La consulenza tecnica redatta dai professori Nicola Augenti e Andrea Prota ha consentito di accertare che causa del crollo sono stati i lavori di manutenzione straordinaria eseguiti da Velotto Gerardo al secondo piano del palazzo in assenza di qualsivoglia titolo abilitativo, tramite la demolizione di tramezzi divisori che, sovraccaricando il maschio murario al secondo piano, nonché indebolendo in modo significativo detto maschio in quanto la compagine muraria veniva privata in più punti di elementi lapidei (pietre di tufo), cagionavano lo schiacciamento dei maschi murari che costituivano il muro perimetrale esterno a nord, prospiciente la ferrovia. Le indagini hanno disvelato il ruolo di direttore dei lavori di fatto rivestito dall’architetto Massimiliano Bonzani. Quest’ultimo, inoltre, insieme all’architetto Manzo Aniello e all’architetto Giacomo Cuccurullo (deceduto nel crollo) sono ritenuti responsabili del crollo (crollo preceduto dalla comparsa di lesioni lungo i paramenti oltre che nello spessore dei maschi murari), in quanto, nonostante la sussistenza di uno stato di dissesto evidente e di una situazione pericolosa dei luoghi a loro nota (anche in relazione alle loro conoscenze tecniche), ponevano e/o facevano porre in opera presidi di assicurazione (quali isolati puntelli metallici, “spallette” di mattoni pieni) chiaramente insufficienti al consolidamento delle strutture e, ignorando e/o sottovalutando tali segnali di pericolo imminente manifestatisi per tempo, non ponevano in essere le opere di assicurazione necessarie ad evitare il crollo, né disponevano o facevano disporre, segnalando la suddetta situazione di pericolo ai Vigili del Fuoco, lo sgombero dell’immobile, così da evitare il decesso di Cuccurullo Giacomo, Laiola Adele, Cuccurullo Marco, Aprea Giuseppina, Guida Pasquale, Duraccio Anna, Guida Francesca e Guida Salvatore. Analogamente, è stata ritenuta la responsabilità di Cuomo Robe1io, amministratore, a conoscenza dell’illegittimità di tali lavori di manutenzione straordinaria e dell’esecuzione in corso dei medesimi, il quale ometteva di richiedere a Velotto Gerardo l’esibizione dei titoli abilitativi, nonostante diversi condomini avessero segnalato l’esecuzione di lavori di notevole rilevanza realizzati con martello pneumatico azionato per diverse ore del giorno e, conseguentemente, ometteva di verificare la portata degli stessi e di adottare i necessari provvedimenti a tutela della incolumità dei condomini e di terzi e /o di inoltrare la doverosa segnalazione agli organi competenti. Più nel dettaglio, Velotto Gerardo ed il direttore di fatto dei lavori Bonzani Massimiliano, con la collaborazione materiale di un operaio Pasquale Cosenza, eseguivano lavori illegittimi di manutenzione straordinaria ed effettuavano la demolizione dei tramezzi divisori inizialmente presenti nella zona nord-ovest del secondo piano ed in particolare del tramezzo divisorio presente in adiacenza alla trave emergente in cemento annata; in tal modo sovraccaricando il maschio murario al secondo piano, compreso tra il primo e il secondo vano della facciata nord rispetto ai pesi sopportati sino a quel momento, indebolendo in modo significativo detto maschio in quanto la compagine muraria veniva privata in più punti di elementi lapidei (pietre di tufo), con la conseguenza di ridurre la sezione reagente dell’elemento portante e di minare l’integrità della predetta compagine muraria. Tali lavori cagionavano lo schiacciamento dei maschi murari che costituivano il muro perimetrale esterno a nord, prospiciente la ferrovia; schiacciamento che aveva origine con la rottura per presso­flessione deviata del suddetto maschio murario (quello compreso tra il primo e il secondo vano della facciata nord) il cui collasso determinava un sovraccarico progressivo dei maschi adiacenti. I lavori non furono sospesi, fermati o impediti né dall’amministratore del palazzo, Roberto Cuomo, a conoscenza dell’illegittimità di tali lavori di manutenzione straordinaria e dell’esecuzione in corso dei medesimi, nonostante diversi condomini avessero segnalato l’esecuzione di lavori di notevole rilevanza realizzati con martello pneumatico azionato per diverse ore del giorno, né dagli architetti Bonzani, Manzo ed il deceduto Cuccurullo Giacomo, i quali, nonostante il fenomeno di crollo fosse stato preceduto dalla comparsa di lesioni lungo i paramenti (interno ed esterno), oltre che nello spessore dei maschi murari, nonostante la sussistenza di uno stato di dissesto evidente e di una situazione pericolosa dei luoghi a loro nota anche in relazione alle loro conoscenze tecniche, nei giorni immediatamente antecedenti al crollo ponevano e/o facevano porre in opera presidi di assicurazione (quali isolati puntelli metallici, “spallette” di mattoni pieni) chiaramente insufficienti al consolidamento delle strutture e, ignorando e/o sottovalutando tali segnali di pericolo imminente manifestatisi per tempo, non ponevano in essere le opere di assicurazione necessarie ad evitare il crollo, né disponevano o facevano disporre, segnalando la suddetta situazione di pericolo ai Vigili del Fuoco, lo sgombero dell’immobile che avrebbe evitato il decesso di otto persone tra cui il Cuccurullo e la sua famiglia. Le indagini e la consulenza redatta dal prof, Alberto Coppola hanno permesso di accertare anche l’illegittimità dei lavori edilizi al primo piano (che, però, nessuna rilevanza hanno avuto sul crollo) ed al secondo piano (lavori che hanno comportato il crollo del palazzo). Dalle investigazioni è emerso altresì un allarmante quadro in ordine alle falsità ideologiche commesse dai proprietari degli appartamenti per attestare la legittimità urbanistica del palazzo e dei lavori da effettuarsi. L’arch. Massimiliano Bonzani (attualmente sottoposto alla misura interdittiva dall’esercizio della sua professione per mesi dieci proprio per i falsi commessi) ha reiteratamente attestato in atti a sua firma (SCIA, DOCFA, etc.) che il palazzo fosse legittimo dal punto di vista urbanistico, mentre l’intero fabbricato risulta realizzato in assenza di titolo abilitativo, risultando agli atti solo una licenza edilizia rilasciata in data 5.06.1957 per una villetta bifamiliare, composta da una piccola rimessa padronale, un piano rialzato con due vani e accessori e da un piano superiore con quattro vani; edificio completamente diverso da quello realizzato. Lo stesso dicasi per i proprietari Vitiello Rosanna, Bonifacio Ilaria, Manzo Aniello, Cirillo Emilio, Cuomo Roberto e Lafranco Fortunato Massimiliano, i quali nella S.C.l.A. del 23.03.2016 prot. N. 1564 attestavano falsamente che l’intervento riguardava un immobile legittimato in quanto realizzato giusta licenza edilizia cui è seguita regolare autorizzazione di Abitabilità n. 2613 del 25 maggio 1959; i medesimi, in concorso con Cirillo Mario, quale reale interessato e destinatario dell’appartamento formalmente promesso in vendita a Cirillo Emilio, e con l’architetto Bonzani, mediante tale falsa attestazione, nonché attestando falsamente che i lavori interessati dalle variazioni catastali erano te1minati in data 18 marzo 2016, inducevano in errore in ordine alla corretta rappresentazione dello stato di fatto dell’immobile il funzionario del catasto che procedeva ad effettuare le variazioni catastali sulla base delle false attestazioni contenute nei DOCFA e nelle allegate planimetrie dello stato dei luoghi; attestazioni risultate mendaci atteso che da un controllo a campione effettato dall’Agenzia delle Entrate emergeva che lo stato dei luoghi non corrispondeva alle planimetrie allegate ai DOCFA in quanto gli appartamenti risultavano ancora strutturati e divisi come in data antecedente alla presentazione della relativa istanza di variazione. I reati di falso ideologico in atto pubblico sono stato altresì contestati a Buongiovanni Rita, Buongiovanni Giuseppe, Buongiovanni Donatella, Amodio Roberta, che in qualità, dapprima, di promittenti venditori e, poi, di venditori dell’immobile interessato dal crollo in favore di Vitiello Rosanna, Bonifacio Ilaria, Manzo Aniello, Cirillo Emilio, Cuccurullo Marco, Cuomo Roberto, e Lafranco Fortunato Massimiliano, attestavano falsamente nel contratto preliminare di vendita stipulato davanti al notaio Domenico di Liegro in data 20 luglio 2015 e nel contratto definitivo rogato il 21 aprile 2016 davanti al medesimo notaio, che l’intero corpo di fabbrica era stato realizzato in epoca antecedente al settembre 1967 in conformità alla normativa vigente; attestazione non veritiera, atteso che l’intero fabbricato risulta realizzato in assenza di titolo abilitativo, risultando agli atti come detto solo una licenza edilizia rilasciata in data 5 giugno 1957 per una villetta bifamiliare, composta da una piccola rimessa padronale, un piano rialzato con due vani e accessori e da un piano superiore con quattro vani, edificio completamente diverso da quello realizzato, e che i dati indicati con riferimento alla licenza edilizia (25 maggio 1959 n. 2613) in realtà erano relativi alla autorizzazione alla abitabilità. 

Cronache della Campania@2018

Sub e ragazzina morti annegati a Ischia: chiesto il processo per tre istruttori

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Il pm Francesca De Renzis della Procura della Repubblica di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio per tre persone che sarebbero i responsabili della morte per annegamento  dell’istruttore subacqueo  Antonio Emanato (che da un anno aveva il patentino scaduto) e della tredicenne Lara Scamardella. Oltre all’istruttore e capo del diving center anche due suoi stretti collaboratori, che quel giorno organizzarono una escursione nelle acque della baia delle formiche rischiano di finire sotto processo nell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di napoli, Nunzio Fragliasso.

 La tragedia si consumò nell’agosto dello scorso anno in fondo alla grotte delle Formiche nelle acque di Ischia. Tonino Emanato  fu trovato da un suo amico in fondo alla grotta delle Formiche ed era senza bombole. Le aveva prestato in un gesto di estrema generosità alla piccola Lara per cercare di farla salvare. Ma purtroppo neanche la 13enne figlio di un noto commerciante di Bacoli e suo amico riuscì a salvarsi e ad uscire da quel buio pesto li a 20 metri di profondità. La drammatica testimonianza  fu ornita agli inquirenti e ai giornalisti da parte di Paolo Ardizio, un operatore tecnico subacqueo che insieme al suo collega Pietro Sorvino aveva recuperato  il corpo senza vita di Antonio Emanato all’imbocco di una delle grotte della Secca.

Ha raccontato Paolo Ardizio: “Quando sono entrato nel buio della grotta e l’ho visto cadavere mi sono raggelato. È una scena che non dimenticherò più per il resto della mia vita.Dalla capitaneria di porto mi hanno allertato per intervenire nella Secca delle Formiche, ma non sapevo chi fossero i sub dispersi. Sono entrato nella grotta sotto le Formiche ed era tutto buio pesto. Mi muovevo a tentoni, tastando a mani nude le rocce perché era impossibile orientarsi altrimenti e quando ho scorto nella penombra un corpo ho visto che era Tonino. Il mio amico sub Tonino Emanato che ormai era morto e ho pianto disperatamenteLì sotto era tutto buio pesto per colpa della melma che ha intorbidito il fondale. Ho riportato in superficie il corpo di Tonino Emanato e poi sono scesi i sub dei vigili del fuoco e quelli del gruppo sub-speleologi. Non sono riuscito a vedere altro, anche se ho tentato di fare tutto il possibile”. 

Cronache della Campania@2018

Un vittima di don Barone conferma gli abusi sessuali durante i riti di esorcimo

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Caserta. Riusciva a controllare direttamente la vita dei suoi adepti con dei riti. Durante gli interrogatori presso la Procura di Santa Maria Capua Vetere sono emersi dettagli choc. Le ragazze hanno ricostruito come don Barone, il sacerdote finito nel mirino dell’inchiesta, sarebbe riuscito a controllare la vita dei suoi seguaci. Le giovani hanno parlato di decine e decine di persone plagiate, convinte in confessione, durante le celebrazioni che se fossero uscite dalla “setta” per loro sarebbe stato, parafrasando la Bibbia, “pianto e stridore di denti”. Le vittime che hanno denunciato il sacerdote di Casapesenna hanno confermato le accuse, aggiungendo di sentirsi in balia del prete. Il sacerdote, secondo quanto hanno raccontato, aveva delle tecniche per tenere sotto controllo i suoi adepti. Una delle due ragazze ha confermato i palpeggiamenti, l’altra ha confermato i rapporti intimi con cui il prete l’avrebbe costretta a subire sia in Italia che in un hotel all’estero. Entrambe le giovani hanno riferito agli inquirenti di non potersi ribellare al volere del sacerdote. Una delle due oltre agli abusi sessuali ha subito anche maltrattamenti “da esorcismo”. Le botte, il collare, la costrizione a bere l’acqua nel quale il prete sputava. C’è anche la testimonianza di una 13enne riferendo che “Quando ci picchiava, credevamo che stesse percuotendo il diavolo”. Un’altra ragazza, invece “dicevo loro che era un buon prete, all’epoca pensavo questo”.

Cronache della Campania@2018

Fisco, sequestro beni ad un’impresa di trasporti tra le province di Cosenza, Salerno, Venezia e Treviso

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Fisco: fatture false per evadere il fisco, sequestro da 1,6 mln ad un’azienda: sigilli ai mezzi di un’impresa trasporti nel cosentino. Beni per 1,6 milioni di euro sono stati sequestrati dai finanzieri del Gruppo di Sibari in esecuzione di un provvedimento emesso dal Gip di Castrovillari su richiesta della Procura guidata da Eugenio Facciola a carico di una società operante nel settore dei trasporti, del legale rappresentante, B.C., di 30 anni, e del consulente fiscale, F.D. (67). Il sequestro ha interessato le province di Cosenza, Salerno, Venezia e Treviso ed ha riguardato 28 tra auto, motrici e semirimorchi, una villetta, un terreno, quote societarie e conti correnti. Dall’indagine della finanza è emersa una frode fiscale caratterizzata dall’utilizzo di crediti Iva, fittizi e/o inesistenti, precostituiti in compensazione di imposte e contributi Inps dovuti. Un’attività fraudolenta che secondo l’accusa è iniziata già dopo l’avvio dell’attività, avvenuta nel dicembre 2012, e portata avanti grazie ad una serie di annotazioni contabili inesistenti, realizzate anche attraverso l’utilizzo di false fatturazioni.

Cronache della Campania@2018

Falsi rimborsi Irpef nei 730, sequestro per 25 milioni tra Castellammare, Salerno, Napoli e Roma

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Castellammare di Stabia. False spese mediche per rimborsi Irpef tra le province di Napoli, Salerno e Roma: la guardia di Finanza di Castellammare di Stabia ha dato esecuzione ad un decreto di sequestro per equivalente, emesso dal Gip di Torre Annunziata, su richiesta della Procura a Castellammare di Stabia, Boscotrecase, Torre dei Greco, Pompei, Santa Maria la Carità, Volla, Giugliano in Campania, Roma, Pornezia, Napoli, Salerno, Siena, Milano, Bologna, Parma, Vicenza, Scafati, Jesi. I militari di Castellammare di Stabia, coadiuvati da decine di altri Reparti del Corpo attivati per competenza territoriale, hanno eseguito il provvedimento nei confronti di 28 indagati, ritenuti responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato, al falso ed alla sostituzione di persona. L’attività d’indagine, avviata nei mese di settembre 2015, ha permesso di smascherare un’organizzazione i cui promotori, avvalendosi di intermediari abilitati (solitamente risultati meri prestanome) e di procacciatori di soggetti “dichiaranti”, hanno nel tempo inoltrato all’Agenzia delle Entrate almeno 4.459 modelli 730 a nome dei citati contribuenti, relativi alle annualità d’imposta 2013 – 2014 e 2015, all’interno dei quali venivano inserite somme riguardanti spese mediche e/o crediti maturati del tutto inesistenti, quantificati in circa 52 milioni di euro, senza che le stesse fossero supportate dalla necessaria documentazione, con il solo intento di far percepire – ai contribuenti titolari delle dichiarazioni – un profitto di 25.113.098 di euro, grazie a rimborsi IRPEF in realtà del tutto indebiti. I contribuenti titolari delle dichiarazioni, una volta ricevuto l’accredito, dovevano devolvere ai soggetti del sodalizio criminale un “compenso” variabile dal 30 al 50% del rimborso ricevuto. Inoltre le indagini hanno dimostrato come l’organizzazione ha messo a segno un ulteriore tentativo di truffa ai danni dell’INPS, presentando 512 modd. 730/4 integrativi 2015, per un totale di 3.697.418 di euro. Tuttavia, tale somma, grazie all’attività di indagine, non è stata erogata ai richiedenti. Le risultanze delle attività d’investigazione, condotte con l’utilizzo di complesse indagini, anche di natura tecnica, hanno consentito di acclarare che tutti gli indagati si sono garantiti un ingiusto vantaggio patrimoniale grazie al pagamento dei rimborsi indebiti suddetti, secondo le diverse percentuali sopra indicate in relazione al ruolo ricoperto nell’ambito dell’attività truffaldina in parola. Pertanto, a conclusione delle indagini ed a seguito degli accertamenti patrimoniali condotti dalla Compagnia della Guardia di Finanza di Castellammare di Stabia, questa Procura ha chiesto ed il G.I.P. di Torre Annunziata ha emesso un decreto di sequestro preventivo “per equivalente” di denaro e beni a carico di tutti indagati, sino alla concorrenza della somma sottratta alle casse dell’erario, pari 25.113.098 di euro. Nei confronti dei singoli contribuenti, invece, l’Agenzia delle Entrate ha in corso le procedure di recupero delle somme indebitamente percepite, con l’applicazione delle previste sanzioni di natura amministrativa.

Cronache della Campania@2018

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