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Colpo all’ala storica del clan D’Alessandro: 16 arresti

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Duro colpo all’ala storica del clan D’Alessandro di Castellammare: 16 esponenti di spicco sono finiti in carcere.

Questa mattina i Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli hanno eseguito un’ordinanza di applicazione della misura custodiale cautelare emessa, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, dall’ufficio G.I.P. del Tribunale di Napoli nei confronti di 16 (sedici) soggetti – dei quali 15 ristretti in carcere ed uno agli arresti domiciliari – gravemente indiziati, a vario titolo, dei reati di associazione di tipo mafioso, estorsione continuata ed in concorso, detenzione illegale di armi comuni da sparo, reati tutti aggravati dalle finalità mafiose, per aver agito avvalendosi della forza intimidatrice derivante dall’appartenenza al clan D’ALESSANDRO, operante in Castellammare di Stabia e nei territori limitrofi.

L’odierno provvedimento trae origine da una più ampia ed articolata attività d’indagine, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli e delegata al Nucleo Investigativo di Torre Annunziata, che riguarda un ampio spettro temporale compreso tra il 2017 ed il 2020, dove si è dimostrata l’attuale operatività del citato sodalizio, evidenziando un quadro recente ed aggiornato in ordine alla struttura, i ruoli e le attività illecite poste in essere dal clan D’ALESSANDRO, da sempre operante in Castellammare di Stabia e capace di determinare influenze criminali anche sul territorio limitrofo dei Monti Lattari, pertinenza del clan alleato AFELTRA – DI MARTINO, e con estensioni sino alla penisola sorrentina.

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Le attività d’indagine consentivano di ricostruire l’articolazione criminale ricomposta, tra il 2017 ed il 2018, intorno alla figure criminali dalla storica militanza quali MOSCA Sergio alias “zì Sergio o’Vaccaro”, D’ALESSANDRO Giovanni alias “Giovannone” e ROSSETTI Antonio alias “Guappone” , reggenti ad interim del clan e componenti di un direttorio creato ad acta in assenza di appartenenti di rango della famiglia D’ALESSANDRO, curando gli interessi della famiglia fino alle scarcerazioni eccellenti sopraggiunte nel periodo successivo.

IL RUOLO DI LIBERATO PATURZO coco’

Sono state documentate diverse estorsioni poste in essere dal clan D’ALESSANDRO nel suo capillare controllo del territorio, avvalendosi del braccio armato costituito da LONGOBARDI Antonio alias “Ciccillo” e BARBA Carmine, rivelatisi essere anche i custodi dell’arsenale del clan che non veniva tenuto in un unico luogo di custodia ma parcellizzato in punti diversi e noti solo agli stessi per eludere i sequestri. Ulteriore aspetto emerso dalle indagini è l’impiego di un imprenditore edile, PATURZO Liberato, detto cocò votato a soddisfare gli interessi del clan attraverso una serie di servigi quali partecipazioni ad appalti pubblici, informazioni su aggiudicazioni di pubblici incanti, segnalazioni di imprenditori da avvicinare per l’imposizione del racket. I ricavi delle estorsioni venivano reinvestiti nel giro dell’usura che moltiplicava le rendite.

IL SEQUESTRO BENI

Contestualmente sono state sviluppate attività investigative anche sul profilo patrimoniale dei nuclei familiari riconducibili agli indagati in esito alle quali sono state riscontrate sperequazioni tra i redditi di ciascuno ed i beni o liquidità in possesso. Le risultanze dell’ulteriore attività d’indagine hanno consentito l’emissione da parte del Gip presso il Tribunale di Napoli, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, di un decreto di sequestro preventivo relativamente a beni mobili (nr. 6 autoveicoli e nr. 2 motocicli), immobili (nr. 2 appartamenti), rapporti finanziari (nr. 11 tra conti correnti, libretti di risparmio, depositi di titoli, carte di credito), imprese (nr. 3 nel settore della ristorazione, dell’edilizia e della somministrazione di alimenti e bevande) e quote di società (nr. 2 quote di società relative ad imprese edili), per un valore complessivo stimato in euro 6.000.000,00

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Cronache della Campania@2015-2021


Il clan D’Alessandro voleva uccidere il pentito.TUTTI I NOMI

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Avevano deciso di uccidere il pentito Francesco Belviso (poi morto in carcere due anni fa per una grave malattia) e per questo avevano delegato Umberto Cuomo a scoprire il nascondiglio segreto.

E’ questo uno dei spacciati più inquetanti che emerge dall’inchiesta Domino Bis contro il clan D’Alessanddro che alle prime luci del giorno di oggi ha fatto fatto scattare un blitz a Castellammare con l’emissione di 16 misure cautelari su richiesta del pm Giuseppe Cimmarotta della Dda di Napoli.

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Sono complessivamente 21 gli indagati. L’inchiesta fa un quadro delle attività criminali del clan fino al 2019 e pone al centro figure storiche come Sergio Mosca ‘o vaccaro consuocero del defunto padrino e fondatore del clan Michele D’Alessandro ma anche del nipote Giovannone D’Alessandro e Antonio Rossetti o’ giappone, Nino Spagnuolo capastorta, lo storico imprenditore del clan ovvero Liberato Paturzo detto cocò ma anche Umberto Cuomo, Raffaele Vitale, Vincenzo De Gregorio ma anche il giovane nipote del boss ovvero Luigi D’Alessandro di 23 anni figlio di Pasquale primogenito di Michele.

Dalle indagini emerge che Luigi D’Alessandro aveva il compito di convocare le vittime di estorsione per condurle al cospetto del nonno Sergio Mosca nel parcheggio delle Nuove Terme. Nelle indagini ci sono episodi di estorsioni, usura, traffico di sostanze stupefacenti, detenzione di armi.

 ECCO I 21 INDAGATI

1BARBA Carmine nato a Castellammare di Stabia il 11.08.1979 IN CARCERE

2BIONDI Luigi nato a Castellammare di Stabia il 17.03.1954  INDAGATO

3CUOMO Umberto nato a Castellammare di Stabia il 09.07.1957  IN CARCERE

4CUOMO Michele nato a Castellammare di Stabia il 06.09.1984 INDAGATO

5D’ALESSANDRO Giovanni nato a Vico Equense i l16.09.1972  IN CARCERE

6D’ ALESSANDRO Luigi di Pasquale nato a Castellammare il 07.08.1998  IN CARCERE

7DE GREGORIO Vincenzo nato a Castellammare dì Stabia il29.11.1946  INDAGATO

8DELLE DONNE Francesco nato a Castellammare il 13.05.1982 IN CARCERE

9GAMBARDELLA Antonio nato a Gragnano il 07.01.1989 INDAGATO

10 GARGIULO Vincenzo nato a Castellammare di Stabia ill3.01.1986 INDAGATO

11 IZZO Giovanni nato a Castellammare di Stabia il 26.07.1973 IN CARCERE

12LONGOBARDI Antonio nato a Castellammare di Stabia il31.03.1979 IN CARCERE

13MOSCA Sergio nato a Castellammare di Stabia il23.05.1958 IN CARCERE

14PATURZO Liberato, nato a Castellammare il 09.07.1960 IN CARCERE

15ROSSETTI Antonio nato a Castellammare di Stabia il22.12.1973 IN CARCERE

16SCHETTINO Sabato nato a Castellammare di Stabia i126.08.1983 INDAGATO

17SPAGNUOLO Ettore nato a Castellammare di Stabia il 19.02.1972 IN CARCERE

18SPAGNUOLO Nino nato a Castellammare di Stabia il12.04.1977 IN CARCERE

19TITO Maurizio Alfonso nato a Castellammare di Stabia il 17.06.1988 IN CARCERE

20VITALE Raffaele nato a Castellammare di Stabia il 04.03.1961 INDAGATO

21VOLLARO Ciro nato a Castellammare dì Stabia ìl2 0.06.1980 INDAGATO

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Cronache della Campania@2015-2021

‘Siete scostumati, iniziate i lavori senza chiedere il permesso…’, così il clan chiedeva il pizzo

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«Basta che non mi fai andare avanti e indietro…anche perchè la ncopp sembra brutto hai capito?»

E’ un passaggio intercettato dagli uomini della Direzione Distrettuale Antimafia riportato nel decreto di perquisizione e sequestro indirizzato ai 16 indagati nell’ambito dell’inchiesta “Domino Bis” che vede coinvolto il Clan D’Alessandro e il giro di estorsioni ai danni di imprenditori dell’area stabiese e limitrofa.

«Diglielo vi voleva un compagno… e lui già capisce».

Antonio Rossetti e Liberato Paturzo che cercano il titolare di un’azienda che si occupa della produzione di cemento e non trovandolo fanno arrivare l’avviso attraverso un dipendente dell’impresa. Il fulcro dell’inchiesta è relativo alle estorsioni, sopratutto quelle relative ai lavori pubblici. E’ il caso anche di alcuni lavori di rifacimento di una piazza in centro a Castellammare di Stabia nel 2017 e che ha visto già la condanna di Daniele Imparato in primo e secondo grado.

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«Siete scostumati, iniziate i lavori senza chiedere il permesso… mi devi il 3% dell’importo dei lavori» manifestandogli l’intenzione di avere un incontro con il titolare della ditta altrimenti avrebbero dovuto lasciare il cantiere. E’ quanto riportato nelle circa 800 pagine dell’ordinanza cautelare firmato dal gip Fabrizio Finamore su richiesta del pm Giuseppe Cimmarotta. I ricavi delle estorsioni venivano reinvestiti nel giro dell’usura che moltiplicava le rendite. Contestualmente sono state sviluppate attività investigative anche sul profilo patrimoniale dei nuclei familiari riconducibili agli indagati in esito alle quali sono state riscontrate sperequazioni tra i redditi di ciascuno ed i beni o liquidità in possesso. Ed è per questo che sono stati sequestrati beni per oltre 6milioni di euro.

L’indagine

L’indagine Domino Bis, riferita ad un arco temporale che va dal 2017 al 2018, ha consentito di ricostruire l’articolazione criminale intorno alle figure di Sergio Mosca “O’ Vaccaro”, Giovanni D’Alessandro “Givannone” e Antonio Rossetti “O’ Guappone”,
reggenti ad interim del clan e componenti di un direttorio creato ad acta in assenza di appartenenti di rango della famiglia D’Alessandro, curando gli interessi della famiglia fino alle scarcerazioni eccellenti sopraggiunte nel periodo successivo. La meticolosa attività investigativa ha documentato proprio una serie di estorsioni poste in essere dal clan D’Alessandro nel suo capillare controllo del territorio, avvalendosi del braccio armato costituito da Antonio Longobardi “Ciccillo” e Carmine Barra ritenuti essere anche i custodi dell’arsenale del clan che non veniva tenuto in un unico luogo di custodia ma parcellizzato in punti diversi e noti solo agli stessi per eludere i sequestri.

Sergio Mosca voleva uccidere il pentito Francesco Belviso

Sergio Mosca, “O’ Vaccaro” voleva uccidere il pentito Francesco Belviso (poi morto in carcere due anni fa per una grave malattia) e per questo avevano delegato Umberto Cuomo a scoprire il nascondiglio segreto. Non solo, il clan si serviva anche di Liberato Paturzo, detto Cocò, imprenditore edile a completa disposizione del sodalizio mediante partecipazioni ad appalti pubblici, informazioni su aggiudicazioni di pubblici incanti, segnalazioni di imprenditori da avvicinare per l’imposizione del racket. (emidav)

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Agguati a Ponticelli: restano in carcere i due killer del clan

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La Dda di Napoli ha eseguito un decreto di fermo nei confronti di  Nicola Aulisio di 23 anni e Giuseppe Righetto di 36 detto o’ blob, due pregiudicati del clan De Luca-Bossa-Minichini della zona Est.

Secondo i pm Antonella Fratello e Simona Rossi, magistrati della Dda di Napoli titolari delle indagini, i due sarebbero responsabili di due tentati omicidi consumati tra ottobre e novembre scorsi nel scontro tra clan della zona Est. Righetto, imparentato dei Casella del rione Conocal, tra l’altro due settimane fa è rimasto ferito in un agguato mascherato con una fallita rapina. Il fermo è stato convalidato e i due restano in carcere.

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A carico di Righetto, l’agguato che aveva come bersaglio Rodolfo Cardone, lo scorso ottobre; mentre a carico dello stesso Righetto e di Nicola Aulisio, c’e’ l’ipotesi di aver attentato alla vita di Rosario Rolletta (che poco dopo è diventato un collaboratore di giustizia). Entrambi sono da ricondurre a una epurazione interna al gruppo dei De Luca Bossa-Minichini-Casella di persone legati al sottogruppo capeggiato da Antonio De Martino. Una decisione presa dal cartello che aveva prima accolto i De Martino nel momento piu’ forte della ‘guerra’ ai D’Amico, e poi li aveva marginalizzati, togliendo loro persono le ‘mesate’. I De Martino questa estate avevano deciso di rispondere, attaccando e pianificando agguati contro gli ex alleati, innescando una repressione violenta.

LE CONEFESSIONI DEL PENTITO ROSARIO ROLLETTA

Ed è stato proprio Rosario Rolletta, ex affiliato del clan De Micco e poi confluito nella nuova fazione dei cosiddetti ‘Xx’ di Ponticelli, area Est di Napoli, ad aver svelato alla Dda i restroscena della nuova guerra di Camorra che ha portato a due omicidi, quattro feriti e decine di atti intimidatori. “A settembre 2020 i De Luca Bossa e i Casella non passavano a noi De Martino i soldi per i detenuti in carcere – spiega Rolletta – ci fu un incontro a cui hanno partecipato Salvatore De Martino, Giulio Fiorentino (ucciso in un agguato il 14 marzo scorso, ndr), Ciro Uccella”. Secondo quanto spiega il neopentito, l’incontro non ebbe effetti sperati. “I De Luca Bossa-Casella hanno cercato di prendere tempo e cio’ ha comportato la rottura dei rapporti. Abbiamo cominciato a prendere soldi sulle piazze di spaccio e a fare estorsioni a Ponticelli senza l’autorizzazione dei De Luca Bossa. In questo contesto si sono verificati diversi agguati tra le contrapposte organizzazioni”. La zona Est, secondo quanto ha riferito il collaboratore di giustizia, e’ divisa in varie aree. In via Luigi Franciosa c’e’ la famiglia Casella alleata con i Minichini-De Luca Bossa. Nel rione Fiat c’e’ la famiglia De Martino, detta Xx. Nel Lotto 10 il clan De Luca Bossa, nel Conocal i Luca Bossa con l’appoggio degli Aprea di Barra, nel complesso residenziale delle cosiddette Cinque torri, collocato tra via Malibran e via Argine ancora i De Luca Bossa con Minichini e Casella.

(nella foto il luogo dell’ultima sparatoria e nei riquadri da sinistra Giuseppe Righetto, Nicola Aulisio e Rosario Rolletta)

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Cronache della Campania@2015-2021

Il clan D’Alessandro fece votare 2 candidati di Forza Italia alle comunali a Castellammare

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Castellammare di Stabia. Il clan a sostegno di almeno due candidati di Forza Italia alle elezioni del 2018 che in città che videro la vittoria di Gaetano Cimmino sostenuto anche dal partito di Berlusconi.

La vicenda, riportata nelle circa 800 pagine dell’ordinanza cautelare firmato dal gip Fabrizio Finamore su richiesta del pm Giuseppe Cimmarotta, è stata catturata grazie alle intercettazioni ambientali tra Sergio Mosca e Gerardo Delle Donne. Un episodio “opportuno riportare – si legge nell’ordinanza- in quanto strumentale alla compiuta ricostruzione del quadro di riferimento in cui sono dipanate le vicende criminose sintomatica anche degli interessi politici del clan”.

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L’inchiesta, denominata Domino Bis, è nata dall’omicidio di Antonio Fontana nell’estate del 2017 e vede indagate 27 persone di cui 19 destinatarie di un’ordinanza di custodia cautelare. I reati contestati sono le estorsioni alle attività imprenditoriali e la detenzione di armi ma nelle tante intercettazioni emergono ulteriori dettagli sul traffico di droga, la gestione delle piazze in città e non solo.

Le elezioni del 2018 per il rinnovo del Sindaco e del Consiglio Comunale

Verso la fine di maggio del 2018, nel pieno della campagna elettorale, Gerardo Delle Donne chiedeva a Sergio Mosca, uno dei reggenti del Clan e imparentato con i D’Alessandro, il sostegno ad un candidato di Forza Italia che si dimostra disponibile anche se “non avrebbe fatto avere molti voti al candidato perchè una concentrazione di preferenze provenienti da Scanzano lo avrebbe alla fine danneggiato”. Una scusa quella di Mosca perchè c’era già un candidato da votare e quello proposto da Delle Donne sarebbe stato solo aiutato. Il nome, non è stato fatto direttamente, lo stesso Delle Donne non l’ha direttamente pronunciato limitandosi a indicare la lista di Forza Italia. Neanche Mosca ha fatto il nome del “suo” candidato suggeritogli da un imprenditore.
«Forza Italia buono come partito»
Mosca: «Portameli i bigliettini altrimenti quelli i ragazzi si dimenticano… hai capito..»
Delle Donne: «Incomprensibile…»
Mosca: «Eh lo danneggiamo dopo così, dobbiamo fare una cosa diciamo a livello familiare»
Delle Donne: «Ho capito»
Mosca: «Incomprensibile…»
Delle Donne: «Eh.. allora facciamo così… e poi… la gente»
Mosca: «Eh va bene… eh quelli stanno il quattro, il cinque, quando ci vediamo alla fine del mese…»
Delle Donne: «Sta con …omissis… va bene come partito è buono tramite…»
Mosca: «…omissis… è quello di Lettere? E’ un bravo ragazzo…» Delle Donne: «…incomprensibile»
Mosca: «a Castellammare… quello è un bravo ragazzo… l’ho conosciuto a casa di quello degli orologi… sempre compagno a Pasqualino (D’Alessandro Pasquale)»

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Napoletani scomparsi in Messico: ‘Diteci dove sono’, la deposizione al processo

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Ha chiesto di sapere dov’erano i suoi familiari, Francesco Russo, durante la deposizione al processo sulla scomparsa del padre Raffaele, del fratello Antonio e del cugino, Vincenzo Cimmino, di cui si sono perse le tracce in Messico il 31 gennaio 2018.

Lo ha fatto piangendo più volte. Al processo sono imputati tre dei quattro agenti che quel giorno prelevarono Antonio Russo e Vincenzo Cimmino per consegnarli al cartello criminale Cartel Jalisco Nueva Generacion. L’udienza ha preso il via lunedì, intorno alle 17 (ora italiana), nella citta’ di Ciudad Guzma’n, nello stato messicano di Jalisco. Dopo la sospensione decisa dal giudice alle 22,45 (ora italiana) di lunedì, l’udienza e’ ripresa ieri alle 17,30, con la deposizione dell’unico testimone italiano. Francesco, in video collegamento dalla sede del consolato onorario del Messico di Napoli, dove e’ giunto accompagnato dall’avvocato Luigi Ferrandino e dall’interprete, ha esposto i fatti di cui e’ a conoscenza e poi risposto alle domande che gli sono state rivolte.

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E’ stato anche ascoltato (e tradotto in spagnolo) l’audio, l’ultimo inviato in chat dal fratello Antonio, con il quale informava i suoi congiunti su cosa stava succedendo a lui e Vincenzo: “Stiamo facendo benzina e ci ha fermato la polizia, ci hanno detto di seguirli, abbiamo una moto avanti ed una macchina ci segue”. Da quel momento in poi, di loro non si e’ piu’ saputo nulla. “Spero e sono sicuro – ha detto ancora in lingua spagnola Francesco Russo – che i miei familiari sono vivi e che stanno in un campo a lavorare… ma se non sono in vita, noi vogliamo saperlo”.

“La forza, la grinta e la tenacia di Francesco Russo – ha detto l’avvocato Claudio Falleti, legale delle famiglie, che seguiva l’udienza dal suo studio legale di Alessandria – ha tenuto alta l’attenzione dei giudici e della procura a tal punto che gli avvocati della difesa hanno rinunciato all’esame del teste. E’ evidente che Francesco ha fornito cosi’ tanti elementi da far desistere la difesa nel porre altre domande. Siamo certi che verra’ fatta giustizia su questo caso che da tre anni ci tiene appesi a una speranza”, ha concluso Falleti.

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Il boss: ‘Chi sono? Sono il padrone delle Terme’. LE INTERCETTAZIONI

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Castellammare di Stabia. «Il parcheggio? E’ mio il parcheggio… qua è tutta roba mia!».

Parola di Sergio Mosca, esponente di spicco del Clan D’Alessandro che si rivolge così ad una persona addetta alla vigilanza del parcheggio delle Nuove Terme, da anni ormai chiuse e lasciate nell’abbandono più totale. Per anni, o almeno dal 2017 al 2020, il parcheggio del solaro è stato “l’ufficio” di Mosca dove riceveva altri affiliati al clan “per avere intimità – si legge nelle note della polizia giudiziaria – e discrezione e non veniva mai controllato salvo in alcuni casi capitati dalle microspie. «Qui è tutta roba mia» diceva così al vigilante che rispondeva dicendo «di non lavorare per lui».

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«Voi lavorate per la sbarra e qua è tutta roba mia…non vi preoccupate». «Ho capito – risponde l’addetto alla sicurezza – ma solo che io devo sapere chi sono le persone»
Mosca: «Il padrone delle terme, se ti dicono chi è quello? Il padrone delle terme e state a posto»
Vigilante: «Eh lo so… io lavoro»
Mosca: «Ho capito, se qualcuno vi domanda chi è quello?… è il padrone»
Vigilante: «E ve lo sto chiedendo…»
Mosca: «Mi conoscono già… sta solo un padrone»
Vigilante: «Lavorate per la Sint (società comunale proprietaria dell’immobile ndr)?»
Mosca: «Nono, io non lavoro. Sono solo il padrone»
Vigilante: «Si ma è la Sint l’azienda che… è la Sint l’azienda i cui è il padrone?»
Mosca: «Compagno mio, voi lavorate e vi ho capito… mettetevi vicino alla sbarra che qua me lo vedo io». Anche un altro episodio con un vigilante viene riportato nell’ordinanza nelle oltre 700 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal Gip Fabrizio Finamore su richiesta del Pm Giuseppe Cimmarotta. Protagonista è sempre Sergio Mosca che al telefono racconta: «Questi ragazzi hanno capito una cosa per un’altra, una volta ad uno lo presi già malamente. Sono di Napoli questi ragazzi perchè l’appalto l’ha preso uno di Napoli. Io stavo venendo di qua e Delfino a piedi di là, c’era la sbarra alzata e prende Delfino entra con il mezzo dentro “we we” con la mano così per dire vieni di qua… lo caricai per il nord e dissi “guagliò tu qua sopra non devi fare lo scemo con sta mano così” e lui “no ma io volevo”.. “tu non devi dire proprio niente, tu sei ospite, vuoi vedere che te ne faccio andare via da qua sopra a te e il mastro tuo e le quattro baracche, tu stessi capendo una cosa per un’altra. Qua stiamo noi, questa è la casa nostra. Vediamo di finirla vi state vestendo troppo con ste giacchette addosso. Poi mi disse – racconta Mosca a telefono – io sono del Rione Traiano.. gli stavo dicendo che non c’è uno buono al rione Traiano. Glielo dissi “compà ti devi calmare un po’ tu e il tuo mastro… ma stessi capendo una cosa per un’altra tu devi alzare e calare la cosa e ti devi stare zitto, non devi parlare” le telecamere “non ti preoccupare per le telecamere, ci pensiamo noi alle telecamere”».

I SUMMIT IN CLASSE

Il clan si riuniva in una scuola abbandonata da anni a Scanzano. Si tratta dell’ex istituto “Salvato” che secondo quanto emerso dall’inchiesta più volte si riunivano gli esponenti del clan, un luogo ritenuto sicuro dal punto di vista dei controlli. All’interno del cortile vi erano anche dei can da combattimento che probabilmente servivano a proteggere la struttura da incursioni esterne.

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Cronache della Campania@2015-2021

Camorra, restano in carcere i due killer di Ponticelli

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Restano in carcere Righetto e Aulisio, ritenuti due killer e responsabili di due tentati omicidi nella nuova guerra di camorra tra Ponticelli e San Giovanni a Teduccio.

Tentato omicidio, ricettazione e porto abusivo di armi da fuoco aggravati dal metodo mafioso: sono le accuse che gli inquirenti della Direzione Distrettuale Antimafia contestano a Giuseppe Righetto e Nicola Aulisio, lo scorso 20 marzo sottoposti a fermo, nel quartiere Ponticelli di Napoli, dagli agenti della Squadra Mobile, del commissariato di Ponticelli e dai carabinieri del Nucleo Investigativo e della Compagnia di Poggioreale. Per la Procura Antimafia Righetto e Aulisio sono due esponenti del clan camorristico “De Luca Bossa – Minichini – Casella”, che fa affari illeciti nel quartiere Ponticelli di Napoli. Insieme con il clan Rinaldi, di San Giovanni a Teduccio, e dei clan Cuccaro e Aprea, del quartiere di Barra, le famiglie malavitose dei “De Luca Bossa – Minichini – Casella”, federate del cartello mafioso denominato “Alleanza di Secondigliano”.

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Righetto, per gli investigatori, e’ il responsabile del tentato omicidio del pregiudicato Rodolfo Cardone, ritenuto legato al clan De Martino, ferito alla schiena con un colpo d’arma da fuoco lo scorso 7 ottobre in via Fratelli Grimm. Lo stesso Righetto, insieme con Aulisio, avrebbero messo a segno anche il raid nel quale, lo scorso 2 novembre, in via Argine, e’ stato ferito di Rosario Rolletta, anche lui ritenuto legato al clan Di Martino, colpito al cranio e al avambraccio da alcuni colpi calibro 45. Si tratta di due raid avvenuti in pieno giorno, davanti ai numerosi testimoni che pero’ non hanno fornito contributo alcuno alle indagini. Secondo gli inquirenti gli agguati si inquadrano nell’ambito della repressione violenta scattata contro il gruppo malavitoso dei De Martino, da parte dell’Alleanza di Secondigliano.

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Cronache della Campania@2015-2021


Abusi sulla nipotina di 11 anni: processo allo zio-orco

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Avrebbe abusato della nipote appena 11enne. Il 14 ottobre prossimo dovra’ comparire di fronte al tribunale di Benevento per rispondere di violenza sessuale su minore.

I fatti risalgono al 2015, ma la famiglia della vittima ha denunciato un 53enne di Pietrelcina nel 2018, quando la ragazzina ha rivelato che quello zio che spesso le teneva compagnia aveva intenzioni tutt’altro che affettuose.

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In piu’ occasioni l’avrebbe palpeggiata, si sarebbe infilato nel suo letto e l’avrebbe costretta ad atti sessuali. Il 53enne ha sempre respinto ogni accusa, ma il gup, Loredana Camerlengo, ha ritenuto che vi fossero le condizioni per rinviare a giudizio l’imputato che ora dovrà affrontare il processo con la pesante accusa di violenza sessuale su minore.

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Cronache della Campania@2015-2021

Camorra: prima condanna all’ergastolo a Benevento

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Camorra: prima condanna all’ergastolo a Benevento

Passera’ alla storia come la prima condanna all’ergastolo emessa dal Tribunale di Benevento per un omicidio di camorra, dettato dalla contesa per l’egemonia sul mercato della droga, quello inflitto a Nicola Fallarino, 37 anni, accusato di essere uno dei responsabili dell’omicidio di Cosimo Nizza (48 anni), ucciso per strada il 27 aprile del 2009 con tre colpi di pistola al capo su una sedia a rotelle, sulla quale la vittima era costretta a vivere in seguito a un incidente stradale.

Un delitto rimasto a lungo irrisolto per il quale e’ arrivata la prima pronuncia firmata dalla Corte di Assise (presidente Pezza, a latere Telaro piu’ i giudici popolari), che ha condannato all’ergastolo Fallarino. La sentenza ha accolto le conclusioni del procuratore aggiunto di Benevento, Giovanni Conzo, che aveva proposto il carcere a vita al termine di una lunga requisitoria nel corso della quale aveva ritenuto provata la responsabilita’ dell’imputato.

Attenzione puntata, in particolare, sulle affermazioni di due collaboratori di giustizia – contestate dalla difesa per inattendibilita’ dei “pentiti” – che avevano sostenuto di aver saputo dell’omicidio, in due diversi carceri, direttamente da Fallarino, e sul contenuto di una intercettazione ambientale durante l’attivita’ investigativa della Squadra Mobile nell’ambito di un’inchiesta antidroga diretta dalla Dda. A inizio dell’udienza, su richiesta del procuratore Conzo, e’ stato osservato un minuto di silenzio in memoria di Luigi Frunzio, procuratore aggiunto a Napoli, morto qualche giorno fa a causa del Covid.

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Suicidio di Arianna Flagiello: 19 anni di carcere all’ex

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Una riduzione della condanna da 22 a 19 anni, in secondo grado.

La quinta sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli (presidente Rosa Romano, giudice a latere Taddeo) ha condannato a 19 anni di carcere Mario Perrotta, per la morte di Arianna Flagiello, ex compagna dell’uomo, deceduta nell’agosto del 2015, dopo essersi lanciata nel vuoto dalla propria abitazione al Vomero. Riconosciuta dai giudici la tentata estorsione (ma solo ai danni della vittima), per la quale Perrotta, in primo grado condannato a 22 anni, era stato assolto. Lo scorso 4 marzo, il sostituto procuratore generale della Corte di Appello di Napoli, Giovanni Cilenti, al termine della sua requisitoria, ha chiesto 24 anni di carcere per Perrotta, accusato di istigazione al suicidio e maltrattamenti, con l’aggravante della morte, e di tentata estorsione (nei confronti della madre della vittime e della vittima stessa).

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Il suicidio di Arianna e’ stato sempre messo in stretto collegamento dagli inquirenti e dalla famiglia con i maltrattamenti subi’ti da Arianna. Fu un gesto imprevedibile per gli avvocati dell’imputato, Vanni Cerino e Sergio Pisani, secondo i quali, invece, si e’ trattato di un atto dimostrativo finito tragicamente. I legali della difesa annunciano il ricorso alla Corte di Cassazione. Durante la sua replica, durata circa mezz’ora, che ha preceduto la camera di consiglio, sostituto procuratore generale ha ricordato che Arianna e’ stata vittima di maltrattamenti psicologici durati 12 anni e che il suicidio giunse al termine di una lite furibonda: e per questo ha chiesto ai giudici il riconoscimento del nesso tra quella lite, preceduta da minacce, e l’evento morte. Soddisfazione e’ stata espressa in aula dai genitori e dalla sorella di Arianna, insieme con gli avvocati Pasquale Coppola e Marco Imbimbo, e con la criminologa della famiglia, Antonella Formicola. Presente anche l’avvocato Giovanna Cacciapuoti, legale dell’associazione “Salute Donna”, costituitasi parte civile al processo.

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Ornella Pinto fu uccisa nel sonno: ordinanza in carcere per Pinotto

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Secondo le ultime conclusioni degli inquirenti, Ornella Pinto, la donna napoletana uccisa dal proprio compagno davanti al figlio di 4 anni, non sarebbe stata ammazzata dopo una lite violenta ma nel sonno o comunque a sangue freddo.

Oggi personale della Squadra Mobile ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal G.I.P. del Tribunale di Napoli, su richiesta della locale Procura della Repubblica, nei confronti di Pinotto Iacomino, nato a Cercola il 5.6.1978, ritenuto gravemente indiziato di omicidio aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dall’aver commesso il fatto nei confronti di persona con la quale era legato da relazione affettiva.
Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile e coordinate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, hanno permesso di acquisire gravi indizi a carico dell’indagato in ordine all’omicidio di Ornella Pinto, uccisa con 15 coltellate alle ore 4,00 del 13 marzo scorso nella sua abitazione in via Cavolino a Napoli.

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Secondo le ultime conclusioni degli inquirenti, Ornella Pinto, la donna napoletana uccisa dal proprio compagno davanti al figlio di 4 anni, non sarebbe stata ammazzata dopo una lite violenta ma nel sonno o comunque a sangue freddo.
“La vicenda diventa ancora più grave. Uccidere nel sonno senza dare nemmeno la possibilità di accennare una benché minima reazione per potersi difendere è qualcosa di estremamente vigliacco e disumano, chiediamo ai magistrati di tenerne conto quando sarà emessa la sentenza. Le Donne Verdi della Campania in accordo con Europa Verde si costituiranno parte civile in questo processo per chiedere che venga fatta giustizia, per Ornella chiedendo il massimo della pena possibile per il suo assassino” – si sono così espressi il Consigliere Regionale di Europa Verde Francesco Emilio Borrelli e Fiorella Zabatta come portavoce delle Donne Verdi campane che saranno assistite dal centro giuridico verde.

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Soldi del clan Zagaria riciclati con l’usura: 4 condanne

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Soldi del clan Zagaria riciclati con l’usura: 4 condanne

I giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere hanno inflitto 6 anni per Gabriele Brusciano; 2 anni e 6 mesi per Luigi Brusciano, al quale sono state concesse le attenuanti generiche; 6 anni per Gennaro Sfoco, di Aversa; 5 anni e 6 mesi per Onesto Iommelli. Pene inferiori rispetto alle richieste della Dda.

Per tutti gli imputati è caduta l’aggravante mafiosa dei reati. Assolto, invece, Ferdinando Graziano, detto Nandino Galeone, per non aver commesso il fatto. Sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione per Nicola Pezone.

Secondo l’accusa alcuni degli imputati avrebbero prestato soldi ad imprenditori con tassi di interesse tra il 5 ed il 10%. Dazioni che tra il 2004 ed il 2010 sono arrivate alla somma di 1 milione e 200mila euro di cui ne sono stati restituiti 1,7 milioni. Secondo quanto ricostruito da alcuni collaboratori di giustizia, tra cui il figlio di Sandokan Nicola Schiavone, gli usurai avrebbero reimpiegato nelle loro attività, svolte prevalentemente ad Aversa, soldi di provenienza illecita che arrivavano dal clan dei Casalesi, in particolare dalla fazione capeggiata da Michele Zagaria.

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Arrestati per minacce alla ditta di pompe funebri: il tribunale li assolve

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Arrestati per minacce alla ditta di pompe funebri: il tribunale di Santa Maria Capua Vetere assolve Pietro Cirella ed Eugenio Galluccio

Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha assolto e posto in libertà dopo quasi dieci mesi il 45enne Pietro Cirella e il 59enne Eugenio Galluccio – il primo ristretto ai domiciliari, il secondo in carcere – che erano imputati per tentata estorsione e, solo Cirella, per illecita concorrenza con minaccia o violenza; per entrambi i reati era contestata l’aggravante di aver agito con modalità mafiose.

Il collegio presieduto da Giovanni Caparco (giudice a latere Francesco Maione e Patrizia Iorio) ha assolto i due imputati con formula piena, “perché il fatto non sussiste”, inviando gli atti in Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa testimonianza per il teste chiave, l’operatore socio-sanitario Giovanni Ruoppo, le cui dichiarazioni avevano contribuito a far arrestare Cirella e Galluccio. Il pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli Simona Belluccio, che ha sostenuto l’accusa in dibattimento, aveva chiesto otto anni di carcere per entrambi.

Il processo è stato molto veloce: Cirella, imprenditore delle pompe funebri, e Galluccio, sono finiti in carcere appena nel giugno del 2020, accusati di aver compiuto pesanti minacce verso un’azienda concorrente di Cirella – che ha presentato denuncia nel 2019 costituendosi poi parte civile – affinchè non svolgesse più i funerali nel comune di Carinola.

L’aggravante mafiosa fu contestata perché il 59enne Galluccio è ritenuto esponente del clan Esposito di Sessa Aurunca, e in passato è stato condannato in via definitiva per reati di camorra.

Il Riesame di Napoli confermò le misure emesse dal Gip, così la Procura partenopea chiese il giudizio immediato. Le difese di Cirella (avvocati Giuseppe Stellato e Claudio Sgambato) e Galluccio (avvocato Edoardo Razzino) hanno sempre sostenuto l’insussistenza dell’ipotesi di accusa e l’inattendibilita’ del teste Ruoppo, che raccontò delle minacce ricevute dagli imputati nell’ottobre 2019 in occasione del funerale di una donna di Carinola, che era stato organizzato dalla ditta concorrente di Cirella; episodio che fu determinante per le indagini e per l’arresto dei due imputati.

I giudici però non hanno creduto a Ruoppo, anche perché la difesa ha fatto emergere, in relazione allo stesso episodio, come fosse stato proprio Cirella a denunciare la richiesta di danaro proveniente da Ruoppo per svolgere il funerale, che alla fine fu fatto dal concorrente, e come questa denuncia fosse stata presentata prima delle esequie. Le motivazioni saranno depositate entro trenta giorni.

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Rapina di Villaricca: Greco incastrato dai video e dalle telefonate

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Sono i video acquisiti dagli investigatori e le dichiarazioni rese da alcuni testimoni a inchiodare, secondo i pm, Giuseppe Greco, 26 anni, da ieri sera in carcere con l’accusa di essere il responsabile della morte del 30enne Ciro Chirollo e del 40enne Domenico Romano.

I due malviventi venerdi’ scorso a Marano  sono stati investititi e uccisi dopo avere rapinato al giovane un prezioso Rolex. Nei confronti di Greco la Procura di Napoli Nord ha emesso un decreto di fermo, eseguito dai carabinieri, con l’accusa di duplice l’omicidio volontario. Per l’ufficio inquirente guidato dal procuratore facente funzioni Carmine Renzulli, sarebbe stato Greco ad investire i due rapinatori i quali per sottrargli il costoso Rolex Gmt in acciaio e oro che aveva al polso, hanno agito armati di una pistola risultata vera con tanto di colpo in canna.

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Diverse telecamere hanno ripreso la parte finale dell’inseguimento, lo speronamento senza accenno di frenata da parte della Smart, il violentissimo urto contro un muro di entrambi i veicoli, e anche cio’ che avviene dopo, quando il conducente dell’auto si avvicina ai cadaveri, torna in auto, tenta di rimetterla in moto per poi allontanarsi in sella a uno scooter guidato da un giovane che stava transitando. Greco, venerdi’ sera, si era difeso dicendo al pm Paolo Martinelli di aver subito la rapina dell’orologio, della Smart e dei soldi (200 euro mai ritrovati), e che, dunque, non poteva esserci lui alla guida quando c’e’ stato l’impatto. Una versione risultata piena di lacune e contraddizioni, che ha spinto gli inquirenti a denunciare Greco. Agli atti anche un vocale inviato alla fidanzata: “Sto con la macchina mia, si sono rubati la macchina, sono andato a vedere… per vedere se li acchiappavo, si sono schiattati nella via del Padreterno, si sono uccisi…”.

LA TESTIMONIANZA DI DUE GUARDIE GIURATE

Gli approfondimenti dei carabinieri di Marano, pero’, hanno consentito di reperire altre preziose immagini da abitazioni private della zona dove e’ avvenuto l’impatto, in via Antica Consolare Campania: tra queste anche dello speronamento e dell’inseguimento scattato dopo la rapina. C’e’ poi la testimonianza di due guardie giurate, le quali hanno ammesso di aver visto Greco inseguire lo scooter a grande velocita’. Il 26enne (incensurato, difeso dall’avvocato Domenico Della Gatta) che con la fidanzata gestisce la vendita on-line di capi di abbigliamento, potrebbe ad ammettere le proprie responsabilita’ nell’interrogatorio di garanzia che si dovrebbe tenere tra oggi e domani.

L’AUTOPSIA SUI CORPI DI CHIROLLO E ROMANO

Si e’ svolto, intanto, nell’ospedale di Giugliano in Campania l’autopsia sui due cadaveri che ha confermato la morte sul colpo di Chirollo e Romano per traumi e fratture subiti (uno e’ finito contro un palo, l’altro contro un muro); l’accertamento il cui esito complessivo sara’ reso noto nelle prossime settimane, dovra’ accertare anche se Greco, dopo aver speronato il Tmax, sia anche passato con le ruote sopra sui corpi ormai a terra, come ipotizzato nell’immediatezza dei fatti. In corso l’identificazione del giovane in scooter che ha dato il passaggio a Greco. Nessuna traccia infine dell’auto al cui interno, secondo il 26enne, c’erano dei complici di Chirollo e Romano.

L’ALLARME DI UN ‘AUTOMOBILISTA ALLE 19,37

A firmare il provvedimento restrittivo d’urgenza il pm di Napoli Nord, Paolo Martinelli. La sera del 26 marzo scorso, tutto si consumo’ in poco tempo. A dare il primo allarme al numero di emergenza dei carabinieri, un automobilista che aveva notato in via Antica Consolare Campana il fumo uscire da un’auto bianca contro un muro e poi i corpi di due persone sull’asfalto. Un incidente stradale, disse agli operatori. Sono le 19.37. Alle 19.41 arriva anche la telefonata di una guardia giurata, e alle 19,45 sul posto e’ una pattuglia della polizia municipale. A segnalare a questa la pistola per terra, altri due vigilantes, che raccontano anche di essere stati sorpassati mentre erano a bordo della loro vettura in via San Rocco da una Smart bianca For 4 che sembrava inseguire uno scooter potente. Il 118 intanto constata la morte di Chirollo e Romano, probabilmente sul colpo, investiti dall’auto, e i carabinieri cominciano a indagare.

Nel frattempo, negli uffici della stazione di Marano, alle 19.56 si presenta Greco, con una ferita sanguinante alla mano; poi ci ripensa, va via. Ritorna, accompagnato dal fratello Mattia, alle 20.15. “Erano in due, mi hanno minacciato con la pistola, hanno preso il Rolex (un Gmt acciaio e oro, trovato poi sull’asfalto, ndr.) e poi mi hanno colpito con l’arma alla mano e mi hanno portato via anche l’auto, guidata dal passeggero dello scooter”, mette nero su bianco. “Appariva evidente la coincidenza dei due veicoli (trovati in strada, ndr.) con quelli della rapina denunciata”, scrive il pm.

 IL RACCONTO DELLA FIDANZATA DI GRECO

A. D’A., fidanzata di Greco, riferira’ agli inquirenti che era stata tutto il pomeriggio in giro con lui; Greco l’aveva poi accompagnata nella sua abitazione a Marano dalla quale era andata via intorno alle 19. Circa 41 minuti piu’ tardi le aveva mandato un vocale via WhatsApp, raccontando che gli avevano preso la macchina e si erano schiantati: “Sto con la macchina mia… si sono rubati la macchina …sono andato a vedere per vedere se gli acchiappavo… si sono schiattati nella via del padreterno si sono uccisi questi figli di lo sanno loro che hanno combinato”. Le immagini di videosorveglianza di sistemi privati lungo quelle due strade ricostruiscono i passaggi sia della vettura che dello scooter. Greco al pm in un primo tempo aveva negato di avere inseguiti i suoi rapinatori circostanza discrepante con quanto aveva raccontato nel messaggio alla fidanzata.

GRECO RITRATTA LA SUA PRIMA VERSIONE

Messo alle strette ritratta la versione e dice che si era fermato un ragazzo che conosceva con il motorino cui aveva chiesto di accompagnarlo a vedere dove si trovassero i miei rapinatori. “Ho trovato la macchina per strada… c’era un macello di macchine e motorini… due ragazzi a terra… ho anche guardato se poteva esserci il mio orologio”, dice. E ricostruisce persino grazie Google maps il tragitto che avrebbe fatto a bordo di questo ipotetico motorino con questo ipotetico amico. In effetti le immagini delle telecamere mostravano il passaggio in via Antica consolare in direzione opposta a quella descritta da lui di un ciclomotore con a bordo due persone, una delle quali, il passeggero, e’ proprio Giuseppe Greco.

LE IMMAGINI VIDEO LO INCHIODANO

Purtroppo le immagine dei sistemi di videosorveglianza in via Antica Consolare Campana immortalano il momento dell’impatto e quando dalla vettura scende il conducente che passa dietro la macchina e si avvicina a entrambi i cadaveri. A questo punto arriva il ciclomotore con un’altra persona che prende il conducente della macchina e lo porta via. Il passeggero di questo ciclomotore si e’ identificato senza ombra di dubbio come Giuseppe Greco, identico nell’abbigliamento a quello che lui porta quando arriva in caserma. Per il pm, inoltre, il movente e’ una reazione di impeto, la voglia di vendicarsi per la rapina appena subita, e anche sorretto dal dolo “essendo la morte dei due rapinatori conseguenza assolutamente certa di un investimento voluto”.

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Carceri: cade il divieto dei domiciliari per gli over 70 recidivi

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Carceri: cade il divieto dei domiciliari per gli over 70 recidivi

Gli ultrasettantenni condannati a una pena detentiva potranno essere ammessi alla detenzione domiciliare anche se dichiarati recidivi: con una sentenza odierna della Corte costituzionale cade infatti la preclusione assoluta stabilita nei loro confronti dall’ordinamento penitenziario. Sara’ compito della magistratura di sorveglianza valutare caso per caso se il condannato sia in concreto meritevole di accedere a questa particolare misura alternativa alla detenzione, tenuto conto anche della sua eventuale residua pericolosita’ sociale.

Con la sentenza di oggi (scritta dal giudice Francesco Vigano’), la Consulta ha dichiarato incostituzionale il divieto assoluto di accedere alla detenzione domiciliare stabilito per gli ultrasettantenni condannati con l’aggravante della recidiva, in base a quanto articolo 47-ter, primo comma, della legge sull’ordinamento penitenziario. I ‘giudici delle leggi’ ricordano che “la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni e’ ispirata al principio di umanita’ della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione”.

La misura, spiega Palazzo della Consulta, si fonda su una duplice presunzione: da un lato, il legislatore presume una “generale diminuzione della pericolosita’ sociale del condannato anziano, che quindi puo’ di regola essere contenuta adeguatamente imponendogli la permanenza nel domicilio, secondo le prescrizioni del giudice e con i dovuti controlli”, dall’altro, “appare verosimile” che “il carico di sofferenza associato alla permanenza in carcere cresca con l’avanzare dell’eta’, e con il conseguente sempre maggiore bisogno, da parte del condannato, di cura e assistenza personalizzate, che difficilmente gli possono essere assicurate in un contesto intramurario, caratterizzato dalla forzata convivenza con un gran numero di altri detenuti di ogni eta’”.

Per questo, la Corte ha evidenziato “l’anomalia” della disposizione esaminata, che e’ l’unica, nell’intero ordinamento penitenziario, che fa discendere conseguenze radicalmente preclusive di una misura alternativa a carico di chi sia stato condannato con l’aggravante della recidiva. In tale quadro, e’ vero che il riconoscimento della recidiva non discende “automaticamente” dalla circostanza che l’imputato sia gia’ stato condannato per un precedente reato, ma comporta un “giudizio individualizzato” di maggiore colpevolezza e pericolosita’ del reo, ma la Corte ha osservato che tale giudizio “e’ formulato unicamente ai fini della quantificazione della pena da infliggere”, e dunque “non e’ ne’ attuale ne’ specifico rispetto alle ragioni che potrebbero giustificare l’esecuzione della pena in detenzione domiciliare”.

Tra queste ragioni spiccano, in particolare, “i cambiamenti avvenuti nella persona del reo, e l’eventuale percorso rieducativo in ipotesi gia’ intrapreso” dal condannato dopo la sentenza, compreso il tempo gia’ trascorso in carcere, nonche’ la maggiore sofferenza determinata dalla detenzione su una persona di eta’ avanzata. La preclusione assoluta stabilita dalla norma e’ stata pertanto ritenuta “irragionevole” dai giudici costituzionali, “anche in rapporto ai principi di rieducazione e umanita’ della pena”, in linea con la giurisprudenza che considera contrarie agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione le preclusioni assolute all’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione.

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Usura, condannati i figli del defunto boss Antonio Rinaldi o’ giallo

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Condanna per i due figli del defunto boss del rione Villa di san Giovanni a Teduccio, Antonio Rinaldi detto o’ giallo m anche nipoti dell’attuale capo clan Ciro Rinaldi detto myway.

 Il gup di Napoli, Luca Battinieri, al termine di un processo celebrato con il rito abbreviato, ha condannato, per usura e tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso i fratelli Rita e Francesco Rinaldi, 38 e 34 anni, figli del capoclan Antonio Rinaldi, detto “‘o giallo”, fondatore dell’omonimo gruppo mafioso del rione Villa ucciso dal clan Mazzarella nel 1989, fratello dell’attuale capoclan, Ciro Rinaldi detto “MyWay”. Il giudice ha inflitto ai due nipoti di Ciro Rinaldi, rispettivamente 6 anni e 3 anni e 2 mesi. La Procura aveva chiesto 12 anni per Rita e 9 per Francesco. I due figli di Antonio Rinaldi, difesi dagli avvocati Raffaele Chiummariello e Antonio Iavarone, sono stati invece assolti dall’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso.

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Sei anni di carcere (la richiesta del pm e’ stata di 12 anni), sono stati inflitti dal giudice a Salvatore Tibello, 40 anni, marito di Rita Rinaldi, difeso dall’avvocato Vittorio Guadalupi. I tre vennero arrestati dai carabinieri il 12 febbraio 2020 al termine di indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia iniziate nell’ottobre 2019, dopo la denuncia presentata da un imprenditore vesuviano sottoposto a usura dopo avere ottenuto un prestito di 40mila euro.

 

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Il super pentito: ‘Il clan dei Casalesi voleva uccidere Cosentino’

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Il super pentito Nicola Schiavone, figlio del capo dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone ha raccontato agli investigatori in alcune sue recenti dichiarazioni che il clan, in particolare lo zio Francesco Schiavone alias “Cicciariello” (cugino di Sandokan), voleva uccidere l’ex sottosegretario Nicola Cosentino.

E per questo motivo che il processo di appello che si doveva celebrare ieri è stato rinviato al al prossimo 14 aprile, per ascoltare Schiavone jr, le cui dichiarazioni peraltro erano gia’ state acquisite al fascicolo su richiesta dell’accusa, e con il consenso dei difensori dell’ex coordinatore regionale di Forza Italia, Agostino De Caro e Stefano Montone.

Secondo il super pentito lo zio voleva uccidere Cosentino perché non si era presentato ad un appuntamento. Il sostituto procuratore generale presso la corte di appello di Napoli ha chiesto, al termine della sua requisitoria, 12 anni di carcere per l’ex sottosegretario all’Economia.

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Il processo è quasi in dirittura d’arrivo, ieri gli avvocati erano pronti a terminare la discussione,  ma i giudici d’appello di Napoli che devono giudicare per concorso esterno in camorra l’ex sottosegretario Nicola Cosentino (in primo grado e’ stato condannato a nove anni), hanno deciso di sentire il collaboratore di giustizia Nicola Schiavone, figlio del capo dei Casalesi Francesco “Sandokan” Schiavone. Nella prima parte della discussione, i legali avevano toccato il capitolo relativo ai collaboratori di giustizia vecchi e nuovi che hanno parlato di Cosentino, tra cui appunto Nicola Schiavone, definendolo inattendibile. Le dichiarazioni del pentito, che riferivano dell’appoggio dato dal padre a Cosentino tra gli anni ’80 e ’90 durante le competizioni elettorali, erano confluite anche in un altro processo d’appello che vedeva imputato l’ex sottosegretario, quello noto come “Il Principe e la Scheda Ballerina”, in cui Cosentino e’ stato assolto.

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Processo ‘Droga a fiumi’ nel Beneventano: pene ridotte ai boss

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Condanne ridotte per i boss dello spaccio di droga tra le province di Benevento e quella di Caserta.

Si è tenuto, dinanzi al Gup del Tribunale di Napoli, Dott.ssa Romano, il processo a carico dei ras Mario Romano, nato a Maddaloni, di anni 23, attualmente in stato di arresto, e Gennaro Morgillo, di anni 33, attualmente detenuto presso il carcere di Secondigliano, imputati di associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti, banda armata, porto e detenzione illegale di armi e vari episodi di spaccio.

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Il processo, che vede imputati Romano, Morgillo ed altre persone, è fondato su intercettazioni telefoniche e ambientali, oltre che su numerosi sequestri di sostanza stupefacente e di arsenali di armi, nacque dall’operazione denominata “Fiumi di Droga” e fu caratterizzato dall’emissione di numerose ordinanze di custodia cautelare in relazione a reati commessi tra il 2016 ed il 2019 tra la Valle Caudina, in particolar modo Montesarchio ed Airola, la Valle di Suessola, Maddaloni ed alto Napoletano. Romano e Morgillo, secondo il Pm antimafia Luigi Landolfi, erano capi indiscussi di una vera e propria organizzazione criminale finalizzata al traffico di droga, con le sue rigide gerarchie interne, che operava tra le provincia di Caserta e la provincia di Benevento e che riforniva di droga gli innumerevoli clienti con linguaggi in codice e con diversi metodi di spaccio, già visti nelle organizzazioni criminali napoletane. Inoltre, secondo le indagini, l’organizzazione si riforniva della droga trattata (cocaina, crack, eroina hashish e marijuana) in prevalenza tramite canali della provincia di Napoli.

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Il Gup però, nonostante il solido impianto accusatorio, sulla base delle difese dell’ avvocato Vittorio Fucci e dell’ avvocato Giuseppe Stellato, è stato di un avviso diverso della Procura Antimafia, ed ha condannato: 1)Mario Romano, considerato uno dei due promotori dell’ associazione, difeso dall’ avvocato Vittorio Fucci, a soli 6 anni, mentre la Procura Antimafia, ne chiedeva 18 e Gennaro Morgillo, considerato l’ altro promotore, difeso dall’ avvocato Vittorio Fucci jr e dall’ avvocato Giuseppe Stellato, a soli 13 anni e 8 mesi, mentre la Procura Antimafia ne aveva chiesti 20.

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Il Romano, per cui la pena è stata ridotta di due volte rispetto alla richiesta del P.M., accogliendo le tesi dell’ avvocato Vittorio Fucci jr, è stato assolto dal ruolo di promotore della associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, è stato assolto dall’ aggravante della banda armata, è stato assolto dal reato di porto e detenzione illegale di un arsenale di armi ed nonché dai vari episodi di spaccio.

Il Morgillo, accogliendo le tesi dell’ avvocato Vittorio Fucci e dell’ avvocato Giuseppe Stellato, è stato assolto dal capo di porto e detenzione illegale di un arsenale di armi, è stato assolto dall’ aggravante della banda armata, è stato assolto da vari episodi di spaccio e dalla recidiva e gli sono state concesse le attenuanti generiche, nonostante già pregiudicato per vari reati in materia di droga.

Una sentenza che conclude il primo grado di un processo che ha fatto molto scalpore. I difensori, però, nonostante l’eccellente risultato sono già pronti per il ricorso in appello.

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Mazzette per superare il concorso nella scuola: arrestate due docenti a Pompei

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Prendevano tra i 20mila e i 40mila euro per superare il concorso di personale docente nella scuola: operazione della polizia di Pompei.

Stamattina gli agenti del Commissariato della Polizia di Stato di Pompei, all’esito di un articolata attività d’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, hanno dato esecuzione ad un’ordinanza emessa dal GIP con la quale è stata applicata la misura cautelare personale degli arresti domiciliari nei confronti di O.C. e M.C.ritenute responsabili, in concorso tra loro, di plurimi episodi di induzione indebita a dare ingenti somme di denaro per il superamento di prove di concorso.

In particolare le due donne, insegnanti presso un Istituto Scolastico, ed una di esse membro effettivo della commissione esaminatrice, abusando delle rispettive qualità, hanno chiesto a diversi candidati, alcuni dei quali compiutamente identificati, la corresponsione di somme di denaro comprese tra 20.000 e 40.000,00 euro per il superamento del concorso pubblico per l’assunzione di personale docente. L ‘indagine è scaturita dalla denuncia presentata presso gli Uffici del Commissariato di Pompei, nel mese di gennaio scorso, dalla presidente e da un membro della commissione esaminatrice.

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La polizia giudiziaria,, coordinata dalla Procura di Napoli Nord, ha avviato una complessa attività investigativa, che si è articolata nella raccolta delle dichiarazioni di persone informate sui fatti, nella acquisizione di documentazione e nella trascrizione di files audio registrati nel corso degli incontri tra le due indagate ed alcun2 candidati, destinatari, in maniera inequivoca della richiesta di ingenti somme di denaro quale condizione per il superamento delle prove d’esame. Le indagini svolte hanno, inoltre, permesso di acclarare che le due indagate hanno organizzato un corso di preparazione al concorso, per il quale percepivano 1.000 euro, e ad alcuni dei partecipanti formulavano la illecita richiesta di pagamento per il superamento delle prove. E’, altresì, emerso che l’indagata M.C. aveva posto in essere la medesima condotta corruttiva in occasione del concorso per l’abilitazione all’insegnamento dì sostegno.

L’attività investigativa ha, dunque disvelato un collaudato sistema di “corruzione” ai danni di molti dei partecipanti ai concorsi per l’assunzione di insegnanti. attuato anche in occasione del cosiddetto “concorsone” ovvero del concorso svoltosi nella primavera dello scorso anno per l’assunzione, a tempo indeterminato di personale docente .

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