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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Inchiesta rifiuti: la polizia acquisisce documenti e filmati nella redazione di Fanpage

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“La polizia giudiziaria si e’ recata oggi nella redazione di Fanpage.it a NAPOLI per acquisire i filmati grezzi dell’inchiesta sul traffico illecito di rifiuti che ha gia’ portato alle dimissioni del consulente del governo Fabrizio Ghedin. Allegata al decreto del tribunale di Rovigo c’e’ una nota indirizzata ai carabinieri di NAPOLI nella quale si dice: “Siccome potrebbero fare un po’ i preziosi e invocheranno la questione di tutelare l’eventuale interlocutore delle interviste…”. Riteniamo questo atteggiamento inaccettabile e ricordiamo agli investigatori che la tutela delle fonti e’ un fondamento della professione giornalistica, soprattutto per chi fa inchieste, come quella sul traffico dei rifiuti, che hanno dei risvolti giudiziari importanti”. Lo affermano, in una nota, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi, Claudio Silvestri, segretario del Sindacato unitario giornalisti della Campania, e Sandro Ruotolo, presidente dell’Unione cronisti della Campania. “Bene ha fatto il direttore Francesco Piccinini ad opporsi – proseguono – e a proteggere coloro che hanno dato notizie riservate al giornale. Per questo domani alle 11.30 il presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana, Giuseppe Giulietti, e il segretario regionale del Sindacato unitario giornalisti della Campania, Claudio Silvestri, saranno nella redazione napoletana del giornale per una conferenza stampa. Nel giorno in cui il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sara’ a NAPOLI, il Sindacato dei giornalisti riproporra’ con forza due temi importantissimi per la liberta’ di stampa: quelli di leggi per la tutela delle fonti e per il contrasto delle querele bavaglio”.

Cronache della Campania@2019


Trentuno Ultras del Napoli a processo: veronesi parte civile

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Era il 5 novembre 2017 e a Verona giocava il Napoli contro il Chievo. Il prossimo 25 giugno trentuno napoletani (per tre indagati le posizioni sono già state archiviate con conseguente revoca del ‘daspo’ e dei ‘fogli di via’) saranno chiamati a rispondere dei reati di danneggiamento e violenza privata per aver tentato di sfondare la porta di ingresso del ‘Bar Oro Bianco’ di Corso Cavour 20/A, mentre dentro vi erano decine di veronesi. Dalle foto scattate dalla polizia scientifica nei momenti immediatamente successivi al tentativo di colluttazione da parte di alcuni dei napoletani si notano diverse decine di scaligeri riversatisi in strada dopo l’allontanamento dei partenopei. Questi ultimi, non riuscendo ad introdursi nel locale, avendo i gialloblù bloccato l’entrata con degli sgabelli, avrebbero cercato di rompere la porta vetrata con sopra gli adesivi dei supporters dell’Hellas. L’immediata denuncia del proprietario del bar, che adesso ha cambiato nome in ‘Vecchia Latteria Modigliani’, dove è stato anche girato il video musicale di ‘Verona è la mia città’ dei Gesta Bellica e dei Sumbu Brothers, ha fornito alla Questura di Verona elementi utili per indagare i napoletani. 

Ceruti Alan infatti ha prima raccontato l’accaduto alle volanti intervenute dopo i fatti, poi aggiungendo alcuni dettagli nei giorni successivi. Oltre dunque a sostenere che l’agguato sarebbe avvenuto per mano di alcuni tifosi azzurri giunti a bordo di auto e furgoni, descritte precisamente, Ceruti ha evidenziato che quel giorno gli assalitori erano in giro per la città già da un’ora prima. Determinando l’acquisizione dei frame delle telecamere di videosorveglianza del centro cittadino, da parte degli investigatori, e consentendo in questo modo l’identificazione degli stessi. Ora il Giudice del Tribunale di Verona, Alessia Silvi, dovrà vagliare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria formulata dal Pubblico Ministero Maria Beatrice Zanotti, accanto alla quale siederà contro i napoletani imputati, per il tramite del suo legale, la costituenda parte civile Alan Ceruti, per confermare alla magistratura quanto dichiarato alla volante intervenuta in Corso Cavour il 5.11.2017, al P.M. il 6.11.2017 con atto scritto e alla DIGOS scaligera in data 8.11.2017 in sede di sommarie informazioni, rivendicando anche un risarcimento economico. A breve avrà inizio il dibattimento. 

Cronache della Campania@2019

‘Feci quell’omicidio a malincuore’, condannati killer e mandanti dell’assassinio di Vincenzo Di Napoli

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“Feci quell’omicidio a malincuore, quando me lo chiese Ciro Perfetto, mi limitai a fargli notare che stavamo andando ad ammazzare uno di noi. Poi ricordai allo stesso Perfetto che non dovevamo mettere un ragazzo come Di Napoli nel gruppo di quelli che andavano a sparare alla Sanità”. Storie di camorra e tradimenti, storie di morti ammazzati, di condoglianze di circostanza e di amicizie calpestate per volere del boss. Era il 13 dicembre del 2017 quando Mariano Torre da pochi giorni collaboratore di giustizia e sul groppone già due condanne all’ergastolo in primo grado raccontò di un altro cruento assassinio compiuto da lui e dal suo gruppo:quello dell’amico Vincenzo Di Napoli. Per quell’agguato ieri il gup Carbone ha condannato all’ergastolo i due presunti killer Antonio Buono e Ciro Perfetto, infliggendo 12 anni ai pentiti Carlo Lo Russo e Mariano Torre (per i quali è stato tenuto in considerazione il beneficio della collaborazione con la giustizia); mentre sono state firmate condanne a 11 anni per Antonio Montepiccolo (condannato per associazione camorristica e droga) e genero di Giuseppe Lo Russo unico dei fratelli a non essersi pentito. E infine 8 anni per Antonella De Musis, la nuova compagna di Carlo Lo Russo accusata di associazione camorristica.

Cronache della Campania@2019

Resta in carcere l’architetto stabiese accusato di aver ucciso il padre durante una lite per difendere la madre

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Giuseppe

 Il giudice per le indagini preliminari di Teramo, Domenico Canosa, ha convalidato il fermo ed ha disposto gli arresti per lo stabiese Giuseppe Di Martino accusato di aver ucciso il padre Giovanni durante una lite familiare. Il 46enne architetto dovrà rispondere di omicidio volontario nei confronti del padre, un meccanico stabiese. Il fatto è accaduto a Silvi Marina, in provincia di Teramo. Nella giornata di ieri Giuseppe è comparso davanti al gip ed ha ribadito la sua versione dei fatti ovvero di essere intervenuto quando ha visto il padre aggredire per l’ennesima volta la madre 76enne, afferrandolo per il collo e ingaggiando con lui un corpo a corpo nel corso del quale ha sbattuto più volte la testa sul tavolino del tinello, fino a quando il padre è caduto all’indietro. Giovanni Di Martino si sarebbe procurato in quella occasione la frattura cervicale che secondo l’autopsia eseguita sabato scorso, sarebbe stata mortale.
Una versione, però, che non convince la difesa della famiglia di Giovanni che ha contestato questa ricostruzione dei fatti. Sembrerebbe non essere la prima volta che il figlio aggredisca il padre. Infatti poco più di un anno fa la vittima presentò una denuncia nei confronti del figlio per lesioni. Oltre a questo ci sarebbero altre testimonianze che racconterebbero di continui diverbi tra padre e figlio. Dall’esame autoptico eseguito nella giornata di sabato sarebbero emerse diverse ferite al cranio e questo porterebbe a pensare che proprio il figlio avrebbe sbattuto più volte la testa del padre provocando delle lesioni che sarebbero diventate fatali nei minuti successivi. La difesa dell’uomo ha chiesto l’applicazione della misura alternativa nei confronti dell’architetto 46enne, respinta dal gip che ha contestato all’indagato l’omicidio volontario. I militari dell’arma che indagano sul caso hanno ascoltato anche la moglie della vittima e madre dell’indagato che ha confermato la versione del figlio. Secondo la Procura la sua versione non sembrerebbe credibile ed è per questo che i magistrati vogliono vederci chiaro. La salma è stata dissequestrata ed è in viaggio a Castellammare dove sarà celebrato domani il funerale. Non è da escludere, inoltre, anche il movente di matrice economica.

Cronache della Campania@2019

Fidanzati uccisi a Pordenone, l’ex ragazza di Ruotolo patteggia 10 mesi di carcere

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Maria Rosaria Patrone, 28 anni, di Somma Vesuviana, ex fidanzata di Giosuè Ruotolo – l’ex militare condannato all’ergastolo in primo grado e in Appello per l’omicidio della coppia di fidanzati Teresa Costanza e Trifone Ragone il 17 marzo 2015 a Pordenone – ha patteggiato 10 mesi di reclusione, con la sospensione condizionale, per false informazioni ai pm e favoreggiamento nei confronti di Ruotolo. Lo riportano i media locali. La giovane nel corso dell’inchiesta aveva sollecitato alcune amiche affinchè tacessero circa un falso profilo creato su Facebook dal compagno per mettere in crisi il rapporto tra Trifone e Teresa. Profilo che gli inquirenti hanno ipotizzato essere il “fulcro del movente” del delitto. Le ipotesi di favoreggiamento erano legate anche alla cancellazione di alcuni messaggi scambiati con Ruotolo. L’accusa di false informazioni risale a quando la donna fu sentita nella caserma dei Carabinieri di Pordenone e affermò che tra Trifone e Giosue’ non c’era mai stato alcun attrito. 

Cronache della Campania@2019

Droga tra Marocco e Benevento, assolta la moglie del ras Colombo: sconti per tutti

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Benevento. Operazione Higado: sconti di pena in Appello per 14 presunti organizzatori del traffico di stupefacente, unica assoluzione per Rosa Perone – difesa dall’avvocato Dario Vannetiello – moglie del narcotrafficante Giovanni Colombo. Si è concluso oggi pomeriggio innanzi alla  Corte di Appello di Napoli – V sezione, presidente Toscano, il processo a carico di 14 imputati, accusati di far parte di una articolata associazione dedita al traffico internazionale di stupefacenti, acquistati in Marocco e piazzati nelle città di Benevento, Napoli e le rispettive province. Il processo scaturisce dall’Operazione Higado che portò all’arresto – tra gli altri – dei fratelli Colombo di Montesarchio, in provincia di Benevento, ritenuti i promotori di un traffico internazionale di droga tra il 2014 e il 2015. Nel giudizio undici imputati su 14 hanno deciso di rinunciare ai motivi di Appello, ammettendo le proprie responsabilità. I giudici hanno confermato l’impianto accusatori, pur riformando la sentenza di primo grado con vistosi sconti di pena.
Unica assoluzione per ‘non aver commesso il fatto’ è stata riservata a Rosa Perone, moglie di Giovanni Colombo, difesa dall’avvocato Vannetiello. Perone era stata condannata, in primo grado, a 6 anni di reclusione, per aver commerciato e venduto ingenti quantità di sostanza stupefacente. Già in primo grado Rosa Perone ottenne l’assoluzione dall’accusa di aver fatto parte dell’associazione criminale capeggiata dal marito. I giudici di secondo grado hanno condiviso pienamente le argomentazioni difensive sostenute dall’avvocato Dario Vannetiello ridando anche la libertà a Perone Rosa.
La Corte di Appello, all’esito del processo, ha riformato la sentenza di primo grado anche per gli altri imputati, riducendo a Giovanni Colombo, 51 anni considerato il promotore del traffico internazionale di stupefacenti, la pena da 16 anni a 10 anni di reclusione, e riducendo la pena al fratello Pasquale (58 anni) da 9 anni a 7 anni – entrambi difesi dall’avvocato Vittorio Fucci i due principali imputati non hanno rinunciato ai motivi assolutori – e Paolo Taverna da 6 anni e 6 mesi a 4 anni e 4 mesi di reclusione. Già in primo grado erano stati assolti dall’accusa di traffico internazionale di stupefacenti e di spaccio aggravato di stupefacenti Michele De Lucia, di 54 anni, e Carmelo Colombo, 29 anni, entrambi di Montesarchio, difesi dall’avvocato Vittorio Fucci. Il processo, che vede imputati i fratelli Colombo ed altre persone, è fondato su intercettazioni telefoniche e ambientali oltre che su vari sequestri di tonnellate di sostanze stupefacenti sull’asse Italia – Spagna.
La Corte di Appello di Napoli concesse le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante dell’ingente quantità, ha ritoccato le pene ed ha condannato:

Perone Rosa Assoluzione
Campidoglio Vincenzo 6 anni (in primo grado 9 e mesi 5)
Minauro Antonio 10 anni (18 anni)
Mesaud Luafi 6 anni (11 anni)
Uccellini Diego 4 anni e 10 mesi (7 anni e 4 mesi)
Uccellini Letizia 4 anni e 10 mesi (7 anni e 4 mesi)
Marotta Vincenzo 5 anni e 2 mesi (8 anni e 4 mesi)
Di Donato Gianfranco 2 anni (3 anni)
Colombo Giovanni 10 anni (15 anni e 8 mesi)
Luciano Pietro 2 anni e 10 mesi (4 anni e 4 mesi)
Moio Michele 6 anni (11 anni)
Colombo Pasquale 7 anni (8 anni 8 mesi)
Taverna Paolo 4 anni e 10 mesi (6 anni e 10 mesi)
Maglione Giuseppe 2 anni e 8 mesi (conferma di primo grado)


Cronache della Campania@2019

Taglieggiava gli imprenditori minacciandoli di morte con un caimano: 13 anni di carcere

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 Taglieggiava gli imprenditori minacciandoli di morte con un caimano, confermata la condanna in Cassazione a 13 anni e 8 mesi per Antonio Cristofaro. Respinti i ricorsi per il clan Caterino di Cesa confermate le condanne di secondo grado. Ritorna in Appello solo la posizione di Michele Ferriero per un errore nell’applicazione della continuazione della pena e annullamento con rinvio anche per i fratelli Nicola e Salvatore Pota per i quali il pm aveva fatto ricorso dopo l’assoluzione in Appello. Una potente frangia del  gruppo dei Casalesi, i Caterino-Ferriero, oltre ad essere accusati di estorsione con il metodo mafioso sono stati indagati anche del tentato omicidio di Vincenzo Esposito, i cui fatti  sono stati contestati solo ai fratelli Nicola e Salvatore Pota (per i quali ora si attende il verdetto di ritorno dalla Cassazione). Confermata dalla Cassazione la pena in Cassazione invece per il boss capoclan Nicola Caterino alias ‘o’ cecato’, condannato a 12 anni; 7 anni e 4 mesi e 7 anni sono state le pene definitive per i figli del boss, Amedeo Caterino e Pietropaolo Caterino. Antonio Cristofaro, esponente di spicco del gruppo era noto come ‘Tonino il caimano’  proprio  per le minacce rivolte agli imprenditori con il grosso rettile.

Cronache della Campania@2019

Processo Casapound a Napoli; chieste 30 condanne,”banda sovversiva”

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“Tra il 2010 e il 2011 eravamo davanti a un gruppo criminale che in un determinato momento storico del Paese aveva come obiettivo quello della caccia all’uomo, al ‘compagno’ e lo ha fatto in diverse azioni violente”. A dirlo in aula il pm Catello Maresca nella requisitoria del processo davanti alla seconda Corte d’Assise di Napoli nei confronti di 34 attivisti del gruppo di estrema destra Casapound. Al termine, Maresca ha chiesto pene tra gli otto anni e un anno per i reati di associazione sovversiva e banda armata. Tra gli imputati Enrico Tarantino, per il quale il magistrato ha chiesto otto anni di reclusione, ed Emanuela Florino, figlia di un ex parlamentare, per la quale sono stati chiesti sei anni. In totale le condanne richieste sono state trenta.

Il processo in corso a NAPOLI nei confronti dei 34 militanti di Casapound, giunto ormai alle battute finali, riguarda fatti avvenuti a NAPOLI ormai diversi anni fa, precisamente tra il 2010 e il 2011. Dall’emissione delle ordinanza cautelari, ai ricorsi al Tribunale del Riesame, a quelli in Cassazione, (la Suprema Corte ha confermato le ipotesi di reato formulate dalla Procura), il procedimento ha subi’to un’accelerazione solo nell’ultimo anno e mezzo, in particolare da quando il fascicolo e’ stato affidato al sostituto procuratore Catello Maresca. In questo periodo si sono tenute mediamente due udienze a settimana, davanti al collegio presieduto dal giudice Barbarano. Oggi il pm ha consegnato una corposa memoria (circa 1200 pagine) nella quale ha ripercorso tutte le fasi del procedimento e ricordato la sequenza di aggressioni che sono avvenute in quel periodo a NAPOLI, connotate dalla volonta’ da parte degli imputati di volere affermare, ha sottolineato Maresca, “i propri ideali attraverso l’uso della violenza”. “I militanti e i leader di Casapound indagati – ha detto ancora il magistrato – non hanno mai disdegnato lo scontro, anche con le forze dell’ordine che, in numerose occasioni, sono anche riuscite a sventare gli assalti grazie a una costante operazione di monitoraggio attraverso intercettazioni perlopiu’ ambientali (molti sospettavano che i cellulari potessero essere sotto controllo e quindi evitavano di usarli in certe circostanze)”. Intercettazioni, contenute negli atti delle indagini, che evidenziano anche i profili nazifascisti di alcuni dei cosiddetti leader. Come quando due dei promotori, rivolgendosi ad alcuni giovani adepti nell’ambito di un seduta di formazione organizzata nella location dove si riunivano, hanno esaltato passaggi del “Main Kampf” di Adolf Hitler. Le ambientali hanno anche fatto emergere l’intenzione di dare fuoco a negozi i cui titolari erano ebrei e, addirittura, l’intenzione di violentare una studentessa ebrea. Uno dei paragrafi della memoria riguarda anche il sequestro del materiale che gli imputati avevano messo da parte per le aggressioni: cavi elettrici destinati a diventare delle fruste, mazze di legno e di metallo da utilizzare per picchiare i gruppi di sinistra antagonisti e bottiglie di vetro da utilizzare come molotov o da riempire di urina per poi lanciarle anche contro le forze dell’ordine durante gli scontri di piazza. Maresca ha anche formulato richieste di pena alternative (tra 5 anni e 2 anni e sei mesi) nei confronti degli imputati, alcuni dei quali si sono presentati come candidati in alcune tornate elettorali, qualora non venisse riconosciuta l’associazione sovversiva. La prossima udienza, che segnera’ l’inizio delle arringhe dei numerosi avvocati della difesa, e’ stata fissata per il 10 settembre.

Cronache della Campania@2019


Le mani del clan Mazzarella su Roma: indagini della Dia sull’espansione nella Capitale

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Napoli.Sergio Grassia detto sergiolino e Raffaele Oliviero detto o’ pop erano entrati nel mirino dei nemici del clan Mazzarella. E quando la scorsa settimana sono stati arrestati sulla spiaggia di Ardea dove stavano trascorrendo la latitanza-vacanza insieme con i familiari si può dire che sono scampati alla morte. E dunque devono anche ringraziare i carabinieri che li hanno arrestati. I Mazzarella infatti attraverso i loro collegamenti con il clan siciliano dei Fragalà aveva individuato il loro nascondiglio e stava preparando un attentato nei loro confronti. E’ quando emerge da una delicata inchiesta della Dia e sui collegamenti ma soprattutto sull’espansione dei Mazzarella nel Lazio e sul litorale romano. Espansione storica che risale a una decina di anni fa attraverso Gennaro Moccardi e alcuni suoi parenti che spacciavano cocaina su Ladispoli e rifornivano i Casamonica e poi attraverso Salvatore barile “Totoriello” il cui nome compare nell’inchiesta “Brasile low cost” del 30 gennaio scorso che ha portato in carcere tra gli altri il boss romano Salvatore Casamonica. Ebbene negli ultimi mesi ci sarebbe stata una rottura tra i Casamonica e i Mazzarella per un pestaggio subiti da alcuni esponenti della cosca dei Casamonica legati a Pasquale detto Rocky ad opera di affiliati ai Mazzarella. C’è mancato poco che non scoppiasse uno scontro armato tra le due famiglie criminale e solo l’intervento pacificatore dei Fragalà ha fatto si che ciò non avvenisse. Poi l’arresto dei boss catanesi ha mandato all’aria anche l’agguato che i Mazzarella attraverso gli uomini dei famigerato Giancarlo, “l’uomo nero” di san Giorgio a Cremano, stavano preparando nei confronti di Grassia (già oggetto di ben 4 stese sotto la sua abitazione e di una bomba nella pizzeria dei nipoti a san Giuseppe Vesuviano nei mesi scorsi) e di Oliviero. Gli investigatori ora stanno seguendo con attenzione l’evolversi della situazione e l’espansione dei Mazzarella su Roma.

Cronache della Campania@2019

Pizzo per conto dei Casalesi sul caffè: in carcere la moglie e il fratello di un boss del clan Iovine

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Tre persone sono state arrestate  per una serie di estorsioni fatte a nome e per conto del clan dei Casalesi finalizzate al controllo della vendita del caffè e delle attività di grossi cantieri edili nell’agro aversano. All’alba di oggi, nell’ambito di una nuova inchiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, nei territori di Lusciano, San Marcellino e Santa Maria Capua Vetere è stata eseguita un’ordinanza cautelare dai militari del Nucleo Investigativo di Caserta nei confronti di Claudio Giuseppe Virgilio, 42 anni, attualmente detenuto,  ritenuto elemento di spicco dell’associazione di tipo mafioso, fazione Iovine. In  carcere inoltre sono finiti due componenti del suo nucleo familiare: la moglie, Angela Gargiulo, 31enne originaria di Lusciano, figlia di Luciano Gargiulo, detto “Calimero”, un tempo referente di zona per il clan Bidognetti, deceduto in carcere in regime di 41 bis e il fratello, Nicola Virgilio, 44enne di San Marcellino, incensurato, imbianchino. Tutti sono ritenuti responsabili, a vario titolo, dei delitti di associazione di tipo mafioso e di estorsione con l’aggravante della metodologia mafiosa. Il provvedimento restrittivo costituisce il risultato di un’attività investigativa iniziata nel 2017 e terminata nel luglio 2018, che ha consentito di ritenere che Claudio Virgilio, dal 2008, in nome e per conto del capo clan capeggiato all’epoca da Antonio Iovine (oggi collaboratore di giustizia), abbia estorto denaro da una ditta operante nella distribuzione e commercializzazione del caffè, con sede in San Marcellino , per un importo complessivo di circa 150.000 euro. A Claudio Virgilio è inoltre contestato che anche dopo la sua cattura da latitante, Iovine, avvenuta nell’aprile del 2017 (poiché ritenuto responsabile degli omicidi di Antonio Bamundo, Gennaro Di Chiara e Nicola Villano), sebbene in carcere, abbia continuato, per il tramite della moglie e del fratello, entrambi destinatari dell’odierna misura cautelare, a riscuotere ratei estorsivi da alcuni imprenditori edili di Aversa (Caserta). Dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia, tra cui lo stesso Antonio Iovine, al Virgilio è contestato di essere divenuto uno dei nuovi soggetti di riferimento del clan “dei Casalesi” nei territori di San Marcellino, Frignano e Villa di Briano, ma era pronto ad estendere il suo potere camorristico anche in altri territori. 

Cronache della Campania@2019

La Cassazione: un feto durante il travaglio è una persona

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Affrontando un caso di malasanita’ avvenuto nella sala parto di una clinica di Salerno, la Cassazione ha deciso di ampliare la tutela dei bimbi che stanno per venire al mondo e ha stabilito che il feto, nel momento in cui transita nel canale uterino, nello sforzo di arrivare alla luce, deve essere considerato non piu’ un feto ma un “uomo”. Con la conseguenza che il personale sanitario che assiste le donne in travaglio, se commette errori fatali per negligenza, imperizia, o disattenzione, verra’ condannato per omicidio colposo e non per aborto colposo, reato meno grave. Afferma infatti la Suprema Corte che nel contesto attuale “di totale ampliamento della tutela dei diritti della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si e’ poi estesa fino all’embrione”, il feto, “benche’ ancora nell’utero”, deve essere considerato un “uomo” durante il travaglio della gestante, nel momento cioe’ della “transizione dalla vita uterina a quella extrauterina”. E dunque, ad avviso degli ‘ermellini’, l’ostetrica negligente che provoca la morte del feto per non aver correttamente monitorato il battito cardiaco risponde di omicidio colposo e non di aborto colposo. E non puo’ nemmeno invocare la responsabilita’ del ginecologo e quella del medico anestesista perche’ il monitoraggio del battito e’ un suo specifico compito. Sulla base di queste considerazioni che tengono conto dell’evoluzione “normativa e giurisprudenziale italiana e internazionale”, nel campo dei diritti della persona, la Cassazione – verdetto 27539 della Quarta sezione penale, presidente Patrizia Piccialli – ha confermato la condanna per omicidio colposo a un anno e nove mesi di reclusione, pena sospesa, nei confronti di una ostetrica. La donna, Filomena G. di 44 anni, non aveva adeguatamente monitorato il battito cardiaco di un feto mentre la madre era in travaglio e le era stata somministrata l’ossitocina per aumentare le contrazioni. L’ostetrica – che pretendeva una condanna piu’ mite, per aborto colposo – continuava a rassicurare il ginecologo di turno a ‘Villa del Sole’ che tutto procedeva regolarmente. Invece il bimbo fu estratto dall’utero gia’ morto, per asfissia, e i periti stabilirono che la congestione degli organi e lo stato di sofferenza fetale “non si era determinata in pochi minuti” ma in almeno mezz’ora. Se il monitoraggio fosse stato adeguato il bambino, che era perfettamente sano, poteva essere salvato ricorrendo al cesareo. Per la Cassazione, “la tutela della vita non puo’ soffrire lacune” e deve essere ‘protetto’ dalla legge anche il ‘viaggio’ dei nascituri nel canale uterino. In base a quanto accertato nel processo, c’era stata “una scorretta e superficiale esecuzione dei tracciati”. “Assolutamente censurabile”, inoltre, il comportamento dell’ostetrica che “successivamente alla nascita del feto morto, aveva allegato alla cartella clinica” il tracciato di un’altra gestante e aveva addirittura riferito alla sfortunata mamma del piccolo nato morto – l’otto novembre 2008 – che “il bambino era nato vivo e che lei stessa ne aveva verificato il battito cardiaco al momento della nascita”. Per questo a Filomena G. sono state negate le circostanze attenuanti generiche. Il verdetto dei supremi giudici conferma la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Salerno il 6 marzo 2018, conforme a quella pronunciata dal Tribunale di Salerno il 16 luglio 2015.

Cronache della Campania@2019

Torre Annunziata, chiesti 85 anni per il gruppo di ‘Ninnacchera’ che vendeva ‘le sfogliatelle calde’ alla Provolera

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Al telefono faceva sapere di avere pronte “le sfogliatelle calde”. Tra i clienti c’era chi ordinava “la pizza” oppure “un bambino” e ancora diceva di voler fare “mezza giornata di lavoro” che significava voler acquistare una dose da 50 euro. Ieri il pm del Tribunale di Torre Annunziata ha chiesto condanne complessivo per il gruppo di pusher legati ad Anna Gallo detta “ninnacchera”, vedova del boss Ernesto Venditto soprannominato “Bicchierino”, e madre di Aurelio Venditto, ucciso in un agguato il 28 febbraio 1999 dai sicari del clan Birra-lacomino di Ercolano in vico del Fico a Torre Annunziata.A ottobre dello scorso anno fu arrestata insieme con altre 16 persone nel corso di un blitz dei carabinieri che misero fine al lucroso traffico di droga nei vicoli della Provolera. Per il capo ovvero “Ninnacchera” la richiesta di condanna è quella più alta e cioè di 9 anni di reclusione. Mentre 8 anni e 6 mesi sono stati chiesti per il nipote Andrea Gallo, e ancora 8 anni per la cognata Elena Albergatore, il fratello Giovanni Albergatore, e il nipote Antonio Albergatore, Luigi Albergatore e Giuseppe Battaglia. Condanne più lievi sono state chieste per gli altri imputati.

LE RICHIESTE DI CONDANNA

Antonio Albergatore: 8 anni;
Elena Albergatore: 8 anni;
Giovanni Albergatore: 8 anni;
Luigi Albergatore: 4 anni e 8 mesi
Angelo Annunziata; 2 anni e 10 mesi Angela Antille: 3 anni
Carmine Balzano: 3 anni
Giuseppe Battaglia: 8 anni
Ida Dinamico: 6 anni
Andrea Gallo: 8 anni e 6 mesi,
Anna Gallo: 9 anni
Luigi Guida: 2 anni
Caterina Izzi: 4 anni e 8 mesi Vincenzo Ruggero: 5 anni
Rosanna Venditto: 4 anni e 8 mesi Mario Verbo: 2 anni

Cronache della Campania@2019

Napoli, collaboratori ‘non attendibili: scarcerato presunto killer del clan Cutolo

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Napoli. Fa parte del “gruppo di fuoco del clan Cutolo” questa, in estrema sintesi, era il senso delle dichiarazioni dei quattro collaboratori di giustizia (Sartore Alfredo, Ferraiolo Maurizio, Quindici Emilio e Maggio Salvatore) attraverso le quali gli inquirenti ritenevano di poter inchiodare alla sbarra Antonio D’ Angelo, arrestato nell’ambito del blitz che, circa 20 giorni fa, portò in carcere 21 persone ritenute affiliate alla consorteria criminale operante nella parte ” bassa” della zona del rione Traiano di Napoli. Del resto, così come evidenziato anche dal G.I.P. che emise i provvedimenti cautelari, le dichiarazioni dei collaboratori non solo si riscontravano l’una con l’ altra rispetto ai fatti criminosi raccontati, ma, la lunga attività di indagine posta in essere dal comando provinciale dei carabinieri su delega della direzione distrettuale antimafia, aveva fornito diversi ulteriori elementi rappresentati soprattutto da intercettazioni telefoniche ed ambientali che, nel caso del D’Angelo sembravano addirittura essere dimostrative della sua partecipazione ad un tentato omicidio posto in essere, da quest’ultimo, nell’interesse del clan. Di diverso avviso invece, in ordine alla valutazione del materiale indiziario, il tribunale del riesame di Napoli, 10ecima sezione, che, in accoglimento del ricorso presentato dall’ avvocato Marco Bernardo, ha completamente annullato l’ordinanza di custodia cautelare emessa carico dell’ indagato rimettendolo in libertà. Determinante per l’esito favorevole del giudizio è stata la produzione documentale effettuata dall’avvocato Bernardo nel corso dell’udienza con la quale, facendo riferimento ad altri verbali di collaboratori non depositati dal P.M. nel procedimento, ma conosciuti dal legale perché presenti in altri processi, quest’ultimo è riuscito a dimostrare l’inattendibilità dei collaboratori. Il tribunale del riesame preso atto di questo contrasto tra le diverse dichiarazioni dei pentiti, alla luce anche del contenuto delle intercettazioni che, a ben vedere, erano molto meno chiare di quanto ad una prima lettura potesse sembrare, non ha potuto che annullare per mancanza dei gravi indizi l’ordinanza l ordinanza cautelare scarcerando l’indagato.

Cronache della Campania@2019

Atti sessuali con una minore, 80enne nei guai: incastrato dalle telecamere

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Oggi pomeriggio la Polizia di Stato di Castellammare di Stabia, ha dato esecuzione all’Ordinanza di Misura Cautelare, emessa dal GIP – Tribunale di Torre Annunziata, su richiesta della locale Procura della Repubblica, concernente il Divieto di Avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, applicata nei confronti di un ottuagenario ritenuto responsabile di atti sessuali con una minore. Gli episodi accertati dalle indagini sono avvenuti anche in luoghi pubblici ed aperti al pubblico. L’attività investigativa, basatasi anche sull’analisi di registrazioni delle telecamere di videosorveglianza, ha consentito l’individuazione dell’anziano quale autore dei reati contestati

Cronache della Campania@2019

Omicidi Cepparulo e dell’innocente Colonna: ‘Niente prove contro Ciro Rinaldi, va assolto’, parla la difesa del boss

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 Il boss Ciro Rinaldi “non e’ mai stato individuato o intercettato direttamente in relazione all’uccisione di Raffaele Cepparulo”. Lo ha sostenuto oggi, nell’aula 217 del Palazzo di Giustizia di Napoli l’avvocato Raffaele Chiummariello, uno dei due legali dell’ex primula rossa della camorra Ciro Rinaldi, nel corso della penultima udienza del processo sull’omicidio del boss della Sanità, Raffaele Cepparulo detto ‘Ultimo’ che costò la vita anche all’innocente Ciro Colonna, 19 anni, colpito a morte da uno dei sicari mentre stava giocando al bigliardino. Rinaldi è ritenuto dagli inquirenti il mandante dell’omicidio insieme con un Michele Minichini el tigre, capo del gruppo dei “pazzignani”, che in quell’agguato avrebbe anche svolto il ruolo di killer. Un processo durante il quale si sono susseguite confessioni e lettere di scusa alla famiglia Colonna. Per la difesa di Ciro Rinaldi, rappresentata anche dall’avvocato Salvatore Impradice, in sostanza, il boss deve essere assolto perchè il suo coinvolgimento non è stato provato. Il pm Antimafia di Napoli Antonella Fratello ha chiesto sette ergastoli in relazione a questo efferato omicidio avvenuto nel giugno 2016 in un circolo ricreativo del quartiere Ponticelli di Napoli. Oggi, nel corso dell’udienza, si sono susseguite le arringhe delle difese degli imputati. La prossima e ultima tappa del processo, che é stato celebrato con il rito abbreviato dinnanzi il gip Luana Romano, dovrebbe coincidere anche con la sentenza: il 28 settembre saranno chiamati a concludere due legali, tra cui l’avvocato Carmine Danna, che difende Luisa De Stefano e Vincenza Maione. Poi sono previste le repliche e, infine, il verdetto.

Cronache della Campania@2019


Indagine Consip, l’ex ministro Lotti davanti al gup: “Nessuna rivelazione”

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“Oggi ho chiesto di essere ascoltato e interrogato dal Gup e dall’Accusa che nel dicembre 2018 ha chiesto per me il rinvio a giudizio per un presunto favoreggiamento, nell’ambito della cosiddetta inchiesta Consip”. Ha scritto il parlamentare ed ex ministro dello Sport, Luca Lotti, sul suo profilo Facebook. “Al netto degli aspetti giuridici magnificamente illustrati dal professor Coppi e dall’avvocato Molinaro (giuridicamente non esiste il favoreggiamento di un non indagato) c’è un punto: io NON ho mai detto a Marroni che c’era un’indagine su di lui. Notizia di cui proprio non ero a conoscenza. Questi sono i fatti, incontrovertibili”, aggiunge Lotti. “Chi crede nella giustizia non può che aspettare che la verità dei fatti emerga. Chi vuol fare processi mediatici faccia pure, ma la verità la stabiliscono le sentenze non i retroscena giornalistici. Io vado avanti a testa alta”. Lotti, stamane ha preso parte all’udienza preliminare che lo vede imputato insieme agli ufficiali dei carabinieri e al papà dell’ex premier Matteo Renzi per la fuga di notizie durante le indagini sulla Consip. Lotti ha sostenuto dinanzi al Gup Clementi Forleo che dovrà decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio per favoreggiamento nei lupo confronti: “Escludo categoricamente” di aver mai detto nulla dell’indagine Consip all’ex amministratore delegato Luigi Marroni. Completo blu, camicia bianca, l’ex ministro, fedelissimo di Matteo Renzi, ha parlato nel corso dell’udienza preliminare, sottolineando che con Marroni i rapporti sono sempre stati formali, senza confidenze, e soprattutto, nell’estate del 2016, non aveva le informazioni che la procura di Roma lo accusa di aver fornito al manager: “Non potevo rivelare ciò che non sapevo”, spiega al giudice il dem, che dal Pd si è autosospeso dopo il recente scandalo nomine. Il pm Mario Palazzi ha rinnovato in aula la richiesta di rinvio a giudizio per le sette persone coinvolte nell’inchiesta, e Lotti parla oltre un’ora delle accuse a lui rivolte. Poi, prima di lasciare il tribunale, si è fermato pochi minuti con i cronisti e tornando sulla vicenda Csm: “Non mettevo bocca sulle nomine nelle procure – ribadisce -. Ho letto sui giornali che c’erano relazioni con la procura di Roma ma queste non ci sono mai state, tanto è vero che la richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti (su Consip ndr) è stata fatta e abbiamo iniziato l’udienza preliminare. Ho già smentito nei giorni scorsi le ricostruzioni lette su questa vicenda: l’ho detto e scritto nei post in maniera chiara”. L’iscrizione di Lotti nel registro degli indagati, nell’ambito dell’inchiesta sulla centrale acquisti della Pa, risale al 21 dicembre del 2016, il giorno dopo l’audizione, davanti ai pm di Napoli, John Woodcock e Celeste Carrano, nella quale il ‘grande accusatore’ Marroni ammise di aver saputo dall’allora ministro, dell’indagine e di una cimice installata nel suo ufficio. Il fascicolo passò subito a Roma per competenza e il 27 dicembre Lotti si presentò a Piazzale Clodio per essere sentito dagli inquirenti. Con lui, rischiano il processo l’ex presidente di Pubbliacqua Firenze, Filippo Vannoni, indagato per favoreggiamento, l’ex comandante generale dei Carabinieri Tullio Del Sette (rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento) e il generale dell’Arma Emanuele Saltalamacchia (favoreggiamento). Coinvolti anche l’ex carabiniere del Noe, Gianpaolo Scafarto accusato di rivelazione del segreto, falso e depistaggio, l’ex colonnello del Noe Alessandro Sessa (depistaggio) e l’imprenditore Carlo Russo, che risponde di millantato credito. 

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Pizzo ai commercianti di Ponticelli: in cella Carmine Bosso del clan Aprea-Cuccaro

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Napoli. Estorsioni ai commercianti di Ponticelli e Barra: finisce in cella Carmine Bosso, 54 anni, ritenuto affiliato al clan Aprea-Cuccaro. Il personale del Commissariato Polizia di Stato Ponticelli ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal GIP del Tribunale di Napoli su richiesta dalla Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti dell’uomo gravemente indiziato di estorsione e tentata estorsione aggravate dal metodo mafioso e dall’agevolazione dell’organizzazione criminale di appartenenza. Le indagini, si legge nel provvedimento cautelare, costituite, prevalentemente, dall’acquisizione delle immagini dei sistemi di videosorveglianza di alcuni esercizi commerciali e dei “cattura targhe”, danno atto che l’indagato, già legato al clan Aprea/Cuccaro operante nel quartiere di Barra, sia l’autore delle “canoniche” estorsioni di Pasqua e Natale nei confronti dei commercianti di Ponticelli, territorio che ha subito, negli ultimi anni, continui mutamenti degli equilibri criminali in seguito ai numerosi arresti effettuati nei confronti degli esponenti delle organizzazioni che si sono succedute nel tempo –clan D’Amico“fraulella”, clan De Micco, clan Minichini/De Luca Bossa. In seguito al momentaneo vuoto di potere, le organizzazioni criminali operanti sui territori limitrofi hanno cercato di espandersi nel quartiere di Ponticelli affermando la propria supremazia. L’uomo è stato bloccato questa mattina nella sua abitazione di Barra.

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Camorra, Romano fu eliminato dall’amico ‘Cicciariello’ Russo per volere di Riccio e Cerrato

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Nella giornata di ieri, la Squadra Mobile di Napoli ha dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare che ha disposto il carcere per due indagati, emessa dal GIP presso il Tribunale di Napoli, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia, nei confronti dei soggetti ritenuti responsabili dell’omicidio di Mirko Romano, avvenuto in Melito il 3.12.2012. Le attività di indagine, fondate su dichiarazioni di collaboratori di giustizia, intercettazioni ed un’ampia messe di riscontri, hanno consentito di ricostruire il mandante e l’esecutore di un omicidio di epurazione interna, deciso dai vertici del clan Amato Pagano per eliminare una delle figure di spicco della consorteria Mirko Romano, entrato nel clan nel pieno della Seconda faida di Scampia, era divenuto il killer prediletto dai capi. Costui era indicato all’interno del clan come “l’Italiano” perché usava esprimersi sempre in lingua, mai in dialetto ed in modo corretto, circostanza che lo distingueva dagli altri affiliati, caratteristiche che, unitamente alla calma glaciale, alla compostezza ed all’assenza di tracotanza verso i più giovani affiliati ne facevano un personaggio dalla storia singolare. Killer efficiente e spietato, nei mesi più caldi della c.d. terza faida di Scampia, (autunno 2012) Romano vedeva deteriorarsi il suo rapporto con i capi clan, a causa della sua crescente insofferenza alle imposizioni di Mariano Riccio e di Carmine Cerrato. La sua aperta critica alla gestione di costoro, la capacità di assumere decisioni in autonomia e soprattutto il prestigio di cui godeva verso numerosi affiliati, lo rendevano in breve “poco affidabile” e quindi pericoloso, perché avrebbe potuto, in caso di arresto, collaborare con la giustizia, ovvero porsi a capo di un’ulteriore frangia di scissionisti. Mariano Riccio e Carmine Cerrato decretavano quindi la morte di Mirko Romano. Incarico eseguito da Francesco Paolo Russo detto “cicciriello” figlio di Ettore Russo noto esponente del clan Cesarano di Pompei e che da tempo si era trasferito a Scampia, killer emergente, di cui il Romano si fidava, in quanto il giovane Russo si collocava da tempo tra gli uomini più vicini alla vittima. Romano veniva attirato in una trappola ed ucciso dal Russo, il corpo quindi abbandonato ai margini della strada dove veniva rinvenuto dai Carabinieri la mattina del 3.12.2012. Da quel momento il Russo diveniva il killer di riferimento del Riccio nonché responsabile del settore degli stupefacenti. Il tradimento dell’amico collocava temporaneamente il Russo ai vertici della compagine, in un’effimera parabola che si chiudeva prima con la marginalizzazione da parte del Riccio, sempre sospettoso delle figure emergenti, e quindi con l’arresto.

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La Corte di Assise, no alla richiesta di proscioglimento per ex Ad Eternit

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La Seconda Corte di Assise di NAPOLI ha respinto la richiesta di proscioglimento motivata avanzata lo scorso 31 maggio dall’avvocato Astolfo Di Amato, difensore dell’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, imputato a NAPOLI per l’omicidio volontario di otto persone (sei dipendenti dello stabilimento Eternit di Bagnoli e due loro familiari). Le motivazioni della decisione sono state lette all’inizio dell’udienza dal presidente Alfonso Barbarano che ha poi aperto la fase dibattimentale con le richieste dei mezzi istruttori. Soddisfazione e’ stata espressa dagli avvocati delle associazioni ‘Osservatorio nazionale amianto’ e ‘Mai piu’ Amianto’, Flora Abate e Elena Bruno.

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‘Ndrangheta in Emilia Romagna, sgominata la cosca Grande Aracri: il presidente del consiglio comunale di Piacenza favoriva il boss

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La ‘Ndrangheta è ancora ‘viva’ in Emilia Romagna: lo dimostra l’operazione ‘Grimilde’ che ha portato all’arresto di 16 presunti esponenti della cosca Grande Aracri di Cutro. Già l’indagine ‘Aemilia’ aveva portato alla luce la capacitaà della ‘Ndrangheta di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale dell’Emilia, mostrando per la prima volta la potenza criminale della cosca Grande Aracri di Cutro. Stamane più di 300 agenti di polizia tra Parma, Reggio Emilia e Piacenza, coordinati dallo Sco (Servizio centrale operativo), hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti della cosca calabrese. Tra i destinatari delle misure di custodia cautelare chieste dalla pm della Dda di Bologna Beatrice Ronchi ed emesse dal Gip Alberto Ziroldi – 16, di cui 13 in carcere e 3 ai domiciliari, mentre gli indagati sono 76 – c’e’ anche il boss Francesco Grande Aracri (fratello del più noto Nicolino), oltre ai figli Salvatore e Paolo. Francesco Grande Aracri, già condannato per associazione mafiosa in passato, viveva a Brescello, in provincia di Reggio Emilia. Secondo gli investigatori lui e i figli erano a capo del gruppo criminale, i cui appartenenti sono responsabili a vario titolo di titolo di associazione di stampo mafioso, estorsione, tentata estorsione, trasferimento fraudolento di valori, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, danneggiamento e truffa aggravata. In carcere è finito anche il presidente del Consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso, di Fratelli d’Italia, che secondo il gip “ha un ruolo non secondario nella consorteria”. “Il coinvolgimento personale di Caruso risale a quando era dipendente dell’Agenzia delle Dogane di Piacenza – ha spiegato il procuratore capo di Bologna, Giuseppe Amato – non riguarda il suo ruolo politico”. Fdi, appena appresa la notizia, ha sollevato Caruso dai suoi incarichi. Caruso, per il Gip, avrebbe “messo stabilmente a disposizione le prerogative, i rapporti professionali e amicali e gli strumenti connessi al proprio lavoro di dipendente dell’ufficio delle Dogane di Piacenza per il perseguimento degli interessi” del sodalizio ‘ndranghetistico. “Perché io ho mille amicizie, da tutte le parti, bancari, oleifici, industriali – diceva il politico parlando con un’altro indagato mentre era intercettato nel 2015 – tutto quello che vuoi… quindi io so dove bussare…”. E ancora, mentre parlava con il fratello Albino, anche lui arrestato: “Io con Salvatore (Grande Aracri, ndr) gli parlo chiaro, gli dico… Salvato’, non la dobbiamo affogare sta azienda, dobbiamo cercare di pigliare la minna e succhiare o no?”. Il riferimento è alla ‘Riso Roncaia Spa’, azienda mantovana che si era rivolta all’organizzazione, finendo poi nelle sue grinfie e coinvolta in una presunta truffa su un finanziamento Agea.
Il caso di un’azienda del Mantovano la Riso Roncaia Spa è una delle tematiche al centro dell’indagine della Dda di Bologna. Una vicenda, ha ricostruito il gip, che si inquadra nella capacità della cellula emiliana “di condizionamento di un’impresa in situazione di difficoltà finanziaria”. Dagli atti dell’inchiesta si rileva che i Roncaia gravati da debiti avevano chiesto aiuto a Giuseppe Caruso (attuale presidente del consiglio comunale di Piacenza) e al fratello Albino. Da una conversazione telefonica del giugno 2015 tra Claudio Roncaia e Giuseppe Caruso emerge come quest’ultimo “attribuisse a sé e al proprio gruppo – scrive il gip – il merito sia della risoluzione della problematica Unicredit”, verso cui c’era un debito, (“hai visto come ci muoviamo?”) e sia “della posizione dei Roncaia divenuta favorevole all’interno dell’Unicredit grazie all’intervento determinante di un soggetto di spessore portato dai Caruso”. In seguito “si comprendeva – scrive il gip – che il personaggio intervenuto per risolvere le problematiche dei Roncaia era l’allora amministratore delegato di Unicredit, Ghizzoni”. Nell’ordinanza e’ citata un’altra intercettazione del dicembre 2015 in cui parla un dirigente della Riso Roncaia che “confermava – si legge nell’ordinanza – l’intervento del Ghizzoni per l’estinzione del debito”. “E’ stato Ghizzoni, ha fatto intervenire – questo il testo dell’intercettazione riportata negli atti – l’ufficio legale di Unicredit”. C’è però da dire che Federico Ghizzoni non risulta indagato e secondo gli investigatori è possibile che le persone intercettate coinvolte nell’inchiesta stessero millantando la sua conoscenza.
Giuseppe Caruso, il presidente del consiglio comunale di Piacenza arrestato, è un politico molto noto a Piacenza, dove da anni milita nella destra locale. Consigliere comunale d’opposizione dal 2002 al 2012 per Alleanza Nazionale prima e poi per il Popolo delle Libertà, è quindi entrato in Fratelli d’Italia. Presente a tutte le iniziative di partito, è uno dei volti più noti di Fratelli d’Italia e abita a Piacenza da più di 30 anni. Nel suo curriculum impieghi come consulente del lavoro, revisore dei conti, analista programmatore, infine dipendente dell’Amministrazione delle Dogane. Alle elezioni comunali del 2017, in cui poi vinse il centrodestra con l’attuale amministrazione Barbieri, ottenne 155 preferenze che gli permisero l’ingresso in consiglio comunale e di essere proposto da Fdi, che aveva ricevuto in giunta un solo assessore, come candidato alla presidenza del consiglio comunale. “Ribadiamo la totale estraneità dell’amministrazione e del Comune di Piacenza da questa vicenda, per cui non accettiamo alcun tipo di bassa speculazione politica, e valuteremo ogni azione a tutela del buon nome e della trasparenza dell’attività dell’Ente”. Così il sindaco Patrizia Barbieri interviene sull’arresto per ‘Ndrangheta del presidente del Consiglio comunale. “La notizia del coinvolgimento nell’indagine antimafia di Giuseppe Caruso, comunque non nell’ambito della sua attività politica o amministrativa, ma espressamente legata al suo ruolo di funzionario dell’Agenzia delle Dogane e alla sua attività professionale privata – dice il sindaco – ci ha lasciato sconcertati e profondamente scossi. Nell’esprimere il grande apprezzamento per l’operazione delle forze dell’ordine e massima fiducia nell’azione della magistratura, riaffermiamo la massima condanna per ogni tipo di mafia, che combattiamo e combatteremo sempre con il massimo impegno e con tutte le nostre forze”.

Cronache della Campania@2019

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