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Villaricca, Greco confessa: ‘Non volevo ucciderli, volevo prendere la targa’

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Ha ammesso di aver raccontato il falso e ha chiesto piu’ volte scusa alla famiglia delle vittime il 26enne Giuseppe Greco.

Questa mattina nel carcere di Poggioreale è stato sottoposto all’interrogatorio di garanzia dopo il fermo per il duplice omicidio di Ciro Chirollo e Domenico Romano, avvenuto a Marano venerdi’ scorso. Per la Procura di Napoli Nord e i carabinieri, Greco ha speronato con la sua Smart lo scooter Tmax con in sella i due uomini che poco prima lo avevano rapinato del costoso Rolex.

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Stamani, sostenuto dal suo avvocato Domenico Della Gatta, e alla presenza del sostituto procuratore Paolo Martinelli, Greco, ancora in stato di choc, ha confessato al gip di Napoli Nord, Nicola Paone di aver tamponato lo scooter con a bordo Chirollo e Romano, ma di non aver avuto “alcuna intenzione di ucciderli”. “Volevo solo prendere la targa”.Il giovane, che con la fidanzata gestisce un sito internet di vendita di capi di abbigliamento, ha spiegato di aver detto falsita’ circa le fase successive alla rapina – aveva raccontato che i banditi gli avevano preso il rokex e l’auto – “per paura di ritorsioni, per non deludere la mia fidanzata e la mia famiglia. Ho sbagliato, cercate di capirmi, sto male vi prego aiutatemi” ha implorato al magistrato.

IL RACCONTO DI GRECO

Greco ha raccontato che dopo aver subito la rapina da parte di Chirollo e Romano, questi ultimi si erano allontanati. “Anch’io volevo tornarmene a casa, poi li ho incrociati alla rotonda di San Rocco, a meno di un chilometro di distanza dal punto della rapina, e a quel punto ho pensato di inseguirli, ma non per ucciderli, ma per la targa; in prossimita’ di una curva, li’ ho tamponati e ho perso il controllo della mia Smart, che dopo qualche metro si e’ fermata. L’auto non funzionava piu’, cosi’ sono sceso, e non sono passato sopra i loro corpi come ho letto. Poco dopo ho incontrato un ragazzo in scooter che mi ha riaccompagnato sul luogo della rapina e poi a casa. Quindi, con mio fratello, mi sono recato dai carabinieri. Sono sconvolto. Se volete vi accompagno sul posto”. Il pm, al termine dell’interrogatorio durato un’ora e mezza, ha chiesto al Gip di disporre il carcere, mentre l’avvocato Della Gatta ha fatto richiesta dei domiciliari, magari con braccialetto elettronico. Il Gip decidera’ nelle prossime ore.

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Cronache della Campania@2015-2021


Il boss Domenico Belforte al 41 bis ha il Covid, salta il processo in Corte d’Appello

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Il boss Domenico Belforte al 41 bis ha il Covid, salta il processo in Corte d’Appello

E’ slittata l’udienza in Corte d’Assise d’Appello di Napoli fissata per discutere sull’istanza presentata dall’avvocato Nicola Musone per il ricalcolo della pena detentiva a carico di Domenico Belforte, storico capoclan di Marcianise. L’udienza è stata rinviata a maggio perché l’imputato, ristretto al 41 bis (carcere duro) nella struttura detentiva di Cuneo, ha contratto il Covid-19.

Belforte, 63 anni, è in carcere ininterrottamente da 22 anni e, secondo le previsioni dei giudici, ci dovrebbe rimanere fino al 2031. Su di lui pende un’altra condanna a 30 anni ricevuta in primo grado per l’omicidio di Angela Gentile, uccisa per aver avuto una relazione con lui. La prossima settimana è in programma la nuova udienza.

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Mazzette per il concorso: 48mila euro a casa della prof arrestata a Pompei

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Mazzette per il concorso: 48mila euro a casa di una delle due professoresse arrestate a Pompei.

Ben 48mila euro trovati dagli agenti del commissariato di polizia di Pompei, a casa di Concetta Orabona una delle due professoresse finite oggi agli arresti domiciliari, nell’ambito di una indagine della Procura di Napoli Nord. L’altra è Cristina Morone.

Le due professoresse – denunciate da due candidate del ‘concorsone’ svoltosi nella primavera 2020 -, svolgevano anche attività sindacale.La Procura di Napoli Nord ha scoperto un giro di mazzette nei concorsi per l’insegnamento, tra cui il noto ‘concorsone’ della scorsa primavera.

Mazzette per superare il concorso: leggi anche qui

A denunciare i fatti due candidate, che hanno registrato il colloquio durante il quale sono state formalizzate le richieste. L’esposto, con i file audio, è stato presentato nel commissariato di Pompei ma il reato ipotizzato, induzione indebita a dare o a promettere ingenti somme di denaro, per superare le prove di un concorso, risulta essere stato consumato nell’hinterland a nord di Napoli.

SODDISFATTE O RIMBORSATE

Soddisfatti o rimborsati: in un caso si sono dette pronte a restituire i soldi le due docenti  di Pompei. Il disegno sarebbe stato attuato daLLE due amiche docenti, Cristina Morone e Concetta Orabona. Tutto e’ venuto alla luce grazie a due sorelle, alunne di una delle prof, che avevano gia’ sostenuto il concorso per la selezione di personale docente della scuola secondaria di primo e secondo grado per gli ambiti di laboratori di tecnologia e tecniche per la comunicazione multimediale. Entrambe erano in attesa dei risultati: correzioni non erano ancora iniziate e Procura e Ps sono intervenuti prima, proprio per impedire assegnazioni di cattedre ‘viziate’ dalle mazzette. Le due sorelle, dopo essere state avvicinate da una terza persona, legata alle due indagate, si sono recate a colloquio con una delle docenti.

IL COLLOQUIO REGISTRATO

Un colloquio – interamente registrato con il cellulare – durante il quale e’ stata formalizzata la richiesta di denaro che avrebbe assicurato loro il superamento del concorso. Non solo. In quel caso, e’ stato anche applicato uno sconto: si trattava di due ex alunne e di due sorelle, quindi invece di 40mila euro la somma da corrispondere sarebbe stata di 30mila. Le due ragazze hanno preso tempo, dicendo di non avere a disposizione i soldi. Poi hanno consegnato tutto agli investigatori. Analoga proposta e’ stata fatta anche a un’altra candidata a cui pero’ sono stati chiesti 40mila euro. La candidata agli inquirenti ha detto che non era la prima volta che Orabona l’avvicinava per quel tipo di richiesta. In precedenza, ha raccontato, le era stata prospettata la possibilita’ di superare, pagando 20mila euro, un altro concorso, relativo all’assegnazione di una cattedra come insegnante di sostegno: “Se la vuoi avere mi devi 20mila euro”, le era stato detto.

Secondo quanto emerge dall’indagine le due professoresse, in sostanza, lasciavano intendere alle candidate che l’ingente somma sarebbe stata ripartita tra i componenti la commissione esaminatrice di cui Cristina Morone faceva parte. Gli altri componenti, pero’, venuti a conoscenza della vicenda, hanno presentato una querela per denunciare il sistema. Gli investigatori ne hanno accertata l’estraneita’. La certezza della tentata induzione a dare o a promettere utilita’, riguarda, al momento, tre candidate, ma sono in fase di valutazione molti altri casi, in alcuni dei quali le somme sarebbero stata versate. Le due prof organizzavano corsi per la preparazione ai concorsi, e anche in queste occasioni avrebbero chiesto ai partecipanti soldi per il superamento della prova. Dalle conversazioni emerge che Concetta Orabona avrebbe assicurato il superamento del concorso manovrando le correzioni delle prove (che si eseguono su una piattaforma informatica) grazie all’intervento di Morone.

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Cronache della Campania@2015-2021

Camorra, sequestro beni per 10 milioni di euro al clan Mallardo

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Colpo al clan Mallardo di Giugliano con un sequestro beni da 10 milioni di euro.

È in corso da stamattina, da parte della Polizia di Stato di Napoli, un importante sequestro di beni nei confronti del clan Mallardo di Giugliano, uno delle principali cosche camorristiche della provincia. Il valore dei beni ammonta a circa 10 milioni di euro.

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La polizia sta apponendo i sigilli ad appartamenti, negozi, e conti correnti bancari ad esponenti della potente cosca fondatrice della famosa Alleanza di Secondigliano insieme con i Contini del vasto e i Licciardi della Masseria Cardone. Il provvedimento di sequestro da parte della sezione criminalità economica deriva da inchieste e condanne che hanno colpito la cosca negli ultimi anni.

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Napoletani scomparsi in Messico: imputata fugge durante il processo

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Napoletani scomparsi in Messico: imputata fugge durante il processo. L’avvvocato Falletti, legale delle famiglie Russo e Cimmino: “Tutta questa storia sembra la sceneggiatura di un film.”

“Ciò che è accaduto rasenta l’incredibile, tutta questa storia, sin dall’inizio, è sembrata tratta dalla sceneggiatura di un film, ma purtroppo è realtà”, commenta l’avvocato delle famiglie Russo e Cimmino, Claudio Falleti.

La fuga della poliziotta imputata in Messico per la sparizione di Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, due dei tre italiani, di cui si sono persi le tracce il 31 gennaio 2018, nel Paese centroamericano, ha dell’incredibile.

“Questi lunghi ed estenuanti giorni di processo, continua Falleti, hanno dato i loro frutti in quanto molte delle prove ammesse e formate sono inconfutabili, in ultimo la fuga di uno degli imputati stile Hollywood verosimilmente decisa con l’avvicinarsi della condanna che non depone a favore della difesa e non fa che rinforzare un coinvolgimento nei fatti che tutti gli imputati fino alla fine hanno cercato di negare”.

Al processo, ha testimoniato anche Francesco Russo, fratello e cugino di Antonio e Vincenzo, e figlio di Raffaele Russo (di quest’ultimo si erano perse le tracce diverse ore prima dei due giovani e il processo riguarda indirettamente la sua scomparsa). Secondo quanto si apprende dall’avvocato messicano che sta coadiuvando Falleti in questo procedimento giudiziario, in Messico, tra gli addetti ai lavori, non si parla altro: “E’ un processo storico – sottolinea il legale delle famiglie Russo e Cimmino – per la prima volta la ‘sparizione forzata’ di tre cittadini italiani venduti da dei poliziotti ai narcos locali vede un tale dispiegamento di forze: quattro pm della Fiscalia (la procura messicana), quattro avvocati della difesa, tre avvocati delle vittime indirette (i familiari degli scomparsi) dell’accaduto”.

“Purtroppo – sottoinea Claudio Falleti – siamo rimasti soli davanti a questo calvario che per una strana coincidenza si concluderà proprio oggi, venerdì santo”. Durante tutto il processo è stata offerta agli imputati la possibilità di dare qualche informazione sui tre italiani. Qualora ne fossero a conoscenza, indicare il luogo in cui si dovrebbero trovare.

“Mi auguro – conclude Falleti – che questi tre anni e due mesi di lavoro, sacrificio e di proteste non siano stati vani e che la giustizia faccia realmente il suo corso. I colpevoli devono pagare. Come ha detto Francesco Russo, durante la sua deposizione “noi vogliamo solo sapere dove sono Lello, Antonio e Vincenzo”.

Leggi dei tre napoletani scomparsi  anche qui

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Costruzione dell’Ospedale del Mare: tutti assolti dopo 11 anni

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Costruzione dell’Ospedale del Mare a Napoli la IV sezione penale del Tribunale di Napoli ha assolto perche’ il fatto non sussiste tutti gli imputati dopo undici anni di processo.

Erano tutti accusati di falso e truffa ai danni dell’Asl Napoli 1 Centro. L’assoluzione giunge dopo la prescrizione dei reati contestati. Nel 2010, l’allora sostituto procuratore di Napoli, Giancarlo Novelli, ottenne il rinvio a giudizio, tra gli altri, per Matteo Gregorini, direttore dei lavori; Claudio Ragosta e Lorenzo Catapano, responsabili del procedimento e dirigenti pro tempore del servizio tecnico dell’Asl; Giovanni Di Minno, ex direttore generali dell’Asl; Nicola Silvestri e Remigio Prudente, ex direttori sanitari; Luigi Patrone ex direttore amministrativo.

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Per la procura avevano commesso irregolarita’ a vario titolo sulla progettazione, procurandosi vantaggi economici a spese delle casse dello Stato.  Nel processo figuravano anche l’ex direttore generale Mario Tursi (nel frattempo deceduto) e  Pasquale Corcione (anch’egli nel frattempo deceduto), ex direttore amministrativo.

 

 

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Tangenti al comune di Torre Annunziata: nuove accuse all’ex dirigente Ariano

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Tangenti al comune di Torre Annunziata: nuove accuse all’ex dirigente Ariano

Nuove accuse da parte della Guardia di Finanza e della Procura di Torre Annunziata nei confronti di Nunzio Ariano, dirigente dell’Ufficio Tecnico di Torre Annunziata, gia’ in carcere con l’accusa di avere intascato una mazzetta da 10mila euro da un imprenditore come contropartita all’affidamento dei lavori di adeguamento delle aule didattiche comunali alle norme anti covid. Anche questa volta gli inquirenti contestano all’ingegnere, recluso nel carcere napoletano di Poggioreale, il reato di induzione indebita a dare o a promettere utilita’: un reato che sarebbe stato commesso tra settembre e ottobre 2019 e che vede protagonista ancora una volta protagonista lo stesso imprenditore, Vincenzo Supino.

Quest’ultimo, per i finanzieri, sarebbe stato indotto a versare 2mila euro per ottenere lo sblocco dei pagamenti relativi a due appalti comunali affidati a due diverse aziende riconducibili a Supino. Si tratta di lavori di manutenzione straordinaria in alloggi di proprieta’ comunale. I finanzieri di Torre Annunziata, coordinati dal procuratore Nunzio Fragliasso, hanno eseguito anche un decreto di sequestro da 12mila euro, emesso dal gip nei confronti dell’ingegnere Nunzio Ariano.

Le indagini sull’affidamento dei lavori di adeguamento delle aule didattiche alle norme anti covid, proseguite anche dopo lo scorso 28 settembre, giorno dell’arresto in flagranza di Ariano sulla spiaggia delle “sette scogliere”, mentre intascava la tangente da 10mila euro, hanno consentito di scoprire, infatti, che il responsabile dell’ufficio tecnico di Torre Annunziata aveva gia’ percepito un’altra mazzetta, altri 10mila euro, sempre dall’imprenditore Supino.

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Abusi su minori, arrestato prete di Caserta: era stato già allontanato

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Caserta. Arrestato per abusi su minori l’ex parroco di Presenzano, don Gianfranco Roncone.

Il 55enne è agli arresti domiciliari per un’inchiesta, scattata a dicembre scorso, che portò anche ad una perquisizione presso la sua ex parrocchia. Il prete è anche indagato per induzione alla prostituzione minorile e possesso di materiale pedopornografico.

Il giudice per le indagini preliminari Marcello De Chiara del tribunale di Napoli ha disposto di custodia cautelare domiciliare a carico del sacerdote, originario di Sparanise in provincia di Caserta,  eseguita dai carabinieri della Stazione di Vairano Scalo.

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Don Gianfranco Roncone è stato coinvolto in una vicenda di abusi sessuali su minori, reato per il quale è stata disposta la misura cautelare personale, mentre risulta gravemente indiziato dei reati di induzione alla prostituzione minorile e possesso di materiale pedopornografico. Lo scandalo che vede coinvolto don Roncone è scoppiato il 23 dicembre 2020 quando i carabinieri della stazione di Vairano Scalo acquisirono i dispositivi telematici (cellulare e personal computer) utilizzati dal sacerdote della comunità di Presenzano per verificare la presenza di materiale pedopornografico o che attestassero l’intreccio di una relazione con dei minorenni.

Dai riscontri dei militari sono emersi due episodi distinti, risalenti a dicembre 2019 e settembre 2020 ai danni di un ragazzino 17enne, fedele della parrocchia.

Episodi che erano stati denunciati dal minorenne. Dopo la perquisizione e la denuncia la Diocesi di Teano si attivò immediatamente e il Vescovo Giacomo Cirulli, il 24 dicembre scorso, sottopose il parroco don Gianfranco Roncone al divieto dell’esercizio del ministero pubblico di sacerdote, allontanandolo dalla comunità parrocchiale di Presenzano.

Secondo il magistrato che indaga sugli episodi denunciati il parroco di Sparanise avrebbe anche indotto alcuni minori alla prostituzione minorile oltre a possedere materiale pedopornografico, ma queste accuse sono state contestate dagli avvocati del sacerdote Renato Jappelli e Dario Mancino. A breve, secondo quanto rende noto l’avvocato Dario Mancino,  don Gianfranco Roncone verra’ ascoltato dagli inquirenti. I legali assicurano che la vicenda sara’ chiarita dinanzi alla magistratura. L’avvocato Mancino annuncia un appello al Tribunale del Riesame per chiedere la revoca dei domiciliari.

La vicenda giudiziaria ha creato una netta frattura tra la diocesi e la Comunità di Presenzano che non ha esitato a schierarsi compatta a difesa di un parroco, nei mesi scorsi.

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Delitto Garlasco, nessuna revisione del processo per Alberto Stasi

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La Cassazione ha respinto la richiesta di revisione del processo presenta da Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio di Chiara Poggi.

“Si tratta di argomentazioni infondate e, comunque adeguatamente contrastate dall’ordinanza” con la quale la Corte di Appello di Brescia, lo scorso due ottobre, ha respinto la richiesta di revisione del processo per l’omicidio di Chiara Poggi. Cosi’ la Cassazione, nella sentenza 13057 depositata oggi e relativa all’udienza svoltasi il 19 marzo, ha “respinto” il ricorso della difesa di Alberto Stasi, il giovane condannato a 16 anni di reclusione per aver ucciso la fidanzata a Garlasco, il 13 agosto 2007.

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In primo e secondo grado, Stasi era stato assolto ed era stata la Cassazione a disporre l”appello bis a seguito del quale c’era stata la condanna per l’imputato. Per la difesa, occorreva rivalutare delle microtracce e dei capelli trovati nel bagno dove Stasi si lavo’ le mani insanguinate dopo il delitto, e un filmato sul passaggio di una testimone davanti alla casa dei Poggi la mattina dell’omicidio. Per la Suprema Corte, invece, le microtracce sul dispenser e i capelli sono stati gia’ considerati e ritenuti elementi ininfluenti. Inoltre, il filmato in questione, sostengono gli ‘ermellini’, per “stessa ammissione” di Stasi, “dimostra esattamente quanto mostravano le fotografie” gia’ acquisite. In particolare, il riferimento e’ al “conducente dell’autovettura che si trovava nella condizione della testimone T.” e che ” poteva astrattamente vedere la portafinestra della cucina” di casa Poggi. “L’unico arricchimento del dato fornito dal filmato – prosegue la sentenza 13057 della Cassazione – e’ il lasso di tempo in cui questa astratta visione era possibile: due secondi”-. “Il filmato quindi non fornisce alcuna prova nuova sul fatto che la testimone T. avesse effettivamente visto la portafinestra della cucina, girando la testa mentre guidava, e tanto meno – sottolinea il verdetto – che ella avesse effettivamente notato che la portafinestra era chiusa (non sempre cio’ che gli occhi vedono viene conosciuto ed elaborato dalla persona)”. In base alla ricostruzione del fatti, fu Chiara ad aprire le persiane della cucina e venne uccisa tra le 9,12 – ora nella quale venne disattivato l’allarme di casa Poggi – e le 9,35 quando il pc di Stasi venne riacceso. Per quei 23 minuti, l’imputato non ha alibi.

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Morte di Maria Paola: iniziato il processo al fratello

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Figura anche l’Arcigay tra le parti civili che si sono costituite stamattina al processo per la morte di Maria Paola Gaglione.

La ragazza di 22 anni morì la notte tra venerdi’ 11 e sabato 12 settembre scorsi, ad Acerra,  dopo essere caduta dallo scooter guidato dal compagno trans Ciro Migliore con il quale fuggiva inseguito dal fratello, Michele Antonio Gaglione, che ora e’ accusato dell’omicidio volontario. L’avvocato dell’imputato, Giovanni Cantelli, ha fatto notare ai giudici della Corte di Assise di Napoli che tra i reati ipotizzati nei confronti del giovane, non compare la causale omofoba.

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L’avvocato ha anche sottolineato che l’opposizione da parte del fratello era dettata dalla volonta’ di allontanare Maria Paola da Ciro, per motivi di altra natura. Lo scorso 23 febbraio Ciro Migliore e’ stato arrestato insieme con altre 23 persone nell’ambito di un blitz antidroga dei carabinieri. Il giudice, prima di chiudere la prima udienza del processo, ha fissato le prossime date: 13 e 27 maggio e 10 giugno.

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Cronache della Campania@2015-2021

Sergio Altivalle scarcerato per l’ ennesima volta dopo 3 evasioni

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Sergio Altivalle scarcerato per l’ ennesima volta dopo 3 evasioni

Il GIP del Tribunale di Benevento, dott.ssa Palmieri, accogliendo l’istanza dell’Avv. Vittorio Fucci jr, ha disposto la scarcerazione di Sergio Altivalle, di Benevento, di 31 anni, concedendogli nuovamente gli arresti domiciliari.

Come si ricorderà l’Altivalle era stato arrestato in presunta flagranza del reato di spaccio aggravato di sostanze stupefacenti, avendo ceduto una molteplicità di dosi a più tossicodipendenti, nel mese di novembre dello scorso anno. All’Altivalle furono, poi, concessi gli arresti domiciliari.

Successivamente, a seguito di 3 evasioni dal luogo degli arresti domiciliari, l’Altivalle subì, però, l’aggravamento della misura per cui fu incarcerato.

Oggi, invece, il GIP lo ha scarcerato nuovamente concedendogli gli arresti domiciliari.

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Ana Betz da show girl a capo della ‘Petrol-Mafie Spa’: i rapporti coi Moccia

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Anna Bettozzi, in arte Ana Betz, aveva ereditato un impero, quello della Max Petroli, dal marito Sergio Di Cesare.

Oggi e’ finita in carcere accusata di favorire la camorra, perche’ la sua societa’ era manovrata da Antonio Moccia, boss del clan Moccia di Afragola. ”Si tratta del capo indiscusso dell’organizzazione, della persona piu’ di tutti ‘esperta’ della materia anche grazie a quanto imparato dal marito Sergio Di Cesare”, scrive di lei il gip di Roma Tamara De Amicis, nel filone romano dell’inchiesta che ha portato all’operazione ‘Petrol-Mafie Spa’. ”Nulla si muove senza il suo assenso – aggiunge ancora il gip che ha disposto il carcere per la donna – e’ lei che intavola il rapporto con Alberto Coppola e, tramite lui, con tutto il gruppo napoletano dal quale riceve cospicui finanziamenti per la propria attivita’ illecita, remunerando adeguatamente gli investimenti fatti da costoro”. Per lei ”sembra persino superfluo formulare considerazioni ulteriori rispetto a tutto quanto emerso nel corso dell’indagine” sottolinea il giudice.

IL PAGAMENTO IN NERO A GABRIEL GARKO

Quattro procure al lavoro Roma, Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria. Oltre a Bettozzi in carcere un pezzo consistente della sua famiglia: due figli, un nipote, il compagno della figlia e l’avvocato dell’impresa. E ancora il reato di autoriciclaggio aggravato dall’aver agevolato un’organizzazione di stampo mafioso, ovvero i Casalesi perche’ avrebbe consegnato 150.000 euro in contanti all’attore Gabriel Garko, non indagato e chiamato per una pubblicita’. Quei soldi, secondo i pm sarebbero parte dei guadagni illeciti derivanti dai finanziamenti ricevuti dal clan e riciclati attraverso la frode fiscale nel commercio di gasolio. Agli atti dell’inchiesta la telefonata del 28 febbraio 2019 in cui l’attore si lamenta con la Bettozzi perche’ gli e’ arrivato un contratto da 250.000 euro mentre “doveva essere da 100”. Lei lo rassicura: “Abbiamo detto che dopo strappiamo tutto. Scusa, noi abbiamo stabilito 250… 50 te li ho gia’ dati e rimangono 200”. E lui in maniera esplicita: “100 in nero e 100 fatturato… sul contrato va messo il fatturato”. In una telefonata del 4 marzo 2019 Bettozzi parlando con la sorella dice: “Io dietro c’ho la camorra”.

TRA GLI ARRESTATI ANCHE IL nipote DEL boss ‘Sandokan’

Tra le dieci persone per le quali il gip di Roma Tamara De Amicis ha disposto la misura cautelare in carcere – nell’ambito dell’inchiesta “Petrol-mafie spa” – figura Armando Schiavone, 46 anni, nipote del boss dell’omonima fazione del clan dei Casalesi Francesco Schiavone, detto “Sandokan”. Secondo gli inquirenti, infatti, anche il clan dei Casalesi e’ interessato al redditizio business degli oli minerali, venuto alla luce attraverso l’operazione del Ros dei carabinieri e della Guardia di Finanza, che oggi ha portato i militari a notificare 71 misure cautelari nei confronti di presunti esponenti della camorra e della ‘ndrangheta, e a sequestri per quasi un miliardo di euro. Armando Schiavone entra in contatto con Giuseppe Vivese, 37 anni (anche lui destinatario di una misura cautelare in carcere).

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Si tratta, secondo quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Napoli, Maria Luisa Miranda, del nipote di Alberto Coppola, quest’ultimo molto vicino ad Antonio Moccia, ritenuto esponente di vertice dell’omonimo clan. Vivese era gia’ entrato in affari per la commercializzazione dei prodotti petroliferi anche con esponenti di vari clan partenopei (come si evince da una intercettazione del 19 ottobre 2017). Ed e’ proprio attraverso un’altra intercettazione risalente al 6 novembre 2017, che emerge il contatto tra i Moccia e “quelli di Casale”: “Non gli dai un euro in mano, – dice Vivese parlando con il suo interlocutore – sembrano dei mongoloidi… quello con gli occhiali e’ Armando Schiavone, il nipote del ‘barbone’ (uno degli alias del capoclan Francesco Schiavone, ndr) … quelli sono soci nostri. Quando gli presentai zio Alberto, loro lo chiamavano don Alberto”.

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Napoletani scomparsi in Messico: 50 anni di carcere ai due poliziotti coinvolti

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Il Tribunale dello stato messicano di Jalisco (sesto distretto giudiziario) ha inflitto a 50 anni di carcere a Salomon Adrian Ramos Silva ed Emilio Martines Garcia, i due poliziotti ritenuti colpevoli della “sparizione forzata” di Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, due dei tre napoletani scomparsi in Messico il 31 gennaio 2018.

Per i giudici sono pienamente colpevoli del reato contestato in concorso con altri pubblici ufficiali tra i quali il comandate della polizia locale e il suo vice. I due poliziotti sono stati anche interdetti dai pubblici uffici. La decisione giunge a distanza di una settimana dal riconoscimento di colpevolezza pronunciato lo scorso 3 aprile. Nessuna notizia di Linda Guadalupe Arroyo, la poliziotta imputata fuggita durante la scorsa udienza, in occasione di una pausa. Gli inquirenti Sonia Alvarez Cisneros, Jaime Navarro Hernandez, Jorge Vejar Villa e Manuel Alejandro Gutierrez Banuelos della Fiscalia, la magistratura inquirente messicana, hanno chiesto al giudice di condannare i due agenti a 60 anni di carcere, a un risarcimento di un milione di peso e all’interdizione dei pubblici uffici.

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La difesa degli imputati invece ha chiesto pene piu’ lievi per gli agenti che, e’ stato sottolineato, non facevano altro che eseguire ordini superiori. I pm hanno sottolineato, durante la requisitoria, che la richiesta della pena massima e’ motivata dal fatto che gli agenti era pienamente consapevoli del crimine che stavano commettendo. Per la Fiscalia, inoltre, Antonio e Vincenzo, cosi’ come anche Raffaele Russo (difesi dall’avvocato Claudio Falleti), di cui si persero le tracce diverse ore prima del figlio e del nipote, sono tuttora classificati come “desaparecidos” e per questo motivo le ricerche continueranno.

Francesco Russo: “Se lo sapete diteci dove sono”

Dopo la requisitoria ha preso la parola Francesco Russo (in video collegamento da Napoli, insieme con l’avvocato Luigi Ferrandino), il quale ha pregato gli inquirenti di chiedere un ultima volta agli agenti condannati di dire, qualora lo sapessero, dove si trovano Raffaele e Antonio Russo e Vincenzo Cimmino.

L’avvocato: ‘ORA I POLITICI SI FACCIANO SENTIRE’

“Oggi 9 aprile 2021 per le famiglie e l’avvocato difensore le prime certezze: Un riconoscimento di responsabilita’ e una pena. Siamo soddisfatti per le decisioni prese dal Tribunale di Jalisco ma lo siamo soprattutto perche’ finalmente la verita’ su come si sono realmente svolti i fatti e’ venuta a galla”. Cosi’ l’avvocato Claudio Falleti, legale delle famiglie di Raffaele Russo, Antonio Russo e Vincenzo Cimmino, i tre italiani di cui si sono perse le tracce in Messico il 31 gennaio 2018, commenta le pene inflitte a due dei tre poliziotti coinvolti nella “sparizione forzata” dei tre connazionali. “E’ importante smentire – ha aggiunto Falleti – quanti in questi lunghi anni hanno imputato ai nostri tre poveri connazionali di trovarsi in Messico per commettere qualsivoglia tipo di reato. Le prove lo hanno confermato: Raffaele e’ stato portato solo per aver in auto due generatori, e nemmeno mentre li stava vendendo, Antonio e Vincenzo sono stati fatti sparire solo per essere andati a cercare il padre”, ha detto ancora il legale delle famiglie Russo e Cimmino. “Per rispetto di nostri tre connazionali – conclude Falleti – ci aspettiamo che i nostri rappresentanti politici si manifestino, dopo cosi’ tanto silenzio, affinche’ fatti come quelli accaduti a danno dei tre nostri concittadini non abbiano piu’ a ripetersi”.

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Napoli, ordinanza in carcere per i nuovi boss del pizzo del rione Kennedy

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Nei giorni scorsi erano stati condannati  a12 anni di carcere. Ora per i nuovi boss del pizzo del rione Kennedy a Secondigliano è arrivata una nuova ordinanza in carcere.

Nella mattinata odierna,  infatti la Squadra Mobile di Napoli ha dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal G.I.P. del Tribunale di Napoli su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti di Andrea Cesarano di 29 anni, Salvatore Sibilio di 36 e  Domenico Quindici di 26 anni, ritenuti gravemente indiziati, in concorso tra loro, di più episodi di estorsione aggravata dal metodo mafioso e dalla finalità di avvantaggiare, consolidandone il prestigio ed il predominio sul territorio napoletano dell’organizzazione camorristica “Cesarano”.

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Andrea Cesarano è figlio del più noto Giovanni Cesarano, alias “Giannin O’ Biond”, esponente del clan Licciardi, di cui il gruppo “Cesarano”, operante nel Rione Kennedy (quartiere Secondigliano), condividendo la pianificazione di comuni strategie di gestione delle attività illecite, costituisce una delle molteplici articolazioni che lo compongono.

Le indagini svolte dalla Direzione Distrettuale Antimafia – tra novembre 2019 ed aprile 2020 – hanno accertato la sistematicità dell’attività estorsiva del gruppo criminale, ricostruendo una serie di episodi posti in essere in danno di commercianti ed artigiani del quartiere di Secondigliano. In particolare, in un caso la vittima è stata costretta a versare la somma di 5.000 euro per continuare ad occupare un alloggio di edilizia popolare di proprietà del Comune di Napoli, di cui era legittimo assegnatario e, successivamente, a consegnare, in occasione delle festività natalizie, pasquali e di ferragosto, somme variabili di danaro per poter svolgere la sua attività di artigiano.

 LE CONDANNE PER ESTORSIONE

Cesarno, Sibilio e Quindici risultano attualmente già detenuti per altri episodi di estorsione, commessi sempre nel quartiere di Secondigliano, per i quali, nel luglio 2020. Nei giorni scorsi hanno riportato condanne. Queste, nel dettaglio, le condanne comminate in Appello: Chiara Cesarano (figlia del boss Giovanni, anche detto ’o palestrato) rimedia tre anni e un mese di reclusione (in abbreviato aveva incassato sei anni); identico verdetto per Domenico Quindici, Enrico De Ecclesiis e Salvatore Sibilio; quattro gli anni di reclusione inflitti a Roberto Massaro; l’altro figlio del boss, Andrea Cesarano, incassa, invece, sei anni di carcere.

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Omicidio a San Giovanni: gip convalida il fermo dell’assassino

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Napoli. Aveva accoltellato un connazionale al culmine di una lite: convalidato il fermo del cittadino rumeno fermato mercoledì scorso.

Venerdì 9 aprile, in sede di udienza di convalida, il G.I.P. del Tribunale di Napoli, su richiesta della locale Procura della Repubblica, ha convalidato il decreto di fermo emesso lo scorso mercoledì, disponendo la custodia cautelare in carcere nei confronti del 48enne cittadino rumeno accusato di omicidio aggravato nei confronti di un connazionale, un uomo di 51 anni.

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Mercoledì pomeriggio gli agenti del Commissariato San Giovanni-Barra, su disposizione della Centrale Operativa, erano intervenuti in via Stefano Barbato per la segnalazione di una persona  accoltellata e, una volta sul posto, vi avevano trovato una persona deceduta a causa di diverse ferite.

Gli operatori, grazie alle indicazioni fornite da alcuni amici della vittima e ad esito di una intensa attività d’indagine, avevano raccolto elementi a carico del 48enne, che era stato  rintracciato in un casolare abbandonato nei pressi del luogo dell’omicidio.

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Strage dei Georgofili, caccia ai mandanti occulti: perquisito un sindaco

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Firenze. Sopralluoghi, perquisizioni e testimonianze per identificare i mandanti occulti della strage mafiosa del 27 maggio del 1993 in via dei Georgofili a Firenze.

Perquisizione della Dia in Piemonte sul Lago d’Orta a casa di un sindaco (non indagato) di un piccolo comune e il primo aprile i magistrati hanno interrogato a Terni i fratelli Graviano.

Accelera l’attività della procura di Firenze che indaga sui mandanti occulti della strage di via dei Georgofili in cui morirono 5 persone, 48 i feriti. I sopralluoghi in Sicilia sono stati compiuti personalmente dal vertice dei pubblici ministeri fiorentini.

Inoltre, ci sarebbe stata una perquisizione nell’abitazione e nell’ufficio del sindaco di un piccolissimo comune nei pressi del lago d’Orta e l’interrogatorio dei fratelli Graviano. A condurre sopralluoghi e interrogatori sono stati i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, ai quali si è unito anche il procuratore distrettuale antimafia Giuseppe Creazzo, che coordina personalmente le indagini.

Si parte dai quattro interrogatori rese ai pubblici ministeri da Salvatore Baiardo, un personaggio che gli investigatori prendono con le pinze. Di cose però Baiardo ne sa tante: è stato presente al fianco dei Graviano in momenti cruciali e soprattutto ha curato la latitanza dei due boss di Brancaccio in Toscana, a Forte dei Marmi, e a Omegna, il suo paese; un luogo, il lago d’Orta, nel quale nei primi anni ’90 si incrociano mafiosi di alto calibro come, appunto, i Graviano e Balduccio Di Maggio, uomini dello Stato e dei servizi come il generale Francesco Delfino.

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Un luogo tranquillo, fin troppo tranquillo, dove i Graviano si muovono senza la minima preoccupazione e protezione. E proprio nella zona del lago d’Orta si sono recati a fine marzo gli investigatori della Dia di Firenze: in tasca avevano un mandato di perquisizione per il sindaco di un piccolissimo comune.

Secondo il racconto di Baiardo, all’uomo, che non risulta indagato, i Graviano avrebbero consegnato un miliardo di lire da reinvestire. Una dichiarazione che però non ho avuto alcun riscontro nella perquisizione, il primo di aprile.

Il vertice della procura di Firenze si è messo nuovamente messo in viaggio, questa volta verso il carcere di Terni, per sentire proprio i fratelli Graviano: Giuseppe, che era già stato ascoltato il 20 novembre, ha risposto alle domande e ha detto tra l’altro che suo nonno materno, Filippo Quartararo, avrebbe dato all’inizio degli anni ’90 ingenti somme di denaro a Silvio Berlusconi. Una dichiarazione già emersa nei mesi scorsi, ma Graviano non ha comunque delineato alcun ruolo del Cavaliere nella stagione delle stragi mafiose del 1992-93.

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Esami gratis in ospedale Caserta, processo per Zinzi e altri trenta

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Caserta. Esami gratis in ospedale: rinviato a giudizio l’ex presidente della Provincia di Caserta Domenico Zinzi, insieme ad altri trenta imputati.

Il gup del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nell’ambito di un’indagine della Procura relativa alla gestione illecita del Reparto di Patologia Clinica dell’ospedale di Caserta ha rinviato a giudizio Zinzi e gli altri imputati accusati di peculato d’uso, perchè secondo l’accusa avrebbero svolto delle analisi al laboratorio clinico dell’ospedale di Caserta senza passare per il Cup (centro unico prenotazione).

Il gup ha anche condannato in sede di abbreviato, ma per reati più relativi a episodi di corruzione, Angelo Costanzo, ex dirigente della Patologia Clinica (4 anni e otto mesi), la dipendente e sua stretta collaboratrice Angela Grillo (quattro anni e due mesi), Vincenza Scotti (due anni e mezzo), titolare del laboratorio Sanatrix di Caivano, moglie di Costanzo e sorella del killer della Nco Pasquale Scotti (arrestato in Brasile ed estradato nel 2016, non indagato per questa vicenda); due anni e mezzo sono stati inflitti a Giovanni Baglivi, rappresentante farmaceutico di Santa Maria a Vico, mentre sono stati assolti Giuseppe Canzano e Maddalena Schioppa.

Per gli inquirenti il reparto di patologia clinica sarebbe stato al centro di un sistema di favori in cambio di mazzette e viaggi dati a Costanzo e ai collaboratori, con esami fatti gratuitamente ad “amici” senza passare dal Cup; inoltre per la Procura di Santa Maria Capua Vetere, molte analisi commissionate al laboratorio privato Sanatrix di Caivano, di proprietà della moglie di Costanzo, sarebbero state effettuate dal reparto ospedaliero, con un aggravio ci costi per la casse pubbliche e sostanziosi risparmi per la struttura della Scotti, che riceveva dalla Regione anche il rimborso per le analisi mai fatte.

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L’indagine, realizzata dai carabinieri del Nas, porto’ nel luglio del 2019 all’arresto di Costanzo, sua moglie e della dipendente Grillo, accusati di aver creato un sistema in cui un intero reparto ospedaliero veniva piegato ad interessi privati. Dalle indagini emersero, nei confronti della Grillo, factotum di Costanzo, mazzette in danaro, viaggi a Capri o a Torino per la partita di Champions League della Juventus, e addirittura una tangente usata per pagare un’altra tangente. Tra i rinviati a giudizio figura anche Leonardo Pace, facente parte della triade commissariale che tra il 2015 e il 2017 amministro’ l’ospedale di Caserta durante il commissariamento per infiltrazioni camorristiche disposto dal Ministero dell’Interno in seguito ad un’altra indagine che aveva colpito l’ospedale del capoluogo della Reggia. Pace e’ accusato come quasi tutti gli imputati di aver beneficiato di esami senza passare per il cup. Fu durante le indagini sulla latitanza di Pasquale Scotti che gli inquirenti della Dda di Napoli si imbatterono in alcune telefonate della sorella Vincenza Scotti ritenute “ambigue”, da cui emersero i fili di un’associazione a delinquere operante all’interno dell’ospedale di Caserta e molto ben radicata.

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Uccise il fratello: iniziato il processo per il 32enne di Lioni

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Uccise il fratello: iniziato il processo per il 32enne di Lioni

Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre scorsi uccise il fratello piu’ giovane al culmine di una lite e poi chiamo’ il 118, perche’ Marco Della Vecchia, 26 anni di Lioni, rantolava ancora. Il delitto si consumo’ in una villetta alla periferia di Lioni e Antonello della Vecchia, 32 anni, ha sempre sostenuto di non aver colpito il fratello con un coltello alla coscia per ucciderlo.

Il fendente pero’ raggiunse l’arteria femorale e il giovane mori’ dissanguato. Il 26 maggio prossimo il 32enne dovra’ comparire di fronte alla corte d’Assise del tribunale di Avellino per rispondere di omicidio preterintenzionale. Da allora si trova agli arresti domiciliari ma non in quella villetta.

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Camorra: dopo 7 anni restituiti i beni a imprenditore assolto

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Camorra: dopo 7 anni restituiti i beni a imprenditore assolto

Era finito sotto processo con l’accusa di essere un prestanome del clan Mallardo e ora, dopo avere incassato l’assoluzione in primo e secondo grado, a distanza di ben sette anni da quella triste vicenda, l’imprenditore Domenico Capriello si e’ visto restituire tutti i beni che all’epoca gli erano stati sequestrati. L’inchiesta della DDA, denominata “caffe’ macchiato” risale al 2014. Fece molto scalpore all’epoca perche’ assesto’ un duro colpo al clan del boss Feliciano Mallardo. Ieri, la sezione misure di prevenzione del Tribunale di NAPOLI, ha messo la parola fine al calvario di Capriello disponendo la confisca di parte dei beni sequestrati durante il blitz ma anche la restituzione di quelli che gli furono tolti.

“Non ho mai smesso di sperare in questo giorno, – dice tra le lacrime l’imprenditore – pregando sempre che i giudici del Tribunale Misure di Prevenzione, come gia’ avevano fatto assolvendomi quelli di primo e secondo grado da tutti i reati con la formula piu’ ampia possibile, potessero comprendere la assoluta, piena ed indiscutibile titolarita’ delle mie societa’ delle quali ho sempre curato in prima persona affari ed interessi. Adesso voglio guardare oltre, riprendere a lavorare e fare tutto cio’ che non ho potuto fare in questi anni, perche’ bloccato da un provvedimento che ancora oggi non so spiegarmi”.

Capriello nonostante l’incubo in cui era precipitato nutre ancora fiducia nel futuro e spera in una ripartenza che ovviamente la pandemia rende ancora piu’ complicata. “Valuteremo – commenta l’avvocato Damiano de Rosa – la possibilita’ di chiedere il risarcimento, anche davanti agli Organi di Giustizia Europea: e’ assurdo che oggi una persona possa vedere per oltre sei anni disposto il blocco dei propri beni, pur in presenza di due provvedimenti assolutori pieni ed incontrovertibili e nonostante le varie istanze che sin dall’inizio documentavano l’assoluta inconsistenza della tesi accusatoria”.

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Cold case & camorra: assolti i presunti complici del killer vestito da donna

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Napoli. I complici del killer vestito da donna non hanno ancora un nome e un volto. Rimane ancora in parte irrisolto l’omicidio di ‘Ciruzzo o’ fascista’, al secolo Ciro Russo – ucciso dalla camorra a Posillipo – nel 1979.

Per il delitto è stato condannato Luigi Giuliano che si è autoaccusato di essere il mandante.

Non hanno un volto e un nome, invece, i complici di Guido Cafaro, il killer vestito da donna che freddò il camorrista legato a Michele Zaza, esponente della Nco di Raffaele Cutolo. I giudici della seconda sezione della Corte di Assise di Napoli hanno assolto Eduardo Morra, Giovanni Alfano e Gaetano Bocchetti dall’accusa di avere fatto parte del commando che, nel 1979, uccise Ciro Russo, detto “Ciruzzo ‘o fascista”, in un agguato scattato nel “Miranapoli”, un noto bar napoletano di via Petrarca, nel quale venne anche ferito un rappresentante delle forze dell’ordine.

Il sostituto procuratore Henry John Woodcock, che aveva riaperto le indagini sull’omicidio risalente a 42 anni fa, sulla base delle dichiarazioni rese da boss pentito Luigi Giuliano, aveva chiesto per Bocchetti l’assoluzione, per Morra 30 anni di reclusione e 26 anni di reclusione per Alfano. A ordinare la morte di Ciro Russo fu per sua ammissione proprio Giugliano (che cosi’ intendeva “colpire” i rivali) gia’ condannato, per questa vicenda, al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato. Il “boss dagli occhi di ghiaccio”, cosi’ era soprannominato Luigi Giuliano, diventato un super-pentito della camorra, era componente della “Nuova Famiglia”, (che lui chiamava “La nuova fratellazione”) che si contrapponeva alla Nuova Camorra Organizzata di Cutolo.

Secondo gli inquirenti, Guido Cafaro, colui che è ritenuto il killer di Russo, entrato in azione vestito da donna e in sella a una moto, non avrebbe agito da solo. Il rinvio a giudizio dei tre imputati fu chiesto nel 2019 e a cavallo tra il 2019 e il 2020 e’ iniziato il processo davanti alla Corte di Assise di Napoli dove oggi si e’ concluso il procedimento giudiziario. Eduardo Morra (accusato di essere l’esecutore materiale, insieme a Cafaro), e’ stato difeso dagli avvocati Sergio Simpatico e Ercole Ragozzini; Giovanni Alfano e Gaetano Bocchetti, invece, (difesi, rispettivamente dagli avvocati Rosario Marsico e Paolo Gallina, e dall’avvocato Mauro Valentino) erano accusati di avere fornito supporto logistico all’assassino.

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