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La Cassazione ha annullato con rinvio ai giudici del secondo grado le condanne a carico di tre affiliati dell’ex clan Sarno accusati di estorsioni tra Ponticelli, Pollena Trocchia e Somma Vesuviana. Processo da rifare per Enrico Orefice, Annunziata Casti e per Amalia Carotenuto.
I tre imputati, al termine nel pre- cedente processo, avevano incassato rispettivamente 8 anni di reclusione, 4 quattro anni e 6 mesi, 6 anni e 8 mesi. I giudici della Sesta sezione della Cassazione hanno invece rigettato il ricorso avanzato dai ras Nunzio Boccia e Ciro Terracciano.
Stando alla ricostruzione della Dda, i cinque prendevano gli ordini dai boss di Ponticelli e eseguivano estorsioni a tappeto tra Pollena Trocchia e Somma Vesuviana. La pena più alta era stata quella inflitta al ras Pasquale Carotenuto, padre di Amalia e marito di Luisa Terracciano, condannato a 30 anni di reclusione.
Il gruppo avrebbe sistemato i propri referenti in zone che, in precedenza, erano controllate da altri “cartelli”, così da imporre il pizzo a imprenditori e commercianti, e per controllare il traffico e lo spaccio di cocaina importata dalla Spagna.
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“Le condotte riconducibili a Luigi Cavallaro appaiono sorrette da motivazioni non necessariamente illecite, sono venuti meno a suo carico i gravi indizi di colpevolezza in ordine alla partecipazione all’associazione per delinquere”: è quanto scrive il Gip Paolo Valiante nel provvedimento che ha portato alla revoca dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria imposta a Luigi Cavallaro, ‘o ragioniere, il commercialista di Scafati coinvolto nell’operazione ‘Last Day’ che lunedì scorso ha portato all’arresto di una gang di rapinatori che operava tra la Campania, la Puglia e la Germania e della quale avrebbero fatto parte lo scafatese Domenico Cocco e il foggiano Angelo Carbone.
Stamane, Luigi Cavallaro – noto a Scafati per aver rivestito incarichi in due società partecipate Acse e Scafati Sviluppo, nel corso dell’amministrazione Aliberti – è stato interrogato dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nocera Inferiore, Paolo Valiante, alla presenza del suo avvocato Francesco Di Somma. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia davanti al giudice che ha emesso la misura cautelare in carcere a carico di 9 persone finite in carcere, otto ai domiciliari e due con obblighi, Cavallaro – 45 anni – ha dato ampie spiegazioni sul noleggio dell’auto che fu poi utilizzata dal pizzaiolo scafatese Domenico Cocco e dai suoi complici per il viaggio in Germania pensato per assaltare un furgone portavalori in Renania. A nome di Cavallaro – secondo quanto ricostruito dagli uomini della Squadra Mobile – fu affittata l’auto, presso una concessionaria napoletana, utilizzata per il viaggio. Ed inoltre dallo studio di commercialista di Cavallaro erano partite e arrivate alcune mail utilizzate dalla gang per preparare il colpo.
Il commercialista ha spiegato fornendo ampia documentazione cosa è avvenuto nei mesi scorsi e quali erano i suoi rapporti con Cocco, suo cliente al quale lo univa la passione per i cani di razza. Al termine dell’interrogatorio il Gip Valiante ha revocato il provvedimento a sua firma nei confronti del professionista scafatese rilevato che ‘nell’interrogatorio di garanzia l’indagato (a differenza di quasi tutti gli altri) ha fornito una dettagliata e documentata giustificazione rispetto agli addebiti che gli sono stati mossi, alla luce della quale – pur restando oggettivamente confermata la sussistenza dei fatti nella loro storicità – è ora possibile inquadrarli diversamente da come era invece plausibile fare prima’. Il provvedimento è stato notificato oggi al difensore e al commercialista indagato in mattinata e, dunque, Cavallaro non è più sottoposto all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Rosaria Federico
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Brescia. Il dna sui leggins e sugli slip di Yara Gambirasio era di Massimo Bossetti, condannato al carcere a vita per l’omicidio della piccola ginnasta. Per i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Brescia non può essere svolta, come chiesto dalla difesa, una nuova perizia sul materiale genetico rinvenuto sui vestiti della 13enne trovata morta il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola (Bergamo). “Quello che è certo è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni”, spiegano nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con cui hanno condannato all’ergastolo il 17 luglio scorso il manovale 37enne per l’omicidio di Yara. “Si deve, quindi, ribadire ancora una volta e con chiarezza – proseguono i giudici – che una eventuale perizia, invocata a gran voce dalla difesa e dallo stesso imputato, non consentirebbe nuove amplificazioni e tipizzazioni, ma sarebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato dei Ris (e quindi la famosa perizia genetica sarebbe necessariamente limitata a una mera verifica documentale circa la correttezza dell’operato del Ris e dei consulenti dell’accusa, pubblica e privata)”. I legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, avevano chiesto nuovi accertamenti sul dna sostenendo che le analisi sarebbero state svolte nei laboratori del Ris di Parma con kit scaduti e i campioni sarebbero stati contaminati. La richiesta di una nuova perizia si era già scontrata con il ‘no’ della Cassazione. Questo non aveva fermato i due avvocati che avevano riproposto la richiesta anche davanti alla Corte d’Assise d’Appello, sottolineando l’assenza “del tutto innaturale” del dna mitocondriale nel campione prelevato dal corpo di Yara. Per i giudici, inoltre, “la doglianza della difesa circa la violazione del principio del contraddittorio”, relativa anche all’analisi del dna, è “del tutto infondata”.
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Dalle false case vacanza ai finti coupon online, agli inganni con le postepay e trappole a luci rosse in chat d’incontri, fino a raggiri sfruttando concerti di beneficienza di noti cantanti italiani.
Non si fermavano davanti a niente le truffatrici seriali incastrate dall’indagine ‘Deep Impact’ dei carabinieri di Reggio Emilia, città in cui la banda aveva la sua base.
I destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare sono 6, di cui 3 in carcere, mentre gli indagati 18, alcuni dei quali vicini alla Camorra, tutti accusati di associazione per delinquere, truffa aggravata, ricettazione, sostituzione di persona, uso indebito di carta di credito, estorsione e falso in atto pubblico.
In carcere sono finiti Franca Ceglia, 49 anni, di Giffoni Valle Piana (Salerno) e il figlio Damiano Leone, 29enne originario di Scafati (Salerno) entrambi domiciliati a Reggio Emilia, ritenuti i capi del sodalizio. Stessa sorte anche per Giorgio Barone, 29 anni, di Massa di Somma (Napoli), residente a Reggio. Sono stati disposti invece gli arresti domiciliari per Vincenza Ceglia, 53 anni e sorella di Franca, residente a Scandiano ed Erika Culeddu, 28 anni, nata a Scandiano e residente a Reggio.
Infine, la 25enne napoletana Antonietta Flaminio, residente a Scandiano, e’ stata sottoposta a obbligo di firma e di dimora.
Circa 500 i colpi commessi nell’arco di quattro anni in Italia dall’organizzazione criminale, prevalentemente composta da donne tra i 28 e i 49 anni. Le vittime sono centinaia, e altrettanti gli euro intascati.
“Vai pure a denunciarmi tanto non mi prenderanno mai”, dicevano le truffatrici alle vittime non sapendo di essere intercettate. L’operazione, coordinata dalla procura della Repubblica reggiana, è scattata oggi all’alba.
Grazie all’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Reggio Emilia, su richiesta della pm Valentina Salvi, 3 persone sono in carcere, 2 ai domiciliari e una ha l’obbligo di firma. Le perquisizioni hanno coinvolto Emilia Romagna, Piemonte, Basilicata, Lombardia e Campania.
Determinante il contributo per il positivo esito dell’indagine, spiegano gli investigatori, i servizi sul caso trasmessi in tv da Striscia la Notizia e dalle Iene.Costiera amalfitana, Rimini, Riccione, Brunico e Bressanone Courmayeur sono solo alcune delle località di villeggiatura dove la banda proponeva case vacanza inesistenti.
I truffatori pubblicavano online finti coupon di finte aziende, e ingannavano gruppi di disoccupati con fittizie offerte di lavoro. Truffe anche ai danni di tabaccherie: gli indagati entravano negli esercizi commerciali, simulavano pagamenti con bancomat privi di fondi e uscivano promettendo di rientrare con il denaro necessario.
Poi, però, sparivano nel nulla con la carta ricaricata. Inoltre utilizzando falsi profili di donne avvenenti circuivano uomini che versavano soldi su postepay con la finta promessa di una relazione sentimentale, o semplicemente di un incontro occasionale. Le truffatrici avrebbero sfruttato anche un concerto di beneficienza di un famoso cantante in tour per una reale raccolta a favore della lotta ai tumori: in ospedale la banda vendeva falsi biglietti d’ingresso.
Nel tranello è caduta anche una guardia giurata che, ignara dell’inganno, aveva versato alle criminali tutti i soldi raccolti nel nosocomio per contribuire alla nobile causa.
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Ci sono undici indagati tra medici e paramedici dell’ospedale Martiri di Villa Malta di Sarno per la morte della bambina di San Valentino Torio, avvenuta domenica scorsa dopo un parto cesareo. Nel registro degli indagati sono finiti Rosario Sorrentino, Salvatore Sorrentino, Francesco Dati, Michele Lo Mastro, Pio Pisani, Ciro Palumbo, Raffaella Cirillo, Savina Tanagro, Anna Di Genua, Filippo Angora e Michele Sica.
Il pm della Procura di Nocera Inferiore, Valeria Vinci, titolare dell’inchiesta, ha disposto l’autopsia sul corpicino della piccola Nicole (questo il nome che avevano deciso i genitori della nascitura).
Entro domani sarà conferito l’incarico al medico legale e poi si procederà con l’esame autoptico. Nessuna denuncia è stata presentata ancora ai genitori e ai familiari della piccola reo di aver aggredito il ginecologo e gli altri medici e infermieri e poi di aver destata la sala operatoria dell’ospedale dopo aver appreso la notizia della morte della neonata.
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Una ragazza di 24 anni, parrucchiera di professione, sporge denuncia ai Carabinieri della compagnia di Casal di Principe contro la sua ex fidanzata, per salvarsi da un amore malato, tossico, pericoloso. E’ una storia di persecuzione e di violenza, di stalking e di minacce continue.
Ieri, la stalker, è stata condannata a sette anni di carcere per tentato omicidio e stalking, mentre è stata assolta dal reato di violenza privata. A leggere la sentenza in aula, nel tribunale di Napoli Nord ad Aversa, è stato il presidente di sezione del Tribunale, Giuseppe Ciampa. Il Pubblico Ministero Francesco Persico aveva chiesto la condanna a otto anni di carcere.
Nella sua sua denuncia la ragazza aveva raccontato: “Mi strinse le mani al collo e urlò: io ti ammazzo, ti uccido, senza di me non ti farai una vita, sarò la tua ombra. Mi sentivo soffocare. A quel punto svenni”.La giovane “innamorata” ricorreva a “pizzichi, morsi e graffi” per gelosia.
Una gelosia incontrollabile che vietava alla parrucchiera perfino di truccarsi o di indossare abiti più carini. Le infilava “le unghie nella pelle” se si arrabbiava e aveva installato un Gps sul telefono cellulare della parrucchiera per conoscere tutti i suoi spostamenti.
Durante l’ultimo chiarimento, la ventitreenne artefice di atti persecutori, aveva cercato di strangolarla, nonostante fossero presenti sulla scena anche due amiche della coppia, giunte all’appuntamento proprio per evitare scatti d’ira.Nelle sue denunce c’è un fascicolo pieno di dettagli con tanto di relazione del neuropsichiatra che aveva in cura la ragazza picchiata.
“Iniziai a soffrire di stati d’ansia”, raccontò all’epoca la giovane al sostituto procuratore. Questa triste vicenda ormai è risolta con una condanna e non ai danni di un uomo, come siamo soliti pensare: la violenza non ha età né sesso, non ha distinzione sociale o culturale.
Ad alzare le mani e a provocare scompensi psichici alla sua fidanzata è una ragazza giovanissima, alta quasi un metro e ottanta “che con le sue parole mi faceva intendere di non aver paura di affrontare il carcere”, come dice in udienza.
Ora, la ventitreenne è agli arresti domiciliari, ma la sua “ossessione” non si placa e continua a pubblicare sue foto sui social network. La vittima ha lasciato per qualche tempo Villa Literno per paura di rincontrare in qualunque modo possibile la sua ex, trovando riparo e conforto a Roma.
Regina Ada Scarico
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Salerno. Rapina a due giovani salernitani: finisce ai domiciliari Pietro Milione, 42 anni. Le indagini condotte dalla Squadra Mobile della Questura, su una rapina avvenuta a Salerno il 9 aprile 2017, hanno consentito ai poliziotti della Sezione “Falchi” di accertare la chiara responsabilità di Pietro Milione. Le indagini hanno permesso di accertare che Milione era il responsabile di una rapina a mano armata commessa in via Duomo, a Salerno, ai danni di due giovani minacciati e costretti a consegnargli il portafogli contenente alcune decine di euro.
Il rapinatore, per farsi consegnare il danaro, si spacciò per un appartenente alle forze dell’ordine esibendo un falso tesserino di riconoscimento.
L’ordinanza è stata eseguita questa mattina dai poliziotti che hanno arrestato il Milione, già noto alle forze dell’ordine per diversi precedenti, e lo hanno condotto presso la sua abitazione agli arresti domiciliari
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Trenta a anni di carcere per l’ex ras di Soccavo, Antonio Scognamillo, detto tonino ‘o parente, uomo di fiducia del boss Ciro Grimaldi ‘o settirò. Una condanna pesante arrivata ieri pomeriggio nel corso del processo che si è svolto con rito abbreviato.
Nessuno sconto di pena nonostante Scognamillo abbia cercato, inutilmente, di ammettere le responsabilità in aula, per evitare una condanna pesante. Che invece è arrivata.
Il ras è accusato di aver fatto parte del commando che il 17 settembre del 2001 torturò e uccise il il giovane Francesco Esposito, il cui cadavere fu trovato in un auto a Fuorigrotta.
Francesco Esposito era un affiliato al gruppo Grimaldi e fu “venduto” ai Marfella di Pianura per evitare una strage.
Nell’inchiesta figurano anche i ras del rione Traiano Salvatore Perrella e Ciro Bernardo. C’era anche Diego Basso (l’unico finito in carcere) e che prima aveva deciso di pentirsi poi fece marcia indietro e il 26 ottobre scorso si suicidò in carcere dopo aver scritto delle drammatiche lettere di scuse alla sua famiglia.
Francesco Esposito fu ucciso perché aveva fatto un’estorsione fuori zona e i pentiti Luigi Pesce e Giovanni Romano, hanno spiegato agli investigatori che “Esposito fu riconosciuto mentre faceva l’estorsione e si venne a sapere che quelli di Pianura aveva chiesto il pizzo nella zona di pertinenza di altri clan”.
Un affronto che andava lavato con il sangue, con una punizione esemplare, addirittura con una faida di camorra. Era questo l’intento dei boss di Soccavo e del rione Traiano, che racconta il pentito, fecero una serie di summit, di incontri serrati, per stabilire se i clan di Pianura andassero puniti o meno.
“Così si decise di incontrarsi tutti assieme”, dice ancora il pentito Pesce. Quando ci fu l’incontro Esposito fu “venduto” ai nemici. Per evitare che potesse scatenarsi una faida tra la Nuova Mafia Flegrea e i Marfella di Pianura si disse “che Esposito aveva agito autonomamente” e così poteva tranquillamente essere ammazzato.
Nel giro di pochi giorni la trappola e a raccontarlo questa volta è Romano che dice di aver saputo proprio da Pesce della fine di Esposito. Fu mandato al rione Traiano con la scusa che bisognava caricare della droga da portare a Pianura, arrivato sotto i porticati dove c’è un barbiere fu caricato una un’auto e poco dopo ammazzato.
Secondo i pentiti ad ordinare questo delitto fu tutto il quartier generale di Fuorigrotta e del rione Traiano.
L’altro killer del ragazzo invece, Gaetano Lazzaro del rione Traiano invece da ieir pomeriggio è tornato in libertà per le sue gravi condizioni di salute. Era agli arresti domiciliari. Il processo a suo carico è stato rinviato a fine anno.
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Avellino. Chiedono la rimozione dei dirigenti della società Autostrade imputati nel processo che si sta celebrando davanti al giudice di Avellino, per la morte di 40 persone precipitate dal viadotto ‘Acqualonga’ dell’A16 Napoli-Canosa il 28 luglio del 2013. I familiari delle vittime hanno inscenato una protesta davanti al Tribunale di Avellino, dove è in corso un’udienza del processo in cui sono imputate 15 persone, accusate a vario titolo di omicidio plurimo colposo, disastro colposo e falso in atto pubblico. In particolare, i familiari contestano ad Autostrade per l’Italia spa la decisione di mantenere nell’organico della società funzionari e dirigenti indagati e chiedono di stringere i tempi del processo cominciato il 28 settembre del 2016 davanti al giudice monocratico, Luigi Buono. Secondo i parenti delle vittime le responsabilità per quella tragedia sono “chiare e chiamano direttamente in causa la società Autostrade, per la mancata manutenzione delle barriere poste a protezione del viadotto”. Su questo punto, la società Autostrade, attraverso tecnici e progettisti ascoltati come testi in udienza, ha sostenuto invece che “quelle barriere offrivano sufficienti garanzie di sicurezze e non andavano riqualificate o sostituite”.
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Castellammare di Stabia. Correva l’anno 2011, e l’allora sindaco Luigi Bobbio indicò due gare come esempio che testimoniasse l’attenzione della camorra sullo sviluppo turistico ed economico della città.
A quel tempo nessuno aveva partecipato al bando per l’assegnazione degli chalet all’ Acqua della Madonna. “Strano, singolare e preoccupante” così l’allora fascia tricolore definì l’accaduto. Stessa cosa anche per l’assegnazione delle spiagge libere.
Quelle gare sono state attenzione dalla Procura di Torre Annunziata. Il giudice monocratico a metà gennaio prossimo inizierà il processo che vede imputate 13 persone. La storia delle gare continuò.
I partecipanti pur di aggiudicarsele avrebbero falsificato i documenti. A far scattare l’allarme sono state le segnalazioni degli uffici comunali, infatti il comune si è costituito parte civile.
I 13 imputati sono stati rinviati a giudizio dal gup Mariaconcetta Criscuolo con le accuse di turbata libertà degli incanti e di falso. Sono tutti privati. Si tratta di coloro che parteciparono alle due gare: acquafrescai e balneari.
Nella gara per i chioschi gli acquafrescai avrebbero presentato praticamente la stessa offerta facendo cartello cosa che avvenne nel 2009 in quel caso tutto si concluse con l’assoluzione degli imputati in primo grado.
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“Io devo dare il benservito alla giustizia. Ai giudici, a tutti quanti, io i reati li faccio e non li pago perché altrimenti sono un perdente, mi sento un perdente”.
Massimo Perrone, pregiudicato di Giugliano, si rivolgeva così all’avvocato Anna Savanelli di Parete mentre in auto discutevano di come sistemare le sue pendenze giudiziare. I due non spevano che in quell’auto era stata piazzata una cimice.
Sono stati arrestati ieri insieme Giovanni Romano, compagno della Savanelli, e sostituto commissario di polizia in servizio a di Sessa Aurunca, Andrea Esposito di 62 anni, cancelliere del tribunale di Napoli, già coinvolto nel 2013 nella maxi-inchiesta sui fascicoli insabbiati nel palazzo di giustizia di Napoli e infine l’imprenditore Antonio Caterino di Casal di Principe.
Tutti sono finiti in carcere con l’accusa di corruzione, corruzione giudiziaria e distruzione di atti giudiziari. Ma sono indagati in stato di libertà anche Salvatore Tornincasa e Giovanni Corvino, genero di Caterino.
L’inchiesta della Guardia di Finanza e coordinata dalla procura di Napoli Nord ha scopertchiato il pentolone del malaffare organizzato dall’avvocato, nota alle cronache per aver difeso Walter Lavitola e il suo compagno, il funzionario di polizia Giovanni Romano
. “Più andiamo avanti e più guadagniamo”, si dicevano i due in una intercettazione.Porto d’arma rilasciato dietro il pagamento di tangenti a persone che non ne avrebero avuto diritto, fscicoli fatti sparire – sempre dietro dazione di danaro – dal tribunale di sorvegliaza per evitare la detenzione a soggetti per cui la condanna era passata in giudicato.
C’è tutto questo nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari Barbara Del Pizzo del tribunale di Napoli Nord. Dai settemilacinquecento ai diecimila aeuro: questo era il compenso che avrebbe intascato il cancelliere per consegnare all’avvocato il fascicolo da far sparire.
Dai 2000 euro ai 2.500, invece, era la somma per il sostituto commissario.”La libertà ha un prezzo” aveva detto l’avvovato Savanelli al pregiudicato Massimo Perrone perché si doveva “pagare l’amico”.
Ovvero il cancelliere Esposito del Tribunale di sorveglianza di Napoli. Gli investigatori hanno accertato che Esposito aveva consegnato all’avvocato Savanelli, dopo aver ricevuto la somma pattuita, la richiesta di esecuzione della pena di Massimo Perrone.
Poi, l’avvocato dopo aver fatto uscire il fascicolo dal palazzo di giustizia la portò all’imputato, suo cliente; davanti a una tazzina di caffè al bar Makerè a Giugliano dove si diede fuoco alle carte.
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Scafati. Estorsioni messe a segno da esponenti del clan Ridosso-Loreto: arrivano le condanne bis. Sostanzialmente confermate le pene inflitte con rito abbreviato in primo grado dai giudici della Corte di Appello di Salerno, nell’ambito del processo alla cosca di Scafati.
Lo sconto maggiore di pena è quello che è stato riservato a Gennaro Ridosso, condannato in primo grado ad 8 anni e dieci mesi, dovrà scontare 5 anni e 4 mesi, quattro in più rispetto a quelli chiesti per lui dal procuratore generale Pierina Consoli nel corso della requisitoria; sconto di dieci mesi di reclusione anche per Alfonso Morello, condannato in primo grado a sei anni e 10 mesi e ritenuto il cassiere e il riscossore dei proventi dell’usura per conto del clan Loreto-Ridosso, per Morello cade anche l’aggravante camorristica.
Luigi Ridosso, sei anni e 10 mesi in primo grado, ottiene la concessione delle attenuanti generiche e viene condannato a 5 anni e due mesi. A Romolo Ridosso, ritenuto uno dei promotori dell’associazione criminale che operava tra Scafati, Castellammare e Pompei, sono stati inflitti tre anni e sette mesi di reclusione a fronte dei 4 anni e dieci mesi del primo grado. Confermate per tutti gli altri le pene decise dal Gup di Salerno Emiliana Ascoli a gennaio scorso.
Tra questi quella del consigliere comunale di Castellammare di Stabia, Massimiliano De Iulio, eletto in una civica e sospeso per effetto della condanna a tre anni incassata in primo grado. Medesima pena era stata inflitta anche allo stabiese Carmine Di Vuolo.
Confermata la condanna a sei anni anche per il collaboratore di giustizia Alfonso Loreto.Il Gup Ascoli aveva invece rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Nocera Inferiore, gli altri coimputati nel processo: Salvatore Ridosso, Francesco Sorrentino alias’o campagnuolo, Antonio Palma di Pompei, Michele Imparato di Boscoreale e Antonio Romano di Pompei.
Tutti accusati a vario titolo di associazione per delinquere, usura e estorsione, per aver fatto parte del clan operante a Scafati e nei comuni limitrofi tra il 2007 e il 2008.
A settembre del 2015 i capi della cosca Loreto-Ridosso erano finiti in manette, mentre i fiancheggiatori erano finiti poi a processo.
Dopo gli arresti, sia Alfonso Loreto che Romolo Ridosso avevano deciso di collaborare con la giustizia dando vita a nuovi filoni di inchiesta tra i quali quello del legame tra politici e camorristi che ha portato allo scioglimento del consiglio comune del Comune di Scafati.
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Napoli. La Procura di Napoli Nord ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di reato di traffico illecito di rifiuti sulla gestione delle discariche ‘a cielo aperto’ presenti nella cosiddetta “terra dei fuochi”. E’ stato pertanto emesso un decreto di perquisizione eseguito dalla Forestale che ha portato ad un blitz negli uffici della società Campania Ambiente, gestita dalla Regione Campania, che si occupa appunto di smaltimento di rifiuti. Sono stati anche perquisiti gli uffici della sezione ambiente del Comune di Afragola che secondo l’ipotesi della Procura di Napoli Nord avrebbe concesso autorizzazioni alla rimozione di lastre di amianto in un campo nei pressi della stazione dell’Alta velocità senza che l’azienda ne avesse i requisiti. Si ipotizzano inoltre sperperi di denaro pubblico.
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Sputò in faccia a chi le aveva ammazzato il figlio e i Gionta vendicarono l’affronto uccidendola mentre tornava a casa dopo aver fatto la spesa al mercato del venerdì. ma per l’esecutore materiale di quell’ennesimo feroce omicidio di una vittima innocente di camorra è arrivata la sentenza: fine pena mai per Umberto Onda detto “Umbertino” ex reggente del clan Gionta, arrestato a Brindisi nell’estate del 2010 mentre scendeva da un traghetto proveniente dalla Grecia dove aveva trascorso le vacanze. Onda fu protagonista lo scorso anno di un clamoroso gesto di protesta in carcere contro le cattive condizioni del regime detentivo del 41 bisstringendosi una cintura al collo e inscenando un finto suicidio. proprio davati alla guardie penitenziarie.
E’ accusato di aver ucciso Anna Barbera,trucidata a 63 anni, il 12 marzo del 2004, mentre era in auto in via Vesuvio al confine tra Trecase e Torre Annunziata.
Stessa pena per il complice Alfonso Agnello detto chiò chiò, noto per essere stato il primo accusato (poi scagionato da un vigile urbano di Castellammare che lo multò ) dell’omicidio di Giancarlo Siani, il cronista del Mattino ucciso nel 1985.
Lui è stato condannato perché ritenuto tra i responsabili dell’omicidio di Vincenzo Amoretti, alias “banana”, 25enne affiliato al clan Gallo-Cavalieri, ucciso nel sonno il 24 aprile 2007 dal commando di finti poliziotti.
Ad emettere la sentenza ieri i giudici della Corte d’Assise di Napoli (presidente Alfonso Barbarano). Anna Barbera era la mamma di Umberto Ippolito, ucciso dal clan Gionta il 22 febbraio 1994.
L’uomo avrebbe dovuto testimoniare nel processo a carico di Luigi Limelli, all’epoca boss del clan di Boscotrecase attiva nel traffico e nello spaccio di droga. Del delitto si auto-accusò il pentito Salvatore Barbuto.
In occasione di un’udienza del processo a suo carico la donna gli sputò contro mentre erano davanti il Tribunale. Offesa punita con il sangue. La donna venne affiancata da due sicari in moto mentre era a bordo della sua Fiat 500. Due colpi di pistola calibro 9 luger alla tempia. Precisione chirurgica da killer. Onore del clan.
Decisive per la ricostruzione dell’omicidio di Anna Barbera sono state le dichiarazioni del pentito Aniello Nasto alias quarto piano, che si autoaccusò di avere materialmente partecipato delitto (ha scelto poi di essere processato con rito abbreviato) e indicò in Umberto Onda, all’epoca dei fatti latitante, colui che sparò.
Ecco cosa raccontò nel 2007: “Una volta ricevuta l’imbeccata io e Umberto ci ponemmo sulle tracce della vittima. Io guidavo un ciclomotore Honda Sh 150 di colore blu di provenienza furtiva, procurato dallo stesso Umberto Onda. Sapevamo il percorso che avrebbe fatto Anna Barbera per ritornare a casa e la raggiungemmo. Accostai l’auto della vittima e Umberto Onda esplose in corsa due colpi di pistola”.
Sarebbe stato il fratello di Umberto Onda, che in quel periodo si nascondeva a Torre Annunziata per sfuggire aliarresto, a far incontrare Nasto e il killer.”Un venerdì mattina – raccontò il pentito Nasto- mi trovavo in via San Francesco di Paola nei pressi della chiesa di via Roma e venni chiamato da Arturo Onda (fratello di Umberto Onda, ndr) il quale mi disse di andare con lui perché mi doveva portare da Umberto, all’epoca latitante per un resi duo di pena”.
Oltre a Onda e Agnello sono finiti a processo per questo delitto altri nomi eccellenti dei Valentini: il boss Pasquale Gionta ‘o chiatto ritenuto il mandante. e Michele Palumbo alias munnezza ora collaboratore. Hanno tutti scelto l’abbreviato e sono stati condannati in primo grado.
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Insospettabili, alcuni incensurati, eppure avevano creato un vero e proprio sistema di spaccio che abbracciava i comuni tra Nocera e Pagani. Una zona senza riferimenti, vuota, che doveva essere colmata. I giovani acquistavano la droga nei vesuviani e la spacciavano nelle città salernitana.
Nei giorni scorsi sei di loro sono stati condannati, tra patteggiamenti e riti abbreviati, davanti al giudice per le indagini preliminari. La pena più alta è stata commisurata al 21enne Marcello Radice, considerato il punto di riferimento, condannato a 8 anni e 8 mesi di reclusione.
A seguire 5 anni e 4 mesi per Giovanni Marino, 1 anno e 4 mesi per Rosario Manzo, 1 anno per Massimo Naclerio, 1 anno per Giuseppe D’Orio e 4 anni e 4 mesi per Luigi Sorrentino. Le prime attività investigative partirono a luglio del 2016 quando i militari dell’ arma trovano nel garage di Alfonso Zucca due chili di hashish.
Attraverso pedinamenti gli inquirenti giunsero ad effettuare tredici sequestri di droga molto rilevanti, uno di questi destinato al nord, in Veneto, mentre stava per partire in autostrada. Molti imputati sono stati assolti, alcuni hanno scelto di patteggiare. Tra gli indagati non vi era alcun vincolo associativo, ma solo il bisogno di fare soldi attraverso lo spaccio.
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Pagani. Bruciò il bar della sua ex perché l’aveva lasciato ed è stato condannato. Una condanna in primo grado a 3 anni e 4 mesi di reclusione per un 40enne di Pagani. L’uomo era stato accusa di stalking e tentativo di incendio.
Ad individuarlo furono i carabinieri, pochi giorni dopo, ricostruendo l’esatta dinamica dei fatti. La donna, proprietari dell’ attività in Via Marcoli, aveva lasciato l’uomo ed ha dovuto subire atteggiamenti molesti e persecutori per un lungo periodo. Grazie alle testimonianze, le immagini di videosorveglianza si è trovato il colpevole.
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E’ stato già scarcerato l’ex boss pentito Antonio Lo Russo. Sei mesi di confessioni piene sono servite all’ex rampollo dei “capitoni” di Milano di riacquistare la libertà. Ora è in una località protetta insieme con la moglie Anna Gargano e figli e gode dei benefici previsti dalla legge per chi collabora con lo Stato.
Ovvero nuova identità, casa, vitto e assegno mensile di mantenimento che paga il servizio centrale di sicurezza. Le sue confessioni sono servite a fare chiarezza su tutti gli affari gestiti dal gruppo che all’interno del clan Lo Russo egli stesso gestiva in piena autonomia e spesso in contrasto soprattutto con gli zii Mario e Carlo(diventati collaboratori di giustizia prima di lui).
Ha fatto luce sull’efferato duplice omicidio di Massimo Frascogna e Lazzaro Ruggiero, accusando il suo compare di nozze , il super boss Cesare Pagano e altri affiliati del suo gruppo e degli Amato-Pagano. Pochi giorni la Dda nel processo che si sta svolgendo con il rito abbreviato ha chiesto ill massimo della pena per Cesare Pagano, capo degli scissionisti, per Oscar Pecorelli ‘ o malommo, Raffaele Perfetto “muss ‘ e scigna”, Rito Calzone, Giuseppe Gallo e Mario dell’Aquila.
Venti anni di reclusione è la condanna chiesta invece per lo stesso Antonio Lo Russo e Biagio Esposito, zio della moglie, anch’egli pentito. Ha fatto condannare a tre anni di carcere il gioielliere dei Vip di via Calabritto, Luigi Scognamiglio, detto “Giggino Elite” e suo vecchio compagno di infanzia che lo ospitò durante la sua latitanza.
Dei suoi verbali, ammessi agli atti dei processi, molti sono coperti da omissis e sicuramente se ne conosceranno i contenuti nei prossimi mesi. Non si sa se Antonio Lo Russo ha parlato del suo tesoro e se lo consegnato alla giustizia. I pentiti del clan che lo hanno preceduto hanno raccontato che “aveva tanti soldi che non riusciva neanche a contarli tutti. Li aveva murati nelle pareti”.
Del resto uno che durante la latitanza in Polonia si permetteva la casa con jacuzzi e ristoranti di lusso e poi lo stesso in Francia a Nizza dove fu catturato nel 2014.
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Sono stati tutti rinviati a giudizio i carabinieri “infedeli” in servizio alla compagna di Torre Annunziata accusati di aver favorito il boss di Boscoreale, Franco Casillo ‘a Vurzella.
Il pm Raffaello Falcone della Dda di Napoli ha ottenuto il rinvio giudizio dell’ex comandante Pasquale Sario, oggi tenente colonnello, del carabiniere Sandro Acunzo,(detto Mazinga) e già condannato poche settimane fa per la detenzione illegale di un proiettile durante la perquisizione che ha preceduto un anno fa il suo arresto, nonché l’altro carabinieri Gaetano Desiderio, all’epoca dei fatti tutti in servizio a Torre Annunziata, insieme ad Orazio Bafumi (anche lui accusato di narcotraffico, braccio detsro del boss Casillo), Luigi Izzo e Aniello Casillo, fratello del boss Franco “’a vurzella”.
I 6 saranno alla sbarra il prossimo mese di dicembre, quando è fissata la prima udienza. Secondo l’Antimafia i carabinieri infedeli avrebbero favorito il traffico di droga al Piano Napoli di Boscoreale, in cambio di regali e soffiate, smistando addirittura carichi di stupefacenti nelle mani del boss o effettuando arresti “pilotati” contro i suoi rivali.
Hanno scelto di essere processati con rito abbreviato, sperando dunque in uno sconto di pena, il boss Franco Casillo, il suo avvocato Giovanni De Caprio, e gli altri carabinieri (alcuni dei quali in pensione) Francesco Vecchio, Antonio Formicola, Antonio Santaniello, Franco De Lisio, Catello Di Maio, Antonio Paragallo e Santo Scuderi.
Tutti accusati di aver favorito, il super boss del Piano Napoli di via Passanti Scafati, che gestiva la “Scampia del Vesuviano” con lo spaccio di droga H24 e introiti milionari.
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“Sono destituite di ogni fondamento le notizie, diffuse da organi di informazione, secondo le quali Antonio Lo Russo, già capo dell’omonimo clan camorristico e attualmente collaboratore di giustizia, sarebbe stato scarcerato”. E’ quanto si legge in una nota della Procura di Napoli.
“Antonio Lo Russo si trova ristretto in istituto penitenziario in esecuzione di condanna definitiva alla pena di 18 anni di reclusione – si legge – , nonchè di ordinanza di custodia cautelare per il delitto di organizzazione di associazione criminosa di tipo mafioso”.
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