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Non è la trattativa Stato-Mafia di Palermo ma a livello napoletano è una trattativa inquietante tra la camorrastragista quella del clan Gionta di Torre Annunziata e un pezzo di Stato corrotto: una parte dei carabinieri del comando gruppo di Torre annunziata. A raccontarla ieri nell’aula del Trubunale di Torre Annunziata, è stato il boss Francesco Casillo,detto a vurzella, noto narcotrafficantedel Piano Napoli di Boscoreale con legami con i clan di Secondigliano. Il boss ha raccontato i suoi legami e i suoi affari con un pezzo di Stato corrotto. E tra gli episodi citati c’è stato quello dell trattativa avvenuta il 6 giugno del 2008 durante le concitate fase delle indagini seguite alla rapina sfociate nel sangue all’ufficio postale di Pagani dove fu ucciso il tenente dei carabinieri Marco Pittoni. Quel giorno il clan Gionta si rivolse a lui per nascondere Carmine Maresca, appena 16enne e figlio del killer giontiano Luigi ‘o trippone, e che era colui che aveva ucciso Pittoni nel corso della rapina. “Chiesi a Orazio Bafumi 8uno dei suoi fedelissimi ndr) di accompagnarlo a Sabaudia. Poi i carabinieri vennero da me, trattai con Palazzo Fienga e alla fine, tramite un affiliato, ottenni il nulla osta da Gemma Donnarumma, la moglie di Valentino Gionta. Parlai con la mamma del ragazzo e lo feci consegnare”. Il boss oltre all’episodio della trattativa, come riporta Il Mattino, ha anche parlato di due episodi di corruzione. Quello in cui ha tirato in ballo il maresciallo Francesco Vecchio, oggi in congedo, assolto in abbreviato: “Lui e Desiderio irruppero in un ristorante di Napoli per arrestare Vincenzo Pisacane, un latitante del clan Gionta. Eravamo al tavolo insieme con i suoi avvocati, ma promisi a Vecchio 40mila euro per non arrestarmi di nuovo, ero stato appena scarcerato. Mi fece andare a casa senza problemi”. Una versione confermata anche dai verbali dell’arresto di Pisacane, ritenuto il cassiere dei Gionta in cui il nome di Casillo non compare mai.
Poi ha raccontato del maxi sequestro di droga nel porto di Napoli. A gennaio 2009, ha raccontato Casillo, “per far fare bella figura ai carabinieri mi accordai con i carabinieri per far ritrovare un container carico di cocaina e chiede la restituzione di metà della droga. Erano 300 chili me ne hanno restituiti solo 66”.
Cronache della Campania@2018
Il figlio di Bidognetti si dissocia dal clan e parla con la Dda. Raffaele, il secondo figlio del gota dei Casalesi, ha deciso di collaborare con la giustizia dopo la scelta fatta da Nicola Schiavone. Un altro figlio che decide di chiudere con la camorra. Secondo quanto riporta ‘Il Mattino’ questa mattina in un servizio a firma di Marilù Musto, anche Raffaele Bidognetti, figlio del capoclan Francesco detto Cicciotto e mezzanotte, avrebbe deciso di rinnegare il clan dei Casalesi ed iniziare a parlare coi magistrati della Direzione distrettuale antimafia. Il primo incontro ci sarebbe stato una ventina di giorni fa e questo sarebbe il primo passo verso un nuovo pentimento eccellente. Prima di lui, infatti, aveva seguito la stessa strada Nicola Schiavone, figlio di Francesco detto Sandokan, che da quasi un anno ha iniziato a parlare coi magistrati della Dda raccontando i segreti ancora nascosti del clan dei Casalesi.
Cronache della Campania@2018
Carburante di contrabbando: il nuovo business del clan dei Casalesi. E’ quanto emerge da un recente rapporto della Guardia di Finanza sulle mafie. In base ad attività investigative, nel corso di operazioni di sequestri preventivi di beni effettuati dalle Fiamme Gialle (oltre un milione e mezzo di euro solo nel 2018) alla camorra, salta fuori che il nuovo affare criminale dei clan campani che frutta soldi ‘facili’, oltre alla droga e al gioco illegale è il gasolio di contrabbando. Dalla Polonia arriverebbero carichi di carburante illegale che seguono varie rotte per giungere in Italia. Un’economia parallela che nasconde nomi di società di comodo per favorire i traffici illeciti del clan dei Casalesi. Questo è stato confermato anche da due importanti sequestri effettuati, alcuni mesi fa, dai militari della Finanza al confine col Brennero (oltre 55mila litri di gasolio) ed a Castel Volturno (Caserta): entrambi erano provenienti dalla Germania attraverso il territorio polacco.. In particolare, nel territorio casertano, oltre al rinvenimento di circa 90mila litri di olio lubrificante per auto, è stata scoperta e sequestrata una fabbrica abusiva di imbottigliamento dell’olio che sarebbe finito nei motori di innumerevoli auto.
Cronache della Campania@2018
Sono stati filmati nella fase di preparazione poi durante l’esecuzione e poi intercettati dopo l’agguato i sette esponenti del clan D’Amico Mazzarella fermati dalla Da di Napoli con l’accusa di essere mandanti e d esecutori materiali dell’omicidio di Luigi Mignano, cognato del boss del rione Villa, Ciro Rinaldi detto mauè , e del ferimento di Pasquale Mignano, figlio della vittima. A sparare la mattina del 9 aprile scorso fu Ciro Rosario Terracciano di 27 anni. E’ quanto emerge dalle 64 pagine del decreto di fermo emesso dai pm Antonella Fratello e Simona Rossi della Dda di Napoli. La decisione di uccidere Mignano era stata dei due reggenti della cosca di via nuova Villa quelli del “vicariello” come vengono chiamati gli affiliati ai D’Amico. Ovvero Umberto D’Amico di 29 anni detto o’ lione e Salvatore Luongo di 42 anni. Il primo è il fratello minore dei ‘Gennarelli’: Salvatore detto o ‘ pirata, il capo clan, e di Luigi e Renato, tutti attualmente detenuti. Gli altri fermati secondo le accuse cono Salvatore Autiero detto Savio di 37 anni perchè “partecipe alle fasi esecutive in quanto svolgeva funzione di appoggio per gli esecutori materiali anche consentendo loro la fuga e metteva a disposizione uno dei veicoli utilizzati per l’agguato; Gennaro Improta di 43 anni e Giovanni Musella detto ‘Giuann che lent’ di 38 anni perchè ” partecipi alle fasi esecutive in quanto fungevano da staffetta per gli esecutori materiali assicurandone anche la fuga e provvedevano alla distruzione del ciclomotore utilizzato per l’agguato”. E infine Giovanni Borrelli detto ‘Quagliarella’ di 50 anni che si è occupato della distruzione dell’arma utilizzata per l’agguato.
Cronache della Campania@2018
E’ una guerra senza fine quella tra i Rinaldi e i Mazzarella-D’Amico per il predominio delle attività illecite nella zona di San Giovanni a Teduccio. Ove mai ve ne fosse ancora bisogno ne sono la testimonianza evidente le intercettazioni contenute nel decreto di fermo dei pm Antonella Fratello e Simona Rossi della Dda di Napoli che stamane ha portato in carcere i due vertici, killer e gregari del clan D’Amico -Mazzarella per l’omicidio di Luigi Mignano, cognato del boss Ciro Rinaldi mauè, ucciso al rione Villa il 4 aprile scorso. La figlia Rita (che non è indagata) arrivata sul luogo dell’agguato nel corso del quale era stato ferito anche il fratello Pasquale, aveva urlato in dialetto napoletano: “ci dobbiamo mettere le bombe addosso e dobbiamo andare nel vicariello”. Per “Vicariello” è inteso via Nuova Villa dove abitano i nemici dei D’Amico “Gennarelli”. Ma non è finita perché le evidenti tensioni tra le due famiglie malavitose vengono confermate nell’intercettazione (contenuta sempre nel decreto di fermo) negli uffici della questura e la protagonista è, ancora una volta Rita Mignano, che in evidente stato di agitazione e covando vendetta nei confronti dei D’Amico, fa esplicitamente riferimento, nuovamente, al vicariello: ” …… le figlie di quella di dietro il “vicariello …. domani mattina alle sette sto fuori .. al circolo .. io ….” Ed è la madre Maria Rinaldi a redarguirla, rappresentandole che non vuole problemi perché ha ancora due figli maschi: “Rita siediti qua muoviti …. io ho ancora due figli maschi …”. Dall’intercettazione ambientale si ricava, poi, conferma della dinamica dell’agguato, in quanto fanno riferimento a due soggetti giunti in sella un ciclomotore che, dopo aver colpito al petto Luigi Mignano, hanno continuato a sparare ad altezza uomo. Aggiungono che il bambino era riuscito a salire in macchina.
Cronache della Campania@2018
Napoli. Era libero dopo alcuni mesi di carcere nonostante una condanna in primo grado a tre anni per una sparatoria commessa a Nocera, Ciro Rosario Terracciano, 26 anni, è consegnato alle storie di camorra come il “killer dello zainetto”. Ovvero colui che il 4 aprile scorso ha ucciso Luigi Mignano, cognato del boss del rione Villa, Ciro Rinaldi detto mauè, davanti al nipotino che stava accompagnando a scuola. In quell’occasione ferì anche il figlio Pasquale e rischiò di colpire anche ilk piccolo. Terracciano, che ha tatuato sul corpo il nome dei D’Amico, da ieri è tornato in carcere dopo che nel 2017 era stato arrestato per una “sparatoria in prestito” fatta agli amici di Nocera del gruppo camorristico dei fratelli Cuomo in quel periodo impegnati in una faida cittadina per il controllo delle piazze di spaccio. Con Terracciano sono stati arrestati altre sei dei suoi complici di quel delitto tra cui i due reggenti attuali del clan D’Amico: Umberto D’Amico o’ lione nipote del boss Salvatore o’ pirata e Umberto Luongo. Nel decreto di fermo dei pm Antonella Fratello e Simona Rossi della Dda di Napoli sono contenute le intercettazioni ambientali, le dichiarazioni di alcuni pentiti e le testimonianze dei familiari della vittima. Tra cui quella del figlio Pasquale, rimasto ferito nell’agguato: “Ho parlato con gli agenti della Volante nell’immediatezza dei fatti in ospedale -spiega il ferito ai magistrati che lo interrogano-ma non ricordo di aver detto che i due che hanno sparato avevano dei caschi a ‘padella’ con il volto scoperto e con la barba né che io sarei stato in grado di riconoscerli. Ho visto solo due persone su un motorino e ho cominciato a fuggire. Mio figlio era già entrato in macchina lato passeggero davanti. Mio padre ha aperto la portiera per far entrare mio figlio. lo stavo facendo il giro intorno alla macchina per entrare dal lato guida. Ero arrivato dietro alla macchina quando ho sentito gli spari e ho visto mio padre indietreggiare. Sono indietreggiato anche io. Mi sembra che lo zainetto di mio figlio lo avesse mio padre in mano. Mio figlio, durante l’esplosione dei colpi, è rimasto in macchina. L’ho recuperato e portato a casa solo dopo che l’esplosione era finita e mio padre era già a terra…. Il ciclomotore con gli autori della sparatoria proveniva dal lato posteriore del veicolo da via Sorrento e i colpi sono stati esplosi prima da dietro rispetto alla posizione della mia macchina. Il ciclomotore ha poi proseguito verso Barra… dopo i primi colpi non ho capito più niente. Non ho visto se i due sullo scooter hanno proseguito o si sono fermati a sparare… quando ho visto mio padre, dopo essere stato colpito, stava con la pancia in su. Forse si è accasciato al suolo mentre indietreggiava dopo che è stato colpito. hanno sparato molti colpi. Non ho visto se a sparare sia stato uno solo o tutti e due. Avevano un casco integrale. Anzi non lo so, non sono proprio riuscito a vederli. ho visto un solo scooter nero. Mi sembra un SH ma non ricordo bene. Effettivamente agli agenti della Volante ho detto che era un SH ma ora non ricordo che modello era. Solo che era nero o comunque di un colore scuro. Stamattina sono sceso con mio padre e mio figlio per accompagnare mio figlio a scuola. Poi io e mio padre dovevamo andare alla ASL per l’esenzione dei bambini. Mio padre aveva un tumore benigno alla faccia e doveva essere operato. non pensavamo di dover temere ritorsioni nei nostri confronti per l’appartenenza di mia madre alla famiglia Rinaldi perché noi siamo persone perbene. Non abbiamo mai manifestato in famiglia tali preoccupazioni. mio padre ha accompagnato mio figlio a scuola in questi mesi solo un paio di volte. Di solito però usciva di casa verso le 9.30-10.00 per andare a vendere le cose come ambulante. Oggi è stato un caso che sia sceso prima. non so come abbiano fatto a sapere che mio padre sarebbe uscito prima stamattina. ieri sera sono tornato a casa verso le 18. 00 e mio padre era già li. Non è più uscito di casa. non ho notato ieri sera movimenti strani”.
Cronache della Campania@2018
Minacce a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione, fissata per il 4 giugno, l’udienza preliminare dinanzi al tribunale di Roma, dinanzi giudice Livio Sabatini, a carico del boss Francesco Bidognetti e due avvocati Michele Santonastaso ex difensore di camorristi, e Carmine D’Aniello. Dopo che, nell’ottobre del 2017, è stata dichiarata nulla la sentenza di primo grado dalla Corte di Appello di Napoli (presidente Fernando Giannelli, relatore Fabiana Mastrominico) per incompetenza territoriale, il procedimento è passato a Roma. Michele Santonastaso, ora libero, è stato l’unico ad essere condannato in primo grado alla pena di un anno di reclusione per le minacce alla giornalista del Mattino Rosaria Capacchione e allo scrittore Roberto Saviano, autore del libro Gomorra. Il processo doveva essere celebrato a Roma perché nel testo dell’istanza (secondo le indagini della Dda di Napoli) letta da Santonastaso in aula – durante il procedimento di Appello denominato Spartacus contro il clan dei Casalesi – sono stati inseriti anche i nomi dei magistrati di Napoli e Santa Maria Capua Vetere che hanno occupato un ruolo di primo piano nella lotta al crimine organizzato dell’area casertana. Per i giudici, dunque, il processo è stato spostato a Roma perché la procura di competenza per i magistrati citati è quella romana. L’eccezione è stata sollevata in secondo grado dai legali difensori di Santonastaso, Mauro Iodice e Rizziero Angeletti. L’istanza è stata letta da Santonastaso nel 2008 a firma dei boss Antonio Iovine, ora collaboratore di giustizia, e Francesco Bidognetti. Entrambi poi assolti “per non aver commesso il fatto”. La sentenza di primo grado emessa dalla terza sezione del Tribunale di Napoli ha già assolto anche l’avvocato Carmine D’Aniello. Santonastaso, invece, è stato condannato non solo alla pena di un anno di reclusione, ma anche al pagamento del risarcimento dei danni a favore di Saviano, Capacchione e dell’Ordine dei giornalisti della Campania, che si sono costituiti parte civile, nonchè ad una provvisionale di 20 mila euro alla giornalista. Il pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro al termine della requisitoria chiese la condanna a un anno e sei mesi per Santonastaso, Bidognetti e D’Aniello. Oltre alle minacce aggravate dal metodo mafioso a carico degli imputati la procura napoletana ha previsto pure il reato di diffamazione poi derubricato.
Cronache della Campania@2018
Qualche giorno dopo l’agguato del rione Villa del 4 aprile scorso in cui fu ucciso Luigi Mignano, cognato del boss Ciro Rinaldi mauè, e ferito il figlio Pasquale, il reggente della cosca nemica dei D’Amico ovvero Umberto Luongo dialogando con i suoi affiliati in merito a quello che stava accadendo al rione Villa spiega: “…A Pasqua deve entrare una cosa di soldi … e poi una volta passato questo mese cominciamo a dettare legge”. E per dimostrare a chi lo ascoltava il suo carisma e la sua leadership all’interno del clan dice: ” …io sono il Luongo Umberto di una volta …”. Ma secondo i due pm che hanno deciso il fermo dei sette del clan la “determinazione ancora manifestata da Luongo Umberto nel proseguire la strategia armata” è contenuta nella frase “non è finita qua” . Cioè eliminare ulteriori esponenti dei gruppi camorristici rivali delle famiglie Reale/Rinaldi, insediati al rione Pazzigno. E non a caso dice: “ora devo attaccare a quello nel Pazzigno”. Poi spiega la sua strategia: ” .. Noi ci muoviamo con il cervello siamo compatti , tutti quanti noi ( … ) se a me mi arrestano, arrestano anche a te( … ) … qua siamo “padre. figliolo e spirito santo .. ” e rivolgendosi ad lmprota Gennaro … perché tu il fermo lo tieni con me” intendendo riferirsi ad un controllo di polizia in strada. Gli interlocutori si soffermano, poi, sulla circostanza che Salomone Salvatore etto “Ciù Ciù “, cugino di Umberto D’Amico, all’indomani dell’omicidio, abbia chiuso, per paura di ritorsioni, il bar da lui gestito. Sul punto Luongo afferma, sostenuto da Umberto ‘o Lione, che dovrà, invece, riaprire subito l’esercizio commerciale in quanto, restando inattivo, lascia, facilmente, intuire il coinvolgimento nell’omicidio proprio del gruppo D’Amico – ” .. fai capire che siamo stati noi ! …”.
L’attenzione degli interlocutori si sposta, poi, sul concreto rischio, all’indomani dell’omicidio, di essere maggiormente oggetto di intercettazioni ambientali “‘ …se prendiamo l’omicidio ciascuno siamo saltati… dove andiamo più! … “, e concordano sull’opportunità dì evitare di parlare tra loro dell’agguato.
Cronache della Campania@2018
Al via il processo di Appello per Giancarlo Iovine, imprenditore di San Cipriano d’Aversa, accusato di aver partecipato alla strage dei cutoliani, avvenuta 30 anni fa, in cui perse la vita il luogotenente cutoliano Antonio Pagano, ucciso la sera del 22 ottobre del 1989 insieme ad altre tre persone: Giuseppe Orsi, Giuseppe Gagliardi e Giuseppe Mennillo.
A riferirlo è Cronache di Caserta. Per il bagno di sangue Iovine è stato condannato, in primo grado. L’imprenditore era stato tirato in ballo da Antonio Iovine, “o’Ninno”, aveva riferito che Giancarlo Iovine, imprenditore titolare di un consorzio agrario a San Cipriano d’Aversa, si mise a disposizione del commando omicida che poi uccise Pagano e i suoi 3 uomini. Proprio il consorzio di Giancarlo Iovine sarebbe stato utilizzato come base per gli appostamenti dei sicari del clan, dato che Pagano era andato a vivere nelle sue vicinanze dopo la scarcerazione.
Cronache della Campania@2018
Napoli. Arriva la condanna all’ergastolo per il boss Cosimo Di Lauro. I giudici della Corte d’Assise di Napoli hanno riconosciuto il ras di Secondigliano, figlio Di Paolo Di Lauro, soprannominato “Ciruzzo ‘o milionario”, colpevole Di avere ordinato l’agguato in cui mori’ Mariano Nocera, ritenuto affiliato alla famiglia scissionista degli Abbinante. L’omicidio si consumò nel settembre del 2004, un mese prima dell’agguato mortale a Fulvio Montanino e Claudio Salierno che sancì l’inizio della prima faida Di Scampia e Secondigliano tra i Di Lauro e l’ala scissionista guidata dagli Amato-Pagano. La Corte ha accolto le richieste avanzate dai pubblici ministeri dell’Antimafia Maurizio De Marco e Alessandro D’Alessio.
Cronache della Campania@2018
Vanno dai 6 mesi ai 10 anni le sei condanne per estorsioni con l’aggravante camorristica comminate, oggi, dal gup del tribunale di Napoli nei confronti di altrettanti esponenti del clan dei Casalesi. Tra questi, anche il pentito Attilio Pellegrino condannato a 6 mesi in quanto beneficiario della legge sui collaboratori di giustizia e perché si trattava di un reato commesso in continuazione con un altro procedimento per camorra già sentenziato in precedenza. La pena più alta è stata irrogata a Paolo Bianco. Il verdetto con il rito abbreviato emesso oggi al termine dell’udienza davanti al gup, riguardava una serie di estorsioni commesse alcuni anni fa in provincia di Caserta e nell’ agro aversano, poi scoperte dalla Procura antimafia, ai danni di attività commerciali. Il pubblico ministero aveva chiesto per gli imputati pene leggermente più alte.
Cronache della Campania@2018
Il Comune di Orta di Atella ed alcuni proprietari degli immobili si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare a carico di 62 indagati per gli abusi edilizi commessi negli anni in cui l’ex sindaco Angelo Brancaccio guidava l’amministrazione comunale atellana. Gli avvocati difensori degli imputati hanno sollevato eccezione di incompetenza territoriale del tribunale di Napoli Nord e per questo motivo il gup Valentina Giovanniello ha rinviato l’udienza di un paio di settimane per poter decidere in merito.
Nel mirino della Procura sono finiti l’ex sindaco Angelo Brancaccio, Arcangelo Ammirato (amministratore della Polar Costruzioni), Raffaele Apicella di Casal di Principe, Domenico Aprovitola, amministratore della Aprovitola Group; Giuseppe Aprovitola, 53 anni, di Giugliano; Michelina Brancaccio di Orta di Atella, Nicola Arena di Orta di Atella, Andrea Cacciapuoti di Giugliano, Raffaele Capasso di Grumo Nevano, Francesco Cennamo amministratore della Francesco Cennamo Costruzioni; Olimpia Ciccarelli di Casal di Principe, Vincenzo Ciccarelli di Succivo, comproprietario della Ital Casa Immobiliare; Antonio Ciccarelli; Gennaro Ciccarelli; Raffaele Clemente, socio della Meta Sud; Errico Colucci di Casoria; Tommaso Comunale di Orta di Atella; Domenico Concilio di Giugliano, amministratore della S.Edil Vet; Isidoro Concilio, socio della Concilio group; Roberto Concilio, socio della Concilio group; Anna Immacolata Conte di Orta di Atella; Arturo Conte di Orta di Atella, Paolo D’Alterio, socio della Meta Sud; Nicola D’Ambrosio di tra di Atella; Annunziata Del Prete di Orta di Atella; Arcangelo Del Prete di Orta di Atella; Stefano Del Prete di Orta di Atella, Vincenzo Del Prete di Orta di Atella; Carmela Costanzo di Orta di Atella; Salvatore Di Costanzo di Orta di Atella; Gennaro Di Gennaro amministratore unico della Caporale srl; Alfonso Di Gorgio di Orta di Atella; Giosuè Di Giorgio di Orta di Atella; Felicia Di Giorgio di Orta di Atella; Irene Di Santillo di Succivo; Teresa Diana di Casal di Principe; Raffaele Elveri di Orta di Atella; Michele Esposito socio della S. Edil Vet.; Adele Ferrante di Succivo, ex dirigente settore Politiche del Territorio del Comune di Orta; Amalia Iannone, comproprietaria della Italia Casa Immobiliare srl; Eduardo Indaco di Orta di Atella; Nicola Iovinella di Orta di Atella, Antonio Marroccella di Ora di Atella, Giovanni Marsilio di Succivo, Rosa Minichino di Orta di Atella; Eleonora Misso di Ora di Atella; Angelo Mozzllo di Ora di Atella; l’ex sindaco Peppe Mozzillo di Orta di Atella; Antonio Oliviero di Ercolano; Achille Pagano di Aversa; Pasquale Palumbo della Old Group; Vincenzo Palumbo di Portici, Raffaele Passariello di San Felice a Cancello; Antimo Pedata della Italia Group Srl; Eugenia Petescia di Santa Maria Capua Vetere; Domenico Raimo; Claudio Valentino, 62 anni di Casagiove.
Cronache della Campania@2018
Si rivolse ai Casalesi per riscuotere un debito. Per questo motivo il gip D’Auria del tribunale di Napoli ha inflitto 6 condanne ad altrettanti affiliati al clan, appartenenti alla fazione guidata da Michele Zagaria. Il giudice all’esito del processo con rito abbreviato ha inflitto 10 anni a testa a Paolo Bianco, di Casal di Principe, e Giovanni Garofalo, di Casapesenna; 7 anni a Paolo Natale, di Macerata Campania; 9 anni e 4 mesi a Francesco Perna, di Santa Maria Capua Vetere; 9 anni a Tommaso Pirozzi, di Frignano; 6 mesi ad Attilio Pellegrino, collaboratore di giustizia. Secondo quanto ricostruito dall’Antimafia la vittima dell’estorsione avrebbe ricevuto da un imprenditore (che ha scelto il rito ordinario) una fornitura di legno di scarsa qualità, tanto da essere obbligato a risarcire i suoi clienti. Per questo motivo si rifiutò di pagare la somma di 7500. Al rifiuto di saldare il pagamento della fornitura l’imprenditore si rivolse al clan dei Casalesi per riscuotere i suoi crediti.
Cronache della Campania@2018
“Niente di meno se ci giriamo dietro… non sappiamo quanti ce ne stanno (morti) e non ne abbiamo pagato uno”. Erano fieri di aver seminato la morte lungo la zona San Giovanni a Teduccio- Forcella quelli del gruppo D’Amico- Mazzarella in carcere dalla scorsa settimana e autori del delitto di Luigi Mignano, cognato del boss Ciro Rinaldi detto mauè, ucciso il 4 aprile scorso davanti al nipotino al rione Villa e passato alla storia come il “delitto dello zainetto”. Il giudice per le indagini preliminari, Valeria Montesarchio, del Tribunale di Napoli ha convalidato il fermo ed emesso ordinanza di custodia cautelare in carcere per i due boss Umberto D’Amico o’ lione e Umberto Luongo, poi per il killer Ciro Rosario Terracciano, e gli altri affiliati Gennaro Improta, Salvatore Autiero detto Savio, Giovanni Musella detto “Giuann che llente” e Giovanni Borelli detto “quagliarella”. Quest’ultimo, a differenza degli altri, non risponde del reato di omicidio ma di favoreggiamento aggravato dalla matrice camorristica, per essersi disfatto dell’arma usata per il raid. L’agguato si é consumato il 9 aprile scorso al rione Villa a San Giovanni a Teduccio: Luigi Mignano, cognato del boss Ciro Rinaldi avendone spostato la sorella Maria, stava portando a scuola il nipotino. Il giudice per le indagini preliminari, Valeria Montesarchio, ha confermato i provvedimenti di fermo emessi dai pm antimafia di Napoli Antonella Fratello e Simona Rossi (procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli) anche per gli altri sei indagati. Nelle 64 pagine del provvedimento sono contenute una serie di intercettazioni ambientali grazie alle quali si è potuto stabilire i partecipanti e gli organizzatori dell’agguato. In una il boss Umberto D’Amico o’ lione, quest’ultimo, parla con il cugino Salvatore D’Amico ( figlio di Gennaro ), individuato e riconosciuto dalla P.G. anche per la marcata balbuzie. Gli interlocutori commentano che le persone sono spaventate in seguito all’omicidio: ” …non ci sta nessuno in mezzo alla strada, nemmeno vicino al bar c’era nessuno{ … )non ho acchiappato nessun amico mio … “. D’Amico, però, puntualizza, assumendosi, chiaramente, la paternità dell’agguato mortale, che nessuno ha motivo di temere perché « … Noi non abbiamo toccato un bravo ragazzo .. !!” e, dunque, un’eventuale ritorsione da parte del gruppo avversario non potrà che colpire uno di loro e non un bravo ragazzo: “… deve toccare sempre uno di Noi”.
Cronache della Campania@2018
Napoli. Violenza privata, interruzione di pubblico servizio e rapina. Sono le accuse mosse dalla Procura di Napoli a carico di Marco Marrazzo, Vincenzo Masiello, Carlo Laudanno, Antonio Buccino, Filippo Buonadonna, Antonio Bocchetti e Vincenzo D’Avino. In sette sono stati raggiunti da un avviso di conclusione indagini e non è da escludere un loro rinvio a giudizio. Secondo quanto emerso dalle indagini avrebbero letteralmente dirottato un’ambulanza chiedendo di soccorrere un amico, un 17enne rimasto vittima di incidente stradale. Avrebbero minacciato l’equipe medica dell’ospedale Vecchio Pellegrini. Era la notte dello scorso 27 maggio. Emanuele Esposito, 17enne rimasto vittima di incidente stradale, perse la vita. Dopo l’impatto ci fu l’incursione in ospedale. L’autista dell’ambulanza sarebbe stato spinto a mettersi alla guida del mezzo che in quel momento non aveva neanche la barella. Venne recuperata una portantina anche se non adatta ad essere utilizzata in ambulanza. In quella circostanza, come emerso dal racconto di alcuni testimoni, un paziente in attesa di essere curato fu spinto via. Arrivati sul posto gli aggressori lasciarono il mezzo di soccorso, sul luogo dell’incidente vi era già un’altra equipe medica. Tutti e sette gli indagati avranno venti giorni di tempo per fornire la loro versione dei fatti sarà poi il gup a stabilire il rinvio a giudizio o meno.
Cronache della Campania@2018
Colpo di scena al processo per l’omicidio dell’ingegnere Vittorio Materazzo nel giorno del compleanno dell’imputato: la terza Corte di Assise di Napoli ha rigettato la richiesta di proroga avanzata dall’avvocato Bruno Cervone, ultimo legale dell’imputato Luca Materazzo che ha cambiato 15 avvocati in un anno. Materazzo, fratello della vittima, e’ accusato di omicidio volontario premeditato e per lui il pm ha chiesto l’ergastolo. Il giudice Giuseppe Provitera ha sottolineato “la tattica dilatoria dell’imputato e la non sussistenza di un diniego del diritto alla difesa attraverso la negazione del rinvio”. Quindi, il reiterato avvicendamento degli avvocati per la difesa ha determinato, in sostanza, un sistema attraverso il quale l’imputato ha tentato “di difendersi dal processo e non di difendersi nel processo”. Il presidente Provitera ha accordato all’avvocato Cervone due ore e mezza per raccogliere le idee e concludere. Si riprende alle 13,30. La sentenza e’ attesa per oggi. L’avvocato Cervone, appellandosi alla sensibilita’ dei giudici della terza Corte di Assise di Napoli, a cui ha chiesto la proroga dei termini a difesa, si e’ detto assolutamente consapevole “delle plurime nomine e revoche che si sono susseguite nel corso del processo”. “Solo lo scorso 26 aprile – ha aggiunto rivolgendosi alla Corte – ho avuto contezza della mia nomina ad avvocato difensore nell’ambito di un processo estremamente complesso”. Cervone, per convincere i giudici a concedere la proroga, si e’ anche detto pronto a non rinunciare al mandato fiduciario e a rendersi disponibile a ricoprire il ruolo di avvocato d’ufficio qualora Luca Materazzo dovesse decidere di revocarlo. Cervone, infine, ha ricordato che nei confronti del suo cliente e’ stata chiesta la pena all’ergastolo e che proprio per questo non sussistono rischi di scadenza dei termini cautelari e di prescrizione. “Non si puo’ non concedere all’imputato un minimo di difesa”, ha concluso l’avvocato dell’imputato.
Cronache della Campania@2018
Otto anni e 4 mesi di reclusione e una multa da 46mila euro: è la condanna inflitta dal gup di Napoli, Rossella Marro, ad un fisioterapista di 54 anni di Posillipo accusato di abusi sessuali ai danni di tre bimbe affette da autismo, perpetrati in un noto centro di riabilitazione della città. Il fisioterapista è stato arrestato, lo scorso agosto, dalla Squadra Mobile di Napoli, a seguito della denuncia presentata dalla madre di una minore. Durante le indagini, coordinate dal magistrato della VI sezione della Procura partenopea, gli agenti della Polizia di Stato hanno scoperto condotte inequivocabili anche su altre pazienti minorenni, alle quali l’uomo scattava anche delle foto. Grazie alle immagini di alcune microcamere il fisioterapista, originario dell’hinterland della città, è stato sottoposto a fermo, per evitare che gli abusi si ripetessero. Il pubblico ministero Maria Cristina Ribera aveva chiesto 12 anni.
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Nell’ambito di complessa attività di indagine di natura patrimoniale svolta dalla Sezione Misure di Prevenzione Patrimoniali della Divisione Anticrimine della Questura di Napoli, il Tribunale di Napoli —Sezione per l’applicazione delle Misure di Prevenzione ha emesso, ai sensi della normativa antimafia, decreto disponente nei confronti di MOCCIA Luigi, nato ad Afragola il 5.9.1956, elemento apicale dell’organizzazione camorristica omonima, la misura della confisca del patrimonio già posto sotto sequestro con decreto emesso dalla medesima A.G. in data 17 marzo 2017.
Il clan MOCCIA è uno storico e potente sodalizio camorristico attivo nell’ampio territorio della provincia di Napoli, comprendente Afragola e comuni limitrofi, organizzato con struttura piramidale. MOCCIA Luigi è soggetto di allarmante pericolosità sociale, sia per l’efferatezza e solidità del clan di appartenenza, sia per il ruolo apicale rivestito nell’organigramma del clan, svolto con continuità anche in costanza dei periodi di carcerazione subiti. Il predetto, attualmente detenuto, registra plurimi precedenti penali per associazione per delinquere di tipo mafioso, tentato omicidio, violazione legge armi, corruzione di pubblico ufficiale, rapina, lesioni, ricettazione ed evasione.
Il citato decreto è stato emesso in accoglimento di articolata proposta del Questore di Napoli, formulata a seguito di complessa e prolungata attività investigativa svolta dalla Sezione Misure di Prevenzione Patrimoniali, ed ha disposto la confisca di un ingente patrimonio nella disponibilità del Moccia ed intestato anche a vari prestanome, in ragione anche della stridente sperequazione tra ricchezza accumulata e tenore di vita ed entità di redditi apparenti e dichiarati, elementi tali da attribuire l’acquisto dei beni confiscati alla di lui lunga e variegata carriera criminale:
Il valore complessivo dei beni confiscati ammonta a circa 13, 5 milioni di euro.
Cronache della Campania@2018
La terza sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli ha confermato tre assoluzioni per un delitto di camorra commesso a Maddaloni nel dicembre del 1998 riaperto dopo la collaborazione di alcuni pentiti, ma ad essere condannato in primo grado è stato soltanto un collaboratore di giustizia, Giuseppe Mastropietro, esecutore materiale accusatosi del delitto. Assolti, in secondo grado, dopo il ricorso contro le assoluzioni che aveva avanzato l’accusa, i pregiudicati Clemente D’Albenzio, di Maddaloni; Angelo De Matteo e Alessandro De Matteo, di Cervino (Caserta). Vittima dell’omicidio, Vincenzo De Rosa, detto ‘a vecchiarella’ ucciso per contrasti fra il clan dei Casalesi e quello dei Belforte di Marcianise. Mastropietro, che si era accusato del delitto, riferisce una diversa versione, ovvero una frattura proprio tra il gruppo di D’Albenzio e quello di Angelo Loffreda.
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