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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Inchiesta rifiuti, on line la quarta puntata di Fanpage.it: una donna pronta a ripulire i soldi della camorra

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Napoli. Inchiesta rifiuti: online la quarta puntata della video inchiesta di Fanpage.it, nella quale l’ex boss Nunzio Perrella incontra Grazia Canuto, architetto, moglie di un ufficiale dell’esercito per un affare nel porto di Marghera: la realizzazione di un terminal per lo stoccaggio di gas, al quale dovrebbe partecipare anche la finta società di Perrella. La “dama di mezzo”, Grazia Canuto, negli incontri con l’ex boss Perrella e un imprenditore di Marghera di sua conoscenza, dice più volte di essere in grado di “ripulire” il denaro sporco dei clan con un progetto da 21 milioni per la realizzazione di un terminal per lo stoccaggio di gas. In un incontro Perrella consegna 2,8 milioni da riciclare ma nel trolley non c’è denaro, bensì pacchi di pasta, paccheri per la precisione. Canuto, che si definisce consulente del ministero dell’Ambiente, circostanza seccamente smentita a Fanpage.it proprio dal dicastero, per rafforzare la sua immagine di donna influente, in un caso introduce l’ex boss a un incontro pubblico con, tra gli altri, il sindaco di Venezia e il ministro Galletti al quale spiega, con l’imprenditore, il progetto del terminal. Galletti ascolta poche parole e si congeda quasi subito.

Cronache della Campania@2018


I genitori della ragazzina curata dal prete esorcista: ‘Il Vescovo Spinillo sapeva tutto’

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“Le pratiche di esorcismo applicate da don Michele Barone su nostra figlia sono state sempre approvate sia dal vescovo Angelo Spinillo che dal prete incaricato dalla Diocesi per gli esorcismi, don Carlo Aversano. Entrambi sono stati sempre a conoscenza di come nostra figlia veniva seguita da don Barone”.E’ la difesa di Cesare Tramontano e Lorenza Carangelo, genitori di una 14enne affetta da problemi psichici e ritenuta vittima di sevizie e abusi sessuali da parte di don Michele Barone, prete del Tempio di Casapesenna, davanti al gip Ivana Salvatore per l’interrogatorio di garanzia. I due sono finiti ai domiciliari il 24 febbraio scorso perche’ considerati complici di don Barone, ora in carcere per violenza sessuale aggravata e maltrattamenti anche su minori. Ai domiciliari anche Luigi Schettino, dirigente di polizia che cerco’, secondo la procura di Santa Maria Capua Vetere, di convincere la sorella maggiore della ragazzina a ritirare la denuncia nei confronti del prete che ha dato origine all’indagine. Anche i genitori della ragazzina, dunque, cosi’ come ieri aveva fatto don Barone, hanno raccontato che il vescovo Spinillo era a conoscenza dei “riti di purificazione” messi in pratica dal sacerdote, aggiungendo che ne era a conoscenza anche l’unico prete autorizzato per la pratica di esorcismo, don Carlo Aversano di Casal di Principe. I due coniugi, difesi con don Barone dall’avvocato Carlo Taormina, hanno raccontato al gip che prima di arrivare al prete di Casapesenna la figlia era stata da altri preti che le avevano praticato riti, della conoscenza con don Barone il 16 aprile 2017 e di come la loro figlia sia “migliorata” dopo questo incontro. “La bambina in un attimo in cui la sua voce non era guidata dal demonio, ma da San Michele – hanno detto – preannuncio’ la sua guarigione il 20 febbraio e cosi’ e’ stato”. Per quanto riguarda le accuse di maltrattamenti e violenze, per loro “le due ragazze che hanno denunciato hanno mentito. Su nostra figlia non e’ mai stata commessa nessuna violenza. I riti di purificazione avvenivano davanti a 40 persone appartenenti al gruppo di preghiera, se fosse stato vero qualcuno si sarebbe ribellato”. Cosi’ come per don Barone, Taormina ha fatto richiesta di revoca della misura cautelare anche per i due coniugi.

Cronache della Campania@2018

Auto del Comune per fini privati, assolto ex sindaco Caserta

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Era accusato di aver usato per motivi personali un’auto consegnata al Comune di Caserta da parte dell’azienda che nel capoluogo della Reggia gestisce il servizio di igiene ambientale. Ma per il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), Pio Del Gaudio, ex primo cittadino della citta’ nonche’ candidato alla Camera dei Deputati a Caserta per Forza Italia, e’ innocente e non avrebbe commesso nessuno dei fatti denunciati qualche anno fa dal consigliere comunale Luigi Cobianchi. Il collegio, presieduto da Meccariello, ha assolto Del Gaudio – difeso dall’avvocato Dezio Ferraro – con formula piena, “perche’ il fatto non sussiste”; le accuse contestate dalla sostituto della Procura di Santa Maria Capua Vetere, Mannu, erano di abuso d’ufficio e peculato; il pm, in sede di requisitoria, aveva chiesto una pena di un anno e sei mesi. E’ la seconda volta in poco piu’ di un anno che l’ex primo cittadino viene riconosciuto “non colpevole” al termine di un processo penale. Era accaduto il 26 gennaio di un anno fa, quando il Gip Di Napoli Egle Pilla prosciolse Del Gaudio dalle piu’ gravi accuse di corruzione e finanziamento illecito ai partiti con l’aggravante mafiosa, nell’ambito della indagine della Dda di Napoli sulle infiltrazioni e i condizionamenti del clan Zagaria negli appalti concessi da amministrazioni pubbliche; per questa inchiesta Del Gaudio fu anche arrestato nel luglio del 2015, ma poi fu la stessa Procura antimafia a chiederne il proscioglimento. Questa volta, invece, la decisione del giudice e’ arrivata al termine del dibattimento. Per la Procura di Santa Maria Capua Vetere Del Gaudio avrebbe commesso il reato di abuso d’ufficio in relazione alla consegna al Comune da parte dell’azienda Ecocar, che a Caserta gestisce il servizio di igiene ambientale, di una Lancia Delta; consegna prevista dal contratto di servizio firmato dalle due parti dopo che l’azienda si aggiudico’ nel 2013 l’appalto quinquennale per la raccolta dei rifiuti. Il veicolo peraltro fa ancora parte del parco auto dell’ente comunale. Altra accusa era quella di peculato per l’uso dell’auto, ritenuto dagli inquirenti non istituzionale; per il pm Del Gaudio l’avrebbe utilizzata per fini propri, in particolare per andare a Roma.

Cronache della Campania@2018

Condannato a 4 anni e sei mesi di carcere il piromane del Vesuvio

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E’ stato condannato a 4 anni e sei mesi di carcere Leonardo Orsino, il 24enne di Torre del Greco, passato alle cronache come il presunto piromane del Vesuvio. Il giovane che , si è sempre professato innocente, è stato condannato ieri pomeriggio dal gup Antonio Fiorentino del Tribunale di Torre Annunziata nel processo che si è svolto con rito abbreviato. Il pm Antonella Lauri che rappresentava l’accusa aveva chiesto 5 anni e sei mesi di carcere in mattinata. Richiesta che aveva fatto scoppiare in lacrime il giovane macellaio  da  7 mesi chiuso in carcere nel padiglione San Paolo del carcere di Poggioreale, dove si sta dedicando ai disabili.Si era professato innocente,  e lo ha ripetuto ieri mattina in aula in una commovente dichiarazione spontanea riferendo dettagliatamente tutti i suoi spostamenti di quella giornata: “Non ho fatto nulla  non avrei mai potuto fare una cosa del genere mettendo a rischio la vita mia e quella dei miei familiari”. Anche il suo avvocato ha parlato di errore di persona, Fu arrestato il 28 luglio scorso con l’accusa di aver incendiato circa 10mila metri quadrati del Parco del Vesuvio grazie ad una velocissima indagine dei carabinieri di Torre del Greco. Si arrivò alla sua identificazione grazie ad alcune intercettazioni telefoniche nelle quali le zie parlavano della sua responsabilità nell’incendio che a metà luglio divampò sul Vesuvio, rivelazioni involontarie seguite da alcuni tentativi di depistaggio quando i familiari furono interrogati dalle forze dell’ordine. Leonardo Orsino ha sempre negato ogni addebito sull’incendio che divampò la sera tra il 3 e il 14 luglio, ma secondo gli inquirenti quella sera fu proprio lui ad appiccare quel focolaio con un accendino. Tant’è che la mamma avvisò il marito, fuori per lavoro: “Enzo stiamo prendendo fuoco nella casa nostra è quello s… di tuo figlio”.  A far chiudere definitivamente il cerchio, intorno al ragazzo, garzone di un macellaio, la testimonianza di un ex amministratore comunale di Torre del Greco, che nella sera tra il 13 e 14 luglio avrebbe avuto modo di vedere e sentire Orsino che, per depistare le indagini, avrebbe indicato ai vigili urbani di Torre del Greco di seguire un giovane in sella di un Liberty Piaggio, sostenendo fosse l’autore degli incendi. Solo il comune di Ottaviano si è costituito parte civile nel processo.

Cronache della Campania@2018

Nola, poliziotto accusato da un pentito di camorra: assolto dai giudici Giuseppe Bruno

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Nola. Agente accusato da un collaboratore di giustizia di essere un referente del clan: assolto dopo cinque anni. Finisce con un’assoluzione per non aver commesso il fatto, la disavventura giudiziaria di Giuseppe Bruno, ex assistente in servizio al Commissariato di Nola. Il poliziotto finì nel mirino della magistratura nel 2013 quando il collaboratore di giustizia, Salvatore De Martino – arrestato nel 2011 – lo indica come il referente del suo clan per ottenere informazioni riservate e evitare arresti o controlli. Il pentito sostenne di aver raccolto le amicizie e l’eredità del boss Felice Napoletano, ucciso nel maggio del 2003. In particolare, parlò di alcuni poliziotti del commissariato di Nola: Giuseppe Bruno, Pasquale De Santis e altri due agenti, la cui posizione è stata archiviata nel corso dell’udienza preliminare. Nel 2015 De Santis fu giudicato con rito abbreviato e fu condannato ad una mite condanna, Bruno invece scelse la strada del giudizio ordinario. Difeso dall’avvocato Giuseppe De Gregorio, il 19 febbraio scorso i giudici del Tribunale di Nola hanno assolto Giuseppe Bruno.
Nel corso del dibattimento ha evidenziato le incongruenze delle accuse del pentito. Nonostante, De Marino sostenne che grazie al poliziotto il clan aveva la possibilità di commettere estorsioni e traffici d’armi non è riuscito a collocare la condotta dell’agente in un arco temporale prestabilito.
L’ex ras, riferendo di un viaggio con Bruno per andare a trovare un boss in Calabria, non avrebbe indicato la località dell’incontro. La Procura, che per Bruno aveva invocato una condanna a otto anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio, è stata smentita dalla sentenza dei giudici nolani che hanno assolto l’imputato per non aver commesso il fatto.

Cronache della Campania@2018

Baby gang a Napoli, il Ministro Minniti: “Si stringe il cerchio sugli aggressori di Arturo”

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Napoli. BAby gang: il cerchio si stringe sugli aggressori di Arturo: ad annunciarlo il Ministro dell’interno Marco Minniti commentando a L’aria che tira su La7 l’aggressione del ragazzino napoletano per il quale uno solo degli autori è stato individuato. “Non voglio anticipare nulla, ma il cerchio si sta stringendo sugli aggressori di Arturo, non avremo pace finchè non li avremo presi tutti”. Arturo era stato accoltellato a Via Foria, una settimana prima di Natale. Gli aggressori gli tagliarono la gola ed è stato molti giorni ricoverato in ospedale. E’ stato uno dei fenomeni di baby gang più cruenti degli ultimi mesi a Napoli. Numerose le manifestazioni di solidarietà nei suoi confronti.

Cronache della Campania@2018

Camorra: condanna definitiva per il boss killer che perde anche la potestà genitoriale

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Ciro Uliano,  51 anni, alias “ciù ciù”, uno dei generali del clan Birra-Iacomino di Ercolano e in carcere da alcuni anni ha ricevuto la poco gradita notizia che era diventata definitiva la sua condanna a venti anni di carcere per gli omicidi di Ciro Farace e Costanzo Calcagno avvenuti nel 2001. Ma allo spietato boss e killer del clan è stata anche comminata la decadenza genitoriale. di Cira Farace e Costanzo Calcagno nel 2001, ma per lui è arrivata la decadenza genitoriale.Per la legge non è più un genitore, perché la decadenza arriva quando i giudici riconoscono la violazione “dei doveri legati alla responsabilità genitoriale”. Uliano, uno degli irriducibili del clan Birra, è considerato uno dei boss che si sedevano al tavolo per emettere le sentenze di morte per affiliati e ras del clan rivale degli Ascione-Papale. Il killer avrebbe commesso numerosi omicidi anche in trasferta nell’ambito dello scambio criminale tra i Bitta-Iacomino e i Lo Russo di Miano. Lo scorso anno Uliano, per evitare l’ennesima pesante condanna in Corte di Assise d’Appello al processo per il duplice omicidio di Vincenzo e Gennaro Montella, i due net­turbini padre e figlio massacrati a colpi di pistola all’alba del 15 gennaio del 2007 davanti al Municipio di Torre del Greco, ammise di aver partecipato al delitto. Anche in quel caso gli furono comminati 20 anni di carcere. Si pensava che si stesse avviando verso la strada della collaborazione con la giustizia. Ma così non è stato e ora Ciruzzo ciù ciù non è più neanche padre.

Cronache della Campania@2018

Ucciso dal clan per salvare la ragazza, vitalizio ai genitori

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Un giudice di Napoli ha posto rimedio a un “errore” del Ministero dell’Interno che nego’ il vitalizio ai genitori di un giovane casertano, Genovese Pagliuca, ucciso nel 1995 dal clan dei Casalesi, basandosi su un’informativa dei carabinieri che lo accostava alla cosca. La sentenza di condanna dei killer, passata in giudicato nel 2009, riconobbe, invece, che Pagliuca era una “vittima innocente” della camorra. A prendere la decisione e’ stato un giudice civile di Napoli, Vincenzo Pappalardo, che ha accolto con una sentenza da considerare innovativa il ricorso dei genitori di Genovese Pagliuca (difesi dall’avvocato Gianni Zara), ucciso a Teverola 23 anni fa da esponenti di primo piano del clan dei Casalesi come Aniello Bidognetti e Giuseppe Setola. Un omicidio maturato solo per punire il giovane che si era opposto agli abusi subiti dalla sua fidanzata per mano di Angela Barra, amante del boss Francesco Bidognetti, innamorata della ragazza. Il giudice ha condannato il Viminale a concedere ai genitori del giovane il vitalizio per centinaia di migliaia di euro, dal 2009.

Cronache della Campania@2018


Fondi Cnr a Napoli, la Procura chiede il rinvio a giudizio per 6 tra dirigenti di azienda e commercianti

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Napoli. La Procura di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio di sei dirigenti di aziende e esercizi commerciali per il reato di peculato nell’ambito della gestione dei fondi del Cnr di Napoli. La richiesta di rinvio a giudizio è stata avanzata nei confronti di Vincenzo Mastrogiovanni e Salvatore Di Costanzo, commercianti all’ingrosso di frutta, Ciro Oliva, commerciante di saponi e detersivi, Gennaro Coppola, titolare di un’azienda di prodotti cartotecnici, Biagio Barone, titolare di una ditta per la fabbricazione di tubi, Umberto Giannini, rappresentante di una società cooperativa. Il principale imputato dell’inchiesta resta Vittorio Gargiulo, il segretario dell’Istituto ambiente marino costiero, già rinviato a giudizio lo scorso mese. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino e dal pm Ida Frongillo, riguarda una presunta appropriazione indebita di oltre 500mila euro con fatture gonfiate per acquisti falsi fatte risultare invece come spese di ufficio. Tra i casi accertati dagli inquirenti, la fornitura fittizia, per un importo di circa 100mila euro, per un “acquisto di materiale da laboratorio”, spesi in merce presso una azienda per il commercio all’ingrosso di “frutta, ortaggi freschi e surgelati”.

Cronache della Campania@2018

Napoli, uccisero e seppellirono il 18enne Amendola: chiedono lo sconto di pena

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Vogliono lo sconto di pena di due giovani e spietati assassini di Vincenzo Amendola, il 18enne ucciso il 5 febbraio 2016 e ritrovato giorni dopo in un terreno di campagna nel quartiere di San Giovanni a Teduccio. Gaetano Formicola detto ‘o chiatto, figlio del boss Antonio detenuto al 41 bis e suo cugino Giovanni Tabasco  detto birilinno  e Raffaele Morra, il proprietario del terreno che ha fatto da tomba al 18enne e che dopo il delitto aveva ricoperto di mattoni per creare una stalla per porci e cavalli, hanno ottenuto di essere processati con il rito abbreviato. La decisione è arrivata ieri mattina all’esito dell’udienza preliminare. La ricostruzione dei fatti che portarono alla morte del ragazzo incensurato di San Giovanni a Teduccio sono abbastanza chiare.

Innanzitutto partendo dal movente. Amendola aveva una relazione con la moglie di Antonio Formicola, padre di Gaetano, boss del quartiere. Rapporto che si desume da una serie di telefonate e testimonianze raccolte anche dopo la prima indagine che il 22 marzo scorso aveva portato all’arresto del figlio del boss e del suo complice, poi scarcerati dal Tribunale del Riesame per mancanza di riscontri oggettivi alle dichiarazioni del testimone oculare e pentito Gaetano Nunziata. “Il quartiere così dice ma hanno capito una cosa per un’altra”, diceva il figlio alla mamma, riferendosi alla relazione. Poi ci fu un summit, a casa della nonna del ragazzo, madre del papa’, donna con un cognome ‘pesante’ nel panorama criminale. “Fu li’ che fu deciso come doveva morire Vincenzo e per mano di chi”, secondo l’accusa. La sequenza dell’orrore porta direttamente “alle panchine del Bronx a Ponticelli”, quartiere dove era solito stare Vincenzo che fu trovato dai suoi killer la notte del 4 febbraio, portato nella fossa scavata a San Giovanni e li’ ucciso.

La ricostruzione del movente, della dinamica delle responsabilita’ per questa esecuzione e’ stata resa possibile non solo dalle dichiarazioni del pentito che ha partecipato all’omicidio e che ha permesso di ritrovare il cadavere e l’arma utilizzata, gettata una scogliera, ma anche da intercettazioni. Il gip di Napoli aveva gia’ emesso a marzo dello scorso anno la prima misura cautelare fondata su elementi quali la denuncia della scomparsa, i tabulati dell’utenza telefonica del ragazzo, alcune intercettazioni e due interrogatori resi dal pentito. Formicola e  Tabasco, dopo un periodo di latitanza erano stati arrestati a Viterbo dove si erano rifugiati. Allora, l’ordinanza era stata annullata dal Tribunale del Riesame che, pur non mettendo in discussione l’attendibilita’ del collaboratore di giustizia, aveva ritenuto che le intercettazioni, in parte non trascritte integralmente nella misura cautelare, non erano univocamente interpretabili e quindi non fornivano riscontri utili alle dichiarazioni del pentito. Le indagini cosi’ sono state approfondite, accertando anche il coinvolgimento nei fatti del proprietario del fondo in cui il corpo di Amendola e’ stato trovato, Raffaele Morra, oggi arrestato, il quale avrebbe avuto un ruolo anche del seppellimento del cadavere. Altri riscontri vengono dalle attivita’ tecniche della polizia sul luogo del delitto e sull’ arma per commetterlo, nonche’ da informazioni assunti dai parenti della vittima e da persone che erano presenti nel momento e nel posto in cui Vincenzo Amendola fu prelevato dai suoi sicari per essere condotto al luogo dell’omicidio.

Il corpo della vittima, scomparsa il 5 febbraio 2016, e’ stato ritrovato solo il 19 dello stesso mese seppellito in un terreno a San Giovanni a Teduccio interrato a circa 1 metro e mezzo di profondita’, coperto da una rete metallica e da travi di legno nonche’ da materiali di risulta di lavori edili, tanto che per l’estrazione del cadavere si e’ reso necessario l’utilizzo di un escavatore da parte di personale dei Vigili del Fuoco. A fare scalpore, all’epoca dei fatti, non furono soltanto le notizie sul barbaro omicidio del 18enne, ucciso per fermare pettegolezzi che lo vedevano legato alla moglie del boss Antonio Formicola, ma anche l’immagine che ritraeva giovanissime studentesse all’uscita da scuola che sulla fossa, luogo del ritrovamento di Vincenzo, scattavano foto e selfie.

(nella foto da sinistra Gaetano Formicola, Giovanni Tabasco, il pentito Gaetano Nunziato e nel riquadro la vittima Vincenzo Amendola)

Cronache della Campania@2018

Pizzo al Polo calzaturiero: 10 anni di carcere per Zagaria

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Gli imprenditori dovevano versare al clan il “canone” annuo pari a 160mila euro. La Camorra, secondo quanto emerso dalle indagini, ha preteso questa somma almeno fino al 2010. Nella giornata di ieri la sentenza che ha condannato a 10 anni il boss Michele Zagaria. Condanna a 13 anni per Salvatore Verde, detto “Tore ‘a bestia”, considerato l’esecutore materiale a quale gli è stata riconosciuta la continuazione. Il giudice, inoltre, ha anche stabilito il risarcimento dei danni alla vittima che ha denunciato la Camorra. Si tratta di Luciano Licenza, imprenditore. Il risarcimento sarà stabilito in sede civile. In un primo momento alcuni imprenditori erano considerati collettori fra il clan e gli imprenditori del polo industriale. Secondo le indagini le quote erano riscosse dagli affiliati-cassieri di San Cipriano d’Aversa per Iovine e Salvatore Verde per il boss Zagaria. Gli imprenditori avevano sempre taciuto, tranne Licenzia. Sei anni dopo l’arresto del boss Iovine si è scoperto tutto grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e alle dichiarazioni dell’imprenditore Luciano Licenzia, l’imprenditore dell’inchiesta “Medea” che circa 4 anni fa aveva iniziato a parlare con gli inquirenti, spiegando il meccanismo del pizzo con scadenza annuale, applicato da Iovine e Zagaria.

Cronache della Campania@2018

Inchiesta rifiuti, Oliviero si sospende dal consiglio comunale di Ercolano

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Ercolano. Inchiesta sulla Sma: si autosospende il consigliere di Ercolano Mario Oliviero, detto Rory, apparso in uno dei video di Fanpage.it  mentre intascava una ‘finta’ tangente e indagato dalla Procura di Napoli per gli appalti relativi allo smaltimento dei rifiuti. In una lettera protocollata e inviata oggi al presidente del consiglio comunale, Oliviero spiega la decisione presa “al fine di evitare qualsivoglia strumentalizzazione e in attesa che possa farsi piena luce” sulla sua posizione di uomo pubblico. Oliviero si dice certo che la vicenda “disvelerà compiutamente, già nelle prossime settimane, tutti gli scenari che ancora non sono venuti alla luce”. Un video dell’inchiesta giornalistica di Fanpage.it ritrae Oliviero che porta via una valigetta nella quale ci sarebbero dovuti essere 50mila euro. Un invito a rassegnare le dimissioni era stato avanzato nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio comunale di Ercolano, Luigi Simeone. Oliviero ha scelto la strada dell’autosospensione anzichè quella delle dimissioni.

Cronache della Campania@2018

Prostituzione tra Campania, Basilicata, Calabria e Lazio: individuata la maitresse napoletana e i suoi 18 complici

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Potenza. E’ una donna napoletana di 35 anni, la maitresse che gestiva un giro di prostituzione di giovani donne e transessuali, quasi tutti provenienti dal Sud America. I carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Potenza hanno notificato alla donna e ai suoi 18 complici un avviso di conclusione delle indagini emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza. I 19 indagati sono accusati di associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione e al furto aggravata di energia elettrica. L’avviso di conclusione delle indagini è stato notificato oltre che a Napoli nelle province di Brindisi, Potenza e Cosenza. Secondo la Procura, l’organizzazione favoriva e agevolava il meretricio di donne e transgender italiane e straniere anche mediante la concessione in subaffitto di appartamenti locati da ignari proprietari, inserti pubblicitari, accompagnamenti, fornitura di biancheria, preservativi ed altro supporto logistico, necessario per lo svolgimento dell’attività illecita, compresa la donna per le pulizie negli appartamenti, gli asciugamani, le salviette, le lenzuola, i cuscini, il lubrificante e la riscossione del canone di locazione. L’attività di indagine, avviata nel mese di gennaio 2017 e proseguita per circa dieci mesi fino all’ottobre 2017, prende le mosse da un controllo dei militari, in via Messina a Potenza, dove veniva accertato che le occupanti di un appartamento in affitto, ognuno in una stanza, vestite con abiti succinti, fruivano di energia elettrica mediante allaccio abusivo. I carabinieri, incuriositi dall’arredamento scarno e dalla presenza di soli letti, iniziavano ad effettuare i primi accertamenti e grazie ad idonei servizi di osservazione e pedinamento, notavano un vero e proprio via-vai dalla palazzina.
Le indagini, condotte anche con l’ausilio di intercettazione, hanno consentito di accertare che a capo dell’associazione vi era una donna, napoletana, che intesseva una serie di relazioni e di attività finalizzate a gestire, grazie a contratti di locazione a lei intestati o ad altri sodali, talvolta anche con documenti falsi, alcuni appartamenti ubicati tra Napoli, Potenza, Brindisi, Rende, Cosenza e Cassino, all’interno dei quali venivano ospitate giovani donne e transessuali, quasi tutti provenienti dal Sud America.
La giovane maitresse, si faceva consegnare somme che oscillavano tra i 50 euro giornalieri e le  250/350 euro settimanali, che le venivano versate tramite ricariche postepay. In cambio procurava gli appartamenti, situati in zone appartate, in modo da assicurare segretezza e discrezione, reclutava le prostitute e le prelevava dalle stazioni ferroviarie.
Un ruolo particolare assume anche il padre della donna che, per sovvenzionare eventuali esigenze e fornire necessarie garanzie economiche alla figlia, diventava una sorte di “fideiussore”, poiché titolare di busta paga. Difatti, in una conversazione emerge il progetto della donna di riciclare il denaro mediante l’acquisto di una villa che materialmente il padre doveva donarle, poiché in passato aveva già richiesto dei prestiti e quindi l’operazione finanziaria era giustificata e non destava sospetti.
Gli “chauffeur”, ossia coloro che avevano i compiti di prelevare ed accompagnare le donne,  ricevevano quale compenso dai 20/30 euro.
Nel corso delle indagini è stata sequestrata anche una vera e propria agenda con le annotazioni della situazione debitoria delle donne e dei pagamenti.
Per capitalizzare meglio i guadagni e gli introiti, in ogni appartamento locato veniva costituito un allaccio abusivo alla rete di energia elettrica, al fine di non contabilizzarne i consumi. Ulteriore forma di entrata era la differenza tra la somma base di locazione degli appartamenti ed i guadagni ricavati con le richieste ad ogni singola prostituta, le quali, generalmente, restavano negli appartamenti massimo una o due settimane. Gli altri componenti del gruppo, fornivano, a loro volta, analoghi contributi, quali la manutenzione degli appartamenti, piccole riparazioni oppure prelevano le donne all’aeroporto o alla stazione.

Cronache della Campania@2018

Nocera Inferiore, stalker seriale arrestato dalla Polizia: perseguitava una ex

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Salerno. Stalker seriale arrestato dagli agenti del Commissariato di Nocera Inferiore. S. F., 43 anni di Salerno, è agli arresti domiciliari per atti persecutori nei confronti di una donna con la quale aveva avuto una breve storia sentimentale. A far scattare l’arresto, le denunce della donna che dopo una brevissima relazione aveva deciso di lasciare il 43enne. Ma a quel punto erano iniziate le minacce e le persecuzioni. In più occasioni la vittima era stata minacciata e malmenata, tanto da essere caduta in uno stato di depressione e di timore. S. F., è stato accertato essere uno stalker recidivo, in quanto – in passato – è stato destinatario di un provvedimento di divieto di avvicinamento ad un’altra donna, R. A, di Salerno, con la quale aveva avuto una lunga relazione sentimentale al termine della quale aveva posto in essere un’analoga serie di atti persecutori. L’arrestato, dopo le formalità di rito è stato accompagnato presso il suo domicilio a Salerno, in attesa dell’interrogatorio di garanzia da parte del giudice che ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare. 

Cronache della Campania@2018

Fidanzati uccisi, in 256 pagine le motivazioni dell’ergastolo al napoletano Ruotolo

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Sono state depositate oggi le motivazioni della sentenza nei confronti di Giosue’ Ruotolo, il militare campano di 28 anni, giudicato colpevole del duplice omicidio dei fidanzati Teresa Costanza e Trifone Ragone, uccisi a colpi di pistola nel parcheggio del palazzetto dello sport di Pordenone la sera del 17 marzo 2015. Le motivazioni si sviluppano per 256 pagine in cui viene sviscerata la vita di Ruotolo e dei suoi commilitoni. Nelle ultime 90 pagine si entra nel dettaglio delle ragioni che hanno portato la Corte d’Assise del Tribunale di Udine alla condanna all’ergastolo, con isolamento diurno per 2 anni e interdizione perpetua dai pubblici uffici. “Ci vorranno giorni solo per leggere l’intero dispositivo – ha detto l’avvocato difensore Roberto Rigoni Stern – solo al termine della verifica delle motivazioni potremo iniziare a predisporre il ricorso, che proporremo certamente. Ruotolo era in attesa di questa documentazione perche’ ansioso di poter preparare l’appello e continua a professare la sua innocenza”.

Cronache della Campania@2018


Denunciò il killer di Don Diana, lo Stato gli nega il riconoscimento di vittima innocente della criminalità

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Caserta. Vide il killer di Don Diana: il Ministero dell’Interno ha rigettato la domanda presentata per il riconoscimento di vittima innocente della criminalità. Ad Augusto Di Meo, testimone oculare dell’omicidio di don Peppe Diana, il sacerdote ucciso a Casal di Principe nel 1994, è stata bocciata l’istanza perchè ritenuta tardiva. La decisione fa insorgere il Comitato don Peppe Diana, associazione che a Casal di Principe e nei comuni limitrofi una volta roccaforte dei Casalesi, gestisce numerosi beni confiscati e attua progetti di riscatto sociale. Di Meo vide in faccia il killer del prete, l’esponente dei Casalesi Giuseppe Quadrano, lo denunciò e lo fece condannare. Allora, era il 19 marzo di 24 anni fa, aveva 34 anni ed un laboratorio fotografico avviato. La sua testimonianza però, ritenuta fondamentale dalla Dda di Napoli per la condanna degli autori dell’omicidio così come confermato anche dalla Cassazione del 2004, gli ha cambiato la vita; Di Meo ha infatti affrontato problemi di natura personale, di salute, economici; è stato costretto a lasciare Casal di Principe per poi farvi ritorno dopo tanti anni. Nel 2010 chiese di essere riconosciuto come “testimone di giustizia”, ma la sua domanda fu bocciata perchè allora quella figura non esisteva nell’ordinamento italiano. A parziale “risarcimento”, il 16 dicembre del 2014 ha ricevuto dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano l’investitura del titolo di Ufficiale della Repubblica. Nel 2015 Di Meo ha poi presentato domanda per essere riconosciuto come vittima innocente della criminalità, ma il Ministero ha attuato la norma secondo cui l’istanza va presentata entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza; cosa avvenuta nel 2004. “Siamo basiti – scrivono in una nota i responsabili del Comitato cui aderiscono anche i genitori e i fratelli di don Peppe – non pensavamo che avremmo dovuto manifestare il nostro smarrimento contro decisioni ministeriali in palese contrasto con la nostra idea di riscatto di un intero territorio, lasciato per anni nelle mani della criminalità organizzata. L’eccezione di improcedibilità opposta alla richiesta di Di Meo dal Ministero dell’Interno, e nello specifico dal Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, Area ‘Speciali elargizioni alle vittime del terrorismo e della criminalità di tipo mafioso’, non fa onore a nessuno”. “Per perorare la causa di Di Meo – prosegue la nota – il Comitato don Peppe Diana, insieme al coordinamento provinciale casertano dell’associazione Libera e all’amministrazione comunale di Casal di Principe, si e’ fatto promotore di una petizione popolare che ha raccolto più di 40mila firme. Sottoscrizioni che chiedono di veder riconosciuto un diritto e che porteremo personalmente al prossimo Ministro dell’Interno nella speranza che il buon senso cominci a valere molto di più. Non ci fermeremo perchè non possiamo e non vogliamo”. Il caso di Di Meo presenta similitudini con quello relativo all’omicidio di Genovese Pagliuca, il giovane ucciso nel 1995 dai Casalesi per punizione, che non è mai stato riconosciuto dal Ministero come vittima innocente, e ciò in base a delle informative che lo descrivevano come vicino ad ambienti camorristici, circostanza smentita dalla sentenze giudiziarie.

Cronache della Campania@2018

‘Ndrangheta, arrestato in Germania il latitante Emanuele Cosentino: era il reggente della cosca Gallico

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Germania. Blitz a Saarbrücken: arrestato il latitante della ‘Ndrangheta, Emanuele Cosentino, elemento di spicco della cosca Gallico di Palmi, in provincia di Reggio Calabria. Ieri pomeriggio, i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria, supportati nella fase esecutiva da personale della polizia tedesca, hanno arrestato Cosentino, 32 anni, ritenuto elemento di spicco dell’articolazione territoriale della ‘ndrangheta denominata cosca ‘Gallico’, operante prevalentemente nell’area tirrenica reggina e con ramificazioni in ambito nazionale ed internazionale. L’indagine, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabra, ha consentito di stringere il cerchio intorno al latitante dopo 10 mesi di approfondimenti investigativi – prima focalizzati su alcuni elementi della cosca d’appartenenza, poi concentrati sulla cerchia familiare – per cogliere elementi utili a ricostruire e monitorare il collaudato circuito che nel tempo gli ha assicurato la latitanza. Cosentino è stato sorpreso per strada, nel centro cittadino, alla guida di un’autovettura con targa tedesca. Insieme a lui era presente la moglie Laura Nasso, che lo aveva recentemente raggiunto da Palmi, dove viveva con i loro cinque figli, uno dei quali nato durante la latitanza del padre. Non erano armati e non hanno opposto resistenza all’arresto. Entrambi avevano documenti d’identità con false generalità. L’esito positivo dell’operazione è stato favorito, in maniera determinante, dalla cooperazione avviata con la polizia tedesca del Saarlander, sotto l’egida del Servizio per la cooperazione internazionale di polizia (Scip), cooperazione che ha consentito di capitalizzare le acquisizioni investigative dei carabinieri di Reggio Calabria. Cosentino, destinatario di mandato di arresto europeo emesso dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria nel giugno del 2017, era irreperibile dall’ottobre 2013, ovvero da quando si era sottratto a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal locale ufficio gip per associazione di tipo mafioso ed estorsione aggravata dal metodo mafioso, medesimi reati per cui era ricercato in campo internazionale. Nel tempo, gli sviluppi processuali hanno condotto a una condanna, confermata in Appello, a oltre 7 anni di reclusione.
L’uomo era stato recentemente inserito nell’elenco dei ‘Latitanti pericolosi’: come hanno documentato le indagini a suo carico, fin dall’anno 2004 ha assicurato un costante contributo alla cosca di appartenenza, da tempo egemone nel territorio di Palmi. Dal 2011, dopo i provvedimenti cautelari che avevano raggiunto il ‘reggente’ del sodalizio, Domenico Nasso, Cosentino si era sostituito a quest’ultimo nella gestione delle attività estorsive, ricevendo da quest’ultimo le disposizioni che gli venivano comunicate tramite i familiari dal carcere. Dopo l’inizio della latitanza, i carabinieri hanno registrato la presenza di Cosentino fuori dal territorio italiano. La cattura odierna ribadisce la dimensione transnazionale del fenomeno ‘ndranghetista, che – come emerso in numerose attività investigative della Dda reggina – si conferma in grado di alimentare e sostenere una rete di stabili relazioni e cointeressenze, funzionale a garantire tanto il reinvestimento dei proventi illeciti, quanto l’appoggio alla latitanza dei suoi affiliati più importanti.

Cronache della Campania@2018

Clan Vastarella, il pentito: ‘Il nero sfondò il muro durante la strage delle Fontanelle e fece scappare Antonio, figlio del boss’

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Sono due i pentiti che hanno collaborato all’inchiesta della Dda di napoli e che dall’alba di ieri ha stroncato il potente clan “familiare” dei Vastarella del rione Sanità con 18 arresti di cui 16 in carcere e due ai domiciliari e altri due indagati a piede libero. Si tratta di Rosario De Stefano, già noto per aver aiutato Carlo Lo Russo a organizzare l’omicidio dell’e boss del rione Pietro Esposito detto “Pierino” , dando in pratica campo libero alla nuova ascesa dei Vastarella e Salvatore Marfè ex affiliato del gruppo di Forcella del boss, anch’egli pentito Maurizio Ferraiuolo.. Il primo ha parlato di Patrizio Vastarella e della moglie, ma ha pure riferito un particolare inedito relativo alla strage delle Fontanelle del 22 aprile 2016. Il secondo invece ha parlato in particolare delle alleanze tra i clan del rione Sanità e i clan di Forcella. È stato lui a raccontare che i Sequino e i Savarese si erano alleati con i Sibillo. E’ stato il pentito Rosario De Stefano a svelare un particolare inedito dell’agguato delle Fontanelle nel circolo Madonna Santissima dell’Arco in cui furono uccisi Giuseppe Vastarella, il cognato Salvatore Vigna e rimasero feriti Dario Vastarella, Antonio Vastarella (figlio di Patrizio) e Alessandro Ciotola, questi ultimi due tra i 16 finiti in carcere ieri. Nell’’interrogatorio reso ai pm antimafia il 31 ottobre del 2016 De Stefano ha raccontato: “Per quanto mi ha raccontato ’o zo, è stato Micol il nero a rompere la parete consentendo la fuga di Antonio Vastarella. Io avevo un buon rapporto con Micol: era lui la persona da cui mi rifornivo quando frequentavo le Fontanelle tutti i giorni. Non ho mai parlato con Micol della strage delle Fontanelle. Avevo saputo da Fabio Vastarella e dal cognato di quest’ultimo, tale “Tozzillo”, che lui aveva salvato Antonio Vastarella sfondando il muro. Ma non ne ho mai parlato con Micol. Ho poi incontrato Patrizio Vastarella, sono andato a fargli le condoglianze e abbiamo parlato del figlio che si era salvato grazie all’intervento di Micol”.Oltre alle 18 misure cautelare tra cui 16 in carcere e due donne ai domiciliari Manuela Murolo e Gelsomina Galasso, nell’inchiesta figurano anche i nomi di Antonio Ciotola e Agostino Riccio  per i quali il Gip non ha concesso la misura cautelare chiesta dalla Dda.

(nella foto da sinistra il boss Patrizio Vastarella, la moglie Dora Staterini, il figlio Antonio, Mike Korkoi, Giuseppe Vastarello e Salvatore Vigna)

Cronache della Campania@2018

Stalker di Boscoreale a processo, minacciò la sua ex e la perseguitò per mesi

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Boscoreale. La perseguita, le fa perdere il lavoro e nonostante fosse stato arrestato continuava a scriverle lettere, fino a minacciare di morte anche il nuovo fidanzato di lei. Un incubo che una donna di 30 anni ha dovuto vivere per le ossessioni del suo ex un 37enne di Boscoreale che era arrivato anche ad inseguirla e a tamponarla con l’auto. La vicenda è approdata dinanzi al giudice monocratico del Tribunale di Torre Annunciata, Maria Camodeca. La donna, assistita dall’avvocato Salvatore Pinto si è costituita parte civile ed ha testimoniato contro l’ex fidanzato. Alcuni testimoni, tra cui l’ex datore di lavoro e un suo collega hanno confermato che il licenziamento era arrivato proprio dopo una serie di minacce arrivate in ufficio con richieste pressanti di avere il nuovo numero della donna. Sono passati cinque anni dalla fine della storia tra i due fidanzati, poi l’inizio dell’incubo con il 37enne assuntore di sostanze stupefacente arrestato più volte per violenze in famiglia per aver picchiato i genitori. Ma nonostante l’arresto, l’ossessione per quella sua ex non era finita, anzi. Dal carcere aveva continuato a scriverle, lettere apparentemente d’amore chiedendole di tornare indietro. La ragazza si era guardata bene dal rispondere e durante alcuni permessi premio era iniziata la persecuzione vera e proprio, fino ad irrompere sul luogo di lavoro e a minacciare di morte il nuovo fidanzato. Ad aprile scorso, l’uomo aveva inseguito la donna per le strade di Boscoreale e l’aveva tamponata per fermarla e minacciarla. Per fortuna era arrivato un nuovo arresto per la condanna definitiva relativa alle violenze ai genitori. Il processo per stalking iniziato alcuni mesi fa terminerà velocemente, alla prossima udienza verranno ascoltati gli ultimi testimoni, poi si andrà verso la sentenza.

Cronache della Campania@2018

Picchia l’ex insieme alla sua nuova compagna: condannata una coppia di Giffoni

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Giffoni. Due mesi di reclusione dietro i quali si nasconde il calvario di una donna, originaria della Costa d’Avorio, arrivata in Italia nel 2000, insieme al compagno originario di Giffoni. Scappata da un conflitto civile nel suo paese, aveva pensato di aver trovato l’amore di una famiglia e la serenità. E invece la decisione di vivere con quell’uomo, incontrato in Costa d’Avorio e dal quale aveva avuto una bambina, si rivelò un incubo. Una storia che è oggetto di un procedimento giudiziario che ha portato un uomo di 65 anni M. F. e la sua compagna, dinanzi ai giudici della Corte d’Appello, che li hanno condannati a due mesi di reclusione per lesioni. L’avvocato della coppia, Matteo Cardamone ha presentato ricorso in Cassazione. Lei aveva conosciuto quello che sarebbe diventato il suo compagno e il suo aguzzino a 25 anni e nel 2000 i due decisero – visti i conflitti sociali presenti in quel paese – di tornare in Italia, a Giffoni. Ma ben presto l’idillio finì e lui la cacciò di casa, così i due finirono per separarsi e lei decise di andare a vivere a Bari, dove trova lavoro e cresce la figlia. Ma un giorno, a causa della morte della madre di lui, la donna e sua figlia tornano a Giffoni per partecipare al rito funebre. Quella notte dormono a casa dell’uomo, ma verso le 5 del mattino, irrompe in casa la nuova compagna del 65enne che aggredisce la povera donna, l’afferra per il collo e la malmena. Da darle man forte proprio l’ex. Quando la vittima è ferita e sanguinante i due si fermano e lui tentata di chiedere scusa per impedire di essere denunciato. Ma la donna, dopo l’ennesima umiliazione, decide di denunciare entrambi e porre fine ad un incubo durato troppo tempo.

Cronache della Campania@2018

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