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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Esclusivo: ecco le prime dichiarazioni del pentito Alfonso Loreto

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loreto e comune scafati

Scafati. “La tangente consegnata da Aurelio Voccia De Felice per la gestione dei parcheggi non era di 30mila euro. L’ingegnere mente”: Alfonsino Loreto, smentisce l’ingegnere che gli consegnò il danaro per conto dell’Aipa che gestiva la sosta a pagamento in città. Lo fa come lo aveva fatto suo padre quando l’ingegnere sosteneva di non aver pagato nessuna tangente. C’è questo e altro nelle circa 450 pagine di verbali depositati dalla Dda nel processo per associazione per delinquere e omicidi che vede tra i protagonisti gli uomini del clan Loreto-Ridosso. Alfonso Loreto, figlio di Pasquale, decisosi a passare dalla parte dello Stato a febbraio scorso, questa volta non può essere smentito è stato lui a incassare quella tangente dalle mani di Aurelio Voccia De Felice, figlio dell’ex sindaco Dc, Francesco, e per anni uomo di fiducia di Angelo Pasqualino Aliberti, sindaco di Scafati. Trentamila euro? No, molti più soldi furono consegnati dall’ingegnere a lui e Luigi Ridosso tra il 2009 e il 2010 per l’affare parcheggi a Scafati. E Voccia che per salvarsi da un’accusa di favoreggiamento, confessò in extremis, di aver consegnato 30mila euro, in una busta, al rampollo di Pasquale Loreto, viene ancora una volta smentito. Qualcuno ha fatto la cresta sulla tangente. E’ uno dei tanti particolari raccontati dal giovane pentito che ha innescato una bomba ad orologeria nel Comune di Scafati. Alfonsino racconta tutto quello che sa. Estorsioni, omicidi, agganci politici, percentuali sui lavori pubblici e privati e dinanzi ai carabinieri della Dia e del Reparto Territoriale finiscono in tanti, testimoni, vittime, ma anche complici. Alfonso Loreto ha acceso una miccia pronta a far esplodere l’ordigno di collusioni, complicità e responsabilità. In due verbali quelli del 23 e del 28 febbraio scorso vuota il sacco, nel terzo reso qualche giorno più tardi precisa episodi e date. Un fiume in piena, definisce i contorni di accuse già contestate ai giovani del clan Ridosso-Loreto dalla Dda che, a settembre scorso, ha fatto scattare gli arresti. Ma aggiunge particolari che hanno permesso di smascherare menzogne e complicità. Alfonso Loreto non risparmia nessuno e la Procura tiene ancora ‘segrete’ le rivelazioni sulle quali sono in corso riscontri e indagini. Centinaia di ‘omissis’, di episodi che – si intuisce dalle circa 450 pagine già depositate – provocheranno un vero e proprio terremoto, nel mondo dell’imprenditoria e della politica. Alfonsino Loreto parla degli omicidi, appresi successivamente al suo ingresso nel gruppo criminale gestito da Romoletto Ridosso e da figli e nipoti. Conferma le rivalse dei Ridosso contro i Muollo, per la morte di Salvatore ‘piscitiello’ e specifica i ruoli e le responsabilità. Un contributo importante per la guerra di camorra in atto a Scafati nei primi anni 2000, che però non è tra le priorità dell’Antimafia e dei pm Giancarlo Russo e Maurizio Cardea. Alfonso Loreto è molto ‘ferrato’ sull’attualità e elenca i nomi di giovani e vecchi criminali che hanno partecipato al clan di cui faceva parte fino a qualche mese fa. Ma spiega anche in che modo la criminalità si è inserita nel tessuto economico e politico della città, quali sono gli imprenditori che pagavano fior di tangenti, da poche migliaia di euro a decine di migliaia. Molti sono stati già interrogati. Il confronto con le forze dell’ordine è stato durissimo. Qualcuno ha negato, altri hanno ammesso di essere stati costretti a pagare per paura che Romoletto e i suoi facessero delle ritorsioni. 
Alfonsino non risparmia, davvero nessuno, e dai complici alle vittime elenca decine di persone. Molti conservieri costretti a pagare in forma di prestazione di lavoro per le pulizie nelle proprie aziende. Rapporti economici apparentemente leciti, se non fosse per quei nomi che stavano dietro la cooperativa di servizi dei Ridosso-Loreto con sede legale a Napoli, ma sede operativa a Scafati.


La Cassazione assolve il boss “fantasma” Marco Di Lauro da un altro ergastolo, ma la caccia continua

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La Corte di Cassazione ha definitivamente can- cellato la condanna all’ergastolo per Marco Di Lauro, il boss “fantasma” dell’omonimo clan ricercato da dodici anni. La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso della Procura di Napoli per l’omicidio di Nunzio Cangiano, crivellato di proiettili al Magic World nell’agostyo del 2007. Di Lauro era stato condannato il primo grado al carcere a vita mentre in appello era stato assolto. Nell’udienza  davanti alla Cassazione i suoi avvocati difensori (Gennaro e Carlo Pecoraro)  hanno dimostrato l’inattendibilità del racconto dei collaboratori di giustizia. E’ già il secondo ergastolo che il figlio di Ciruzzo ‘o milionario riesce ad evitare: era stato condannato in primo grado all’ergastolo e assolto anche dall’omicidio di Attilio Romanò, vittima innocente della faida del 2004. Ora la caccia alla “primula rossa” numero uno della camorra campana da parte degli investigatori continua.  Quando due settimane fa improvvisamente si era diffusa la voce della cattura anche di Marco Di Lauro qualcuno aveva pensato che lo Stato aveva ottenuto una doppia clamorosa vittoria nella lotta al crimine. Ma già la cattura di Umberto Accurso è stato un risultato importantissimo per le squadre speciali di polizia e carabinieri addestrate per la ricerca dei latitanti. Ora sono tutti concentrati sul giovane “fantasma” figlio di Ciruzzo ‘o milionario,  introvabile oramai da 12 anni. E quella sua figura da ragazzino che lo ritrae nella foto segnaletica presente negli archivi ufficiali della polizia ora che di di anni ne ha 36  è cambiata sicuramente. Sulle sue tracce c’è anche l’Interpol visto che c’è anche unUna leggenda popolare vuole che  con il suo corpo esile spesso il latitante sia tornato nella sua Secondigliano travestito da donna. Ma Marco Di Lauro da quando si è reso uccel di bosco si accompagna con la sua fidanzata o meglio la sua donna. Una che viene dal Perrone, una delle zone di Secondgliano. Secondo le voci che si sono rincorse in questi anni di sua latitanza c’è ne una confermata dagli stessi investigatori che vuole la presenze del figlio di Ciruzzo ‘o milionario a Secondigliano dopo l’omicidio di Antonello Faiello avvenuto nell’aprile del 2011. Marco dI Lauro ebbe un incontro chiarificatore con Umberto Accurso della Venella Grassi perché già c’erano stati troppi morti e in giro  la presenza delle forze dell’ordine era massiccia e poi molti affiliati ai due clan uscivano poco per il timore di essere ammazzati. Marco Di Lauto usò tutta la sua diplomazia per far capire a Umberto Accurso che  non era più il caso di continuare coni morti. La faida si fermò e Di Lauro potè riprendere la sua vita da latitante. Si sarebbe spostato grazie alla disponibilità economica e quindi alla possibilità di “comprare” complicità e coperture in molti paesi europei tra cui Francia, Spagna, Germania e perfino in Canada dove ci sono presunti complici. Ma la caccia continua e lo Stato non molla.

 

Torre del Greco: tre avvisi di garanzia per le luminarie natalizie

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torre del greco comune

Torre del Greco. Gara d’appalto pilotata per le luminarie natalizie: scattano i sequestri e le perquisizioni. Tre gli indagati nell’inchiesta della Procura di Torre Annunziata, per turbativa d’asta, che sono stati raggiunti nei giorni scorsi da un avviso di garanzia. si indaga sul dirigente del settore urbanistica, Mario Pontillo e sugli imprenditori delle due imprese che si sono aggiudicati la fornitura e l’installazione delle luminarie, Antonio Criscuolo e Ciro Savio. Nei giorni scorsi, i carabinieri di Torre del Greco, guidati dal maggiore Michele De Rosa, hanno fatto le prime acquisizioni presso il Comune su delega della Procura di Torre Annunziata. Le verifiche hanno indotto al sequestro sia delle luminarie che della documentazione per l’aggiudicazione dell’appalto complessivo di 100mila euro. L’accusa contestata è turbata libertà degli incanti in concorso, riconducibile proprio allo svolgimento delle due gare d’appalto con le quali l’amministrazione comunale di Torre del Greco ha affidato l’incarico. La gara è quella iniziata a novembre scorso, già oggetto di polemiche da parte dell’opposizione del sindaco Ciro Borriello. La prima gara per una cifra di 60mila euro sarebbe dovuta bastare per l’installazione delle luci natalizie sull’intero territorio, ma così non fu e l’amministrazione fu costretta ad indire una seconda gara d’appalto per una cifra di 40mila euro, affidando ad un’altra ditta i lavori per l’illuminazione della zona di Santa Maria la Bruna e della periferia. La Procura sospetta che sia stata seguita una procedura anomala con appalti sotto soglia per favorire le ditte incaricate dei lavori. 

Il boss Carlo Lo Russo voleva uccidere il boss Stabile appena uscito dal carcere e aveva chiesto aiuto ai Licciardi. Le nuove intercettazioni

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Il boss Carlo Lo Russo

Il boss Carlo Lo Russo aveva fatto una “black list” con i nemici da eliminare.  Il suo arresto insieme a quello della moglie e del suo gruppo fuoco e poi di Walter Mallo e dei suoi fedelissimi e ancora quella degli Esposito-Genidoni ha fermato una escalation criminale che minacciava di lasciare sul terreno decine di morti. Lo si evince dai nuovi atti in mano alla Dda di Napoli e che sono stati allegati al fascicolo dell’inchiesta sull’omicidio del rapinatore seriale Pasquale Izzi ucciso  a marzo in via Janfolla sotto casa del boss Lo Russo. Ci sono altre intercettazioni in cui si parla delle vittime designate del clan dei “capitoni”. Uno in particolare: è il boss Ciro Stabile nemico storico dei Lo Russo protagonista in negativo di una sanguinosa faida agli inizi degli anni Duemila con decine di morti tra cui quello clamoroso del giugno 2004 in stile “Crime” americano in cui la vittima Giuseppe D’Amico, fedelissimo di Stabile, fu ucciso in tangenziale mentre era a bordo di un’ambulanza per recarsi in ospedale. In una delle tante intercettazioni ambientali registrate dalla famosa cimice a casa Lo Russo ( che ha permesso il suo arresto) si sente: “questo dopo 18 anni è uscito anche lui…hai visto? Ciro Stabile…Adesso per prenderlo questo…si nasconde… questo, non si fa acchiappare”. Il boss parla con la moglie e spiega di aver coinvolto anche i Licciardi della Masseria Cardone attarverso tale Renato Esposito uomo di fiducia del clan di Secondigliano: “…sono andato a cercarlo per mezzo di questo…”. Esposito avrebbe garantito ai Lo Russo tutto l’impegno del clan attraverso Maria ‘a scigna “… per fargli un regalo…Stamattina ho mandato a Giulio da quelli della Masseria Cardone, da questo Renato che ora è uscito….Carlucciello ti manda un bacio con una imbasciata: è uscito questo di Marianella… è un nemico suo giurato…chiunque lo appoggia e un nemico suo personale. e quello ha detto: diccelo a Carlucciello se noi lo pigliamo prima noi, glielo facciamo noi il favore a lui…noi non lo possiamo appoggiare. Il compagno nostro è lui”. Poi Anna Serino, la moglie di Carlo Lo Russo, dopo aver ascoltato il racconto del marito con voce ferma e decisa replica: “Lo devi uccidere!”.

Pizzo al Vomero chiesto il processo per il boss Cimmino e i suoi fedelissimi

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Il boss Luigi Cimmino arrestato durante un'operazione contro la camorra  viene portato fuori dalla caserma dei carabinieri nel quartiere Vomero a Napoli, 20 luglio 2015.
ANSA /   CIRO FUSCO

E’ stata fissata per il 20 giugno prossimo l’udienza preliminare davanti al gup Umberto Lucarelli del tribunale di Napoli nella quale si deciderà se mandare a processo il boss del Vomero Luigi Cimmino e i suoi fedelissimi. Si tratta del genero Pasquale Palma, Raffaele Montalbano (suo fido braccio destro) e Luigi Festa e Pellegrino Ferrante. Sono tutti accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso e due tentate estorsioni. Una in danno di un’impresa che stava realizzando i lavori di ampliamento dello svincolo della Tangenziale “Zona ospedaliera” e l’altra nei confronti di una ditta che stava realizzando i lavori di ristrutturazione dell’ospedale Cotugno. E’ stato il pm della Dda di Napoli, Enrica Parascandolo, a chiedere il rinvio a giudizio dei cinque e a firmare la chiusura indagini. agli atti dell’inchiesta c’è la denuncia del titolare della ditta e una ripresa audio-video relativa a un incontro tra Pasquale Palma e alcuni  affiliati legati al clan Polverino di Marano nel garage dell’ospedale Santobono in cui i “maranesi” chiesero conto perché la cosca del Vomero chiedeva tangenti a una ditta che loro conoscevano. Dopo questo episodio scattarono gli arresti. Il boss Cimmino e il genero però furono scarcerati dal Riesame e si resero latitanti. Sono stati poi arrestati, il boss a Chioggia il 5 marzo scorso e il genero a Napoli.

Luigi Cimmino Pasquale Palma Raffaele Montalbano Luigi Festa Pasquale Ferrante

I Fabbrocino imposero il pizzo alle ditte che lavoravano sulla statale 268. Il racconto del pentito

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mario fabbrocino

Il clan Fabbrocino di San Giuseppe Vesuviano ha sempre avuto il controllo totale degli appalti nella cosiddetta zona Vesuviana Nord a partire da Poggiomarino fino ad Ottaviano con appoggi e “permessi” anche nei comuni di Somma Vesuviana e sant’Anastasia. Una ulteriore dimostrazione della sua capacità penetrativa nel tessuto imprenditoriale della zona lo si è avuto leggendo le pagine dell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere nelle scorse settimane ventini affiliati ai clan D’Avino e Anastasio.  Nell’ordinanza ci sono i racconti del pentito, Fabio Caruana, ex D’Avino e poi passato con i Sarno di Ponticelli. “Il boss degli Anastasio organizzò un incontro con il referente dei Fabbrocino a San Giuseppe, un certo Belardo, comandava lui. nell’incontro avremmo dovuto parlare dei lavori di ampliamento della superstrada 268 e precisamente per i lavori tra Sant’Anastasia e Cercola. Avrei dovuto interessarmi io dell’affare per non fare avere problemi alle ditte: ma l’estorsione a queste ditte era stata già chiusa da quelli di san Giuseppe e non volevano fare brutta figura a loro per questo dovevo chiedere a quelli di Cercola di non disturbare le ditte”.

(nella foto il boss Mario Fabbrocino ‘o gravunaro)

Ponticelli: dopo gli omicidi e gli attentati anche l’ultimo dei Sarno lascia il quartiere

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LaPresse07-12-2011 Casapesenna, ItaliaCronacaArrestato il boss Michele ZagariaNella foto: la polizia porta fuori Zagaria

Tra bestemmie, maledizioni, minacce e qualche applauso anche gli ultimi componenti della famiglia Sarno hanno lasciato Ponticelli. L’ultimo è stato l’anziano genitore di quello che ormai viene etichettato come il “clan dei pentiti” e che uno volta era invece guidato da Ciro Sarno “Il sindaco” di Ponticelli. La ex potente cosca con collegamenti ai Quartieri Spagnoli con i Mariano, a Secondigliano con i Licciardi e con estensioni nei comuni della provincia come Cercola e Volla, ha alzato bandiera bianca. Con il padre dei pentiti, che di recente aveva avuto assegnato una casa popolare a Ponticelli, sono andate via anche le altre due figlie con le rispettive famiglie. Il timore di attentati e ritorsioni dopo i fatti di sangue da inizio anno ad oggi hanno indotto tutti quelli che avevano legami con i Sarno a lasciare il quartiere. Tra poco  inizieranno i processi in cui i pentiti dovranno confermare in aula le accuse contro una serie di clan napoletani. Grazie appunto alle loro confessioni che si trovano in carcere molti esponenti della vecchia camorra napoletana. E la vendetta nel corso degli ultimi mesi si è abbattuta sui familiari e su tutti quelli che avevano avuto legami con i Sarno. Da inizio anno ci sono stati gli omicidi di Davide Montefusco, Mario Volpicelli, Giovanni Sarno (ultimo dei fratelli rimasti nel quartiere) e Manlio Barometro (il vigile urbano incensurato che in passato aveva avuto contatti con i Sarno. Poi il mese scorso addirittura un attentato incendiario a casa della mamma del pentito Raffaele Cirella. Solo l’intervento dei vigili del fuoco riuscì a salvare la donna da una morte sicura.Da allora era scattato il coprifuoco nel quartiere con la decisione da parte della Procura antimafia, d’intesa con il ministero dell’Interno di far scattare un nuovo piano di protezione. E così nel corso degli ultimi due mesi quasi quaranta famiglie sono andate via da Ponticelli. Ultimo il padre e le figlie. E ora nel quartiere c’è più tranquillità.

 

Politica & camorra a Scafati: il pentito Loreto, i tre verbali e le assunzioni sospette

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LORETO-ALFONSO

Si legano a doppio filo le inchieste sulla criminalità organizzata e il clan Loreto-Ridosso e le vicende politico-amministrative dell’ultimo decennio al Comune. Si legano perché la cosca silenziosa capeggiata da Romolo Ridosso e dai suoi rampolli, compreso Alfonso Loreto, è riuscita a entrare nel complesso mondo di politica, favori e appalti grazie ad alcuni personaggi che con la camorra sono andati a braccetto. È questo quello che racconta Alfonsino dal carcere, in regime protetto. È per questo motivo che Loreto, pentito dell’ultima ora, è legato a due inchieste che procedono su binari che si intrecciano in più punti. E sì perché i favori, le raccomandazioni e i posti di lavoro o gli appalti in cambio di voti, ma anche le tangenti non sono mancate in questi ultimi anni a Scafati. Tre verbali zeppi di particolari stanno mettendo a dura prova gli inquirenti costretti a interrogatori e verifiche per accertare la veridicità di quanto il giovane figlio di Pasquale Loreto ha raccontato. Procedono a ritmo serrato e si intrecciano le inchieste dei sostituti Russo e Cardea da un lato e quella di Montemurro dall’altro. Sulla prima sono al lavoro gli uomini del Reparto territoriale e della Dia, sull’altra – insieme ai carabinieri – la commissione di accesso che si è insediata a marzo al Comune per verificare le infiltrazioni della camorra. Loreto che elenca decine di nomi di vittime e complici, nei tre verbali già depositati, ha parlato davvero molto. Tira in ballo il ruolo di vecchi e nuovi pregiudicati che in cambio di posti di lavoro sono diventati galoppini politici del centrodestra. E grazie a questo aiuto si sono inseriti, attraverso cooperative o anche singolarmente, in lavori socialmente utili. Nel mirino le partecipate del Comune di Scafati: Acse, Scafati Sviluppo, Scafati Solidale e attraverso quest’ultimo ente il Piano di Zona S1, di cui Scafati è capofila. Il capitolo sugli appalti pubblici è ancora coperto dal segreto e da quegli omissis che celano i segreti di un decennio. Nei suoi verbali, il collaboratore di giustizia spiega come il clan Loreto-Ridosso ha fatto affari e ha imposto tangenti. È spiega anche come personaggi molto noti in città hanno tratto benefici dal clan. La cosca è riuscita a ritagliarsi uno spazio nel sistema tangenti e appalti rispetto a clan di altre province. I Ridosso-Loreto hanno spartito la grossa torta delle tangenti con i Casalesi. (r.f.)


L’evoluzione social del clan Lo Russo 3.0: spiava i “nemici” attraverso facebook. Le intercettazioni

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anna serino verticale

La nuova guerra di camorra a Napoli ai tempi dei social. E’ l’evoluzione tecnologica dei criminali 3.0 a cui si sono adeguati anche i vecchi boss che controllano il social network più utilizzato al mondo per scoprire segreti sui nemici. Lo hanno fatto il boss Carlo Lo Russo e sua moglie Anna Serino intercettati da una cimice nella loro abitazione. I nuovi dialoghi tra i due a casa del boss in via Janfolla a Miano ma anche con altri affiliati sono ora depositati agli atti del Riesame che dovrà valutare la richiesta di scarcerazione della donna catturato insieme con  il marito e altri due affiliati un mese perché considerati mandanti ed esecutori materiali dell’omicidio del rapinatore seriale Pasquale Izzi ucciso proprio sotto la loto abitazione nel marzo scorso. ebbene da quei verbali si evince di come il boss cercava i nemici attraverso facebook. Ecco alcuni dialoghi tra Lo Russo e la moglie: “…vedi qualche cognome”, dice il boss alla donna. E le replica: “Il nome di qualcuno che tu sai?”. Lo Russo: “….come si chiama?…Genidoni… Genidoni…”. Anna Serino: “… aha Genidoni…lo sono chi sono… ma questa non fa Genidoni”. I due che sono in casa insieme con altri affiliati continuano a spulciare i profili su facebook e si imbattono in quello di Francesco Spina, uno dei “barbudos”, che è il genero del boss Pierino Esposito ucciso alla sanità nel novembre del 2015. “…Guarda che sta scritto…siamo grandi e comandiamo tutti insieme… rispetto per le Case Nuove…”. E ancora la ricerca social continua: “ferma, ferma, guarda… guarda qua” , e a quel punto Anna Serino dice che bisogna contare i “like” sui profili: “… vedi dove si infila… a chi piace…le persone che hanno scritto mi piace”. E’ questa l’evoluzione 3.0 della nuova camorra napoletana.

Calcio & Camorra scoperto grazie alle dichiarazioni di Antonio Accurso, il fratello pentito del boss

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Umberto  Accurso

Dalle indagini sulle scommesse truccate sono emersi “elementi concreti” e “le dazioni di denaro sono state provate”, ciò in base alle dichiarazioni raccolte dagli inquirenti e al contenuto di sms e conversazioni telefoniche intercettate. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Napoli, Filippo Beatrice, coordinatore della Dda, a proposito dell’inchiesta su calcio e camorra.“C’è un’area grigia che si interfaccia con i criminali”. Lo ha detto il procuratore aggiunto di Napoli, Filippo Beatrice, coordinatore della Dda, a proposito del coinvolgimento di calciatori, accusati di aver alterato l’andamento di alcune partite di serie B, nell’indagine sul clan “Vanella Grassi”. “Vi sono alcuni soggetti – ha aggiunto – che non giocano solo a pallone ma coltivano relazioni per ottenere informazioni e realizzare illeciti”. Arresti domiciliari per l’ex calciatore del Casalnuovo e del Nola, Luca Pini e per il centrocampista dell’Acireale, nella stagione 2013-2014 dell’Avellino, Francesco Millesi. Sono loro per il gip di Napoli, Ludovica Mancini i ‘facilitatori’ delle combine per le partite di Serie B dell’Avellino truccate dal gruppo camorristico della Vanella Grassi; entrambi devono rispondere di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso. A metterli nei guai, proprio le dichiarazioni del boss Antonio Accurso, arrestato nel 2014 insieme ad altri affiliati per l’omicidio dei fratelli Matuozzo, mentre festeggiava le ricche quote intascate dal clan per la vittoria dell’Avellino sulla Reggina, una delle due partite (l’altra e’ Modena-Avellino) valevoli per il campionato cadetto e nelle quali il clan aveva deciso di investire e riciclare ingenti somme di denaro, alterandone il risultato. Ma la cosca aveva cercato di orientare il risultato anche di Avellino-Trapani, progetto questo fallito, cosi’ come quello per Padova-Avellino, interrotto proprio dall’arresto di Accurso. A far da tramite tra il clan e il mondo del calcio, sarebbe stato il difensore del Genoa, Armando Izzo, in passato anche lui nell’Avellino, che e’ nipote di Salvatore Petriccione, uno dei fondatori del gruppo attivo nei quartieri nord di Napoli.

Il boss pentito Antonio Accurso racconta: “Ecco come truccammo le partite”

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Calcioscommesse

E’ in un interrogatorio del 25 febbraio 2015 che il pentito Antonio Accurso parla per la prima volta con i magistrati della Dda di Napoli delle presunte combine delle partite di calcio. “Io in prima persona – si legge nel verbale – ho influito sui risultati delle seguenti partite di calcio: serie B campionato 2013-2014, Modena-Avellino del 17.5.2014 e Avellino-Reggina del 25 maggio 2014”. “Un giocatore dell’Avellino, e prima ancora della Triestina, Armando Izzo – racconta – è un nostro parente, essendo nipote di Salvatore Petriccione (uno dei fondatori del clan Vinella Grassi, ndr). Già quando militava nella Triestina, vi fu un abbozzo di combine in cui mio fratello Umberto, accompagnato da Mario Pacciarelli, andarono a Trieste sapendo che la società non pagava gli stipendi ai giocatori per vedere se si poteva far qualcosa, ma senza risultato. A marzo-aprile del 2014, si presentarono da noi Armando Izzo e un certo Pisacane, anche lui giocatore dell’Avellino, famoso per aver rinunciato a 50mila euro per vendersi una partita, cosa che divenne pubblica e che portò il presidente della FIFA Blatter a conferirgli un premio. Io li stimolai per sapere se vi era la possibilità di combinare qualche partita dell’Avellino, anche se era già il girone di ritorno inoltrato. Dissero che era molto difficile coinvolgere tutta la squadra; allora, poiché si trattava di due difensori titolari, chiesi loro se era possibile subire solo un gol, sul quale potere scommettere. Pisacane si rifiutò dicendo che lui queste cose non le faceva ed era stato anche premiato per il suo comportamento sportivo. Izzo si mostrò più disponibile, ma non lo fece davanti al Pisacane”. “Poi – aggiunge il collaboratore di giustizia – vi è Luca Pini, altro giocatore delle giovanili dell’Avellino, la cui famiglia è della 167. Pini è amico di Salvatore Russo, detto Geremia. Geremia chiama mio fratello Umberto e gli dice che Pini gli aveva detto che Millesi, uno dei giocatori più influenti dello spogliatoio dell’Avellino, voleva parlare con noi della Vinella Grassi”. Il primo incontro fu alla vigilia della partita Cesena-Avellino “ma non si concluse nulla”. “Vi fu un altro incontro alla vigilia di Avellino-Trapani e sempre non si concluse nulla, non so di preciso perché, anzi posso dire che forse mio fratello era un po’ timido nel dire apertamente quanto volessero per vendersi la partita”. “Ci fu poi un terzo incontro – continua Accurso – il 14 maggio 2014, giorno della finale di Europa League Benfica-Siviglia, alla trattoria La Casereccia di Casoria, presenti io, mio fratello, Geremia, Pini e Millesi; quando io iniziai un discorso chiaro, andando al sodo, Millesi mi disse chiaramente che Castaldo ed altri giocatori che avevano il suo stesso procuratore facevano quello che lui diceva; io gli dissi che noi avevamo Izzo che era disponibile e Millesi mi disse allora che l’unico da convincere era il portiere, Seculin. Pini fece venire anche Izzo sul posto, valutammo la quota della partita e mi chiesero quanto potevo dare in contanti per ‘compromettere’ la partita successiva, Modena-Avellino, che si sarebbe giocata il 17 maggio 2014. Io offro duecentomila euro, in base alla quota, che era alla pari; la sera successiva gli mando, tramite Pini, 150mila euro. Il venerdì mattina e comunque prima della partenza per Modena venni a sapere da Pini, che mi mostrò i relativi sms del Millesi, che avevano problemi a convincere il portiere. Allora Pini si accinse ad andare a riprendere i 150mila euro ed io feci la controproposta di sapere se almeno poteva l’Avellino subire un gol dal Modena; Millesi, che era già in ritiro, fece arrivare la risposta via sms sul cellulare di Pini, che si poteva fare. Pini giocava nelle giovanili dell’Avellino, ed i messaggi venivano camuffati come compravendite di orologi che Pini poteva giustificare in quanto la sua famiglia ha una gioielleria. Sul ‘gol casa’ in Modena-Avellino noi della Vinella scommettemmo dunque circa 400mila euro vincendone 60mila euro. Vi fu anche una complicazione, dovuta al fatto che l’allenatore dell’Avellino Rastrelli, contrariamente a quanto avvenuto nella riunione tecnica, non schierò in difesa Izzo; noi ci allarmammo e mandammo una serie di sms a Millesi tramite il solito Pini. Il primo tempo finì 0-0 ma nell’intervallo Millesi negli spogliatoi parlò con il giocatore che era stato schierato al posto di Izzo (di cui il collaboratore di giustizia fa il nome, ma non è noto se è indagato – ndr) e subito all’inizio del secondo tempo l’Avellino passa in svantaggio e dalle immagini è evidente la responsabilità” del calciatore citato “sul gol subito”. “A Pini – dice Accurso – consegnammo 30mila euro da dare a Millesi e Izzo. Poi loro diedero qualcosa” al giocatore che avrebbe aderito alla combine. “Noi allorché ci riprendemmo i 150mila euro concordammo che avremmo dato, in caso di gol subito, la somma di 50mila euro; poi ne demmo solo 30mila a causa della riduzione progressiva della quota dovuta al flusso di giocate”. “Nella settimana successiva ci incontrammo di nuovo alla trattoria La Casereccia di Casoria, mio fratello si era appena dato latitante per la condanna per l’omicidio Faiello. Eravamo io, Izzo, Millesi, Pini e Geremia. La partita successiva era Avellino-Reggina e Millesi si offrì subito, per 50mila euro, di intervenire con quelli della Reggina per garantire la vittoria dell’Avellino. Gli mandammo subito 50mila euro per il tramite di Pini e la domenica mattina Millesi mandò il solito sms a Pini che disse a Geremia che potevamo giocarci 1 fisso sulla vittoria dell’Avellino. Scommettemmo circa 400mila euro, la partita finì 3-0 per l’Avellino e guadagnammo 60mila euro, anzi 110 mila sulle scommesse da cui andavano dedotti i 50mila già dati a Millesi. La sera stessa io venni arrestato e Pini era in mia compagnia. La partita Avellino-Reggina era appena finita che Millesi mandò a Pini un sms dicendo che c’erano ‘ottime notizie’ per la partita Padova-Avellino, l’ultima di campionato, ma non se ne fece nulla perché io venni arrestato”.

Calcio & violenza: domani la sentenza per l’omicidio di Ciro Esposito. La madre: “De Santis non ha mai chiesto perdono”

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Roma. E’ attesa per domani nell’aula bunker di Rebibbia la sentenza del processo per l’omicidio del tifoso napoletano Ciro Esposito, ferito nella Capitale il 3 maggio 2014 prima della finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli e morto dopo 53 giorni di agonia al policlinico Gemelli. A esprimersi saranno i giudici della Corte d’Assise di Roma. Per l’omicidio è imputato l’ultrà della Roma Daniele De Santis, per il quale i pm Eugenio Albamonte e Antonino Di Maio hanno chiesto l’ergastolo. I pm hanno sollecitato anche la condanna a tre anni ciascuno per altri due imputati, Gennaro Fioretti e Alfonso Esposito, accusati di rissa aggravata per aver fatto parte del gruppo che a Tor di Quinto provocò gli scontri tra le diverse tifoserie. Il difensore dell’ultrà romanista, l’avvocato Tommaso Politi, ha chiesto invece l’assoluzione per legittima difesa, sostenendo che si è trattato di un episodio “imprevisto e imprevedibile” e che la pistola con cui De Santis ha fatto fuoco “non era sua perché non aveva armi con se'”. La madre di Ciro Esposito, Antonella Leardi, sempre presente alle udienze, sarà in aula anche domani “come ho sempre fatto in tutte le udienze in questi due anni”, dice all’Adnkronos. Antonella Leardi continua a chiedere “che giustizia sia fatta” e che Daniele De Santis, l’ultrà della Roma imputato per l’omicidio di suo figlio, “sia punito con la massima pena, l’ergastolo. De Santis dovrebbe avere modo di riflettere a lungo in carcere su quello che ha fatto”. De Santis, spiega la madre di Ciro Esposito, “in questi anni non ci ha mai chiesto perdono per quello che ha fatto. Ha sempre avuto un atteggiamento arrogante”. E se lo chiedesse ora il perdono? “Avrebbe il sapore della falsità – aggiunge – Prima forse lo averi perdonato, ma ormai è tardi, adesso non lo farei più”. “I fatti avvenuti a Roma l’altra sera sono dovuti sempre allo stesso motivo: la mancanza di sicurezza – prosegue Leardi – I soggetti preposti alla gestione dell’ordine pubblico sanno chi sono i soggetti pericolosi, credo che chi fa questo mestiere sa da dove viene il pericolo. E’ allucinante che a due anni dalla morte di mio figlio poteva esserci un’altra tragedia”. “Io lancio appelli tutti i giorni contro la violenza – aggiunge – parlo con i bambini, con i ragazzi, perché lo sport deve essere un divertimento che finisce là, non si può morire per una passione”.

Ecco la Nuova Vinella Grassi uscita vincitrice dalla faida di Scampia

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La Vinella è padrona di tutta Secondigliano, gran parte di Scampia, Casavatore e San Pietro a Patierno. E’ la cosca uscita vincitrice dalla faida Abete-Abbinante-Notturno-Aprea. Le famiglie avversarie hanno dovuto cedere oltre al territorio anche affiliati che, vista la sconfitta, sono trasmigrati nella cosca vincente ora denominata Nuova Vinella-Grassi. Gli inquirenti tracciano un quadro dettagliato dell’evoluzione del clan. Una mappa criminale mutata dal 2011 in poi che ha visto i Di Lauro cedere parte del loro territorio alla potente cosca dei ‘girati’. Un clan di ‘prima grandezza’ lo definiscono magistrati e inquirenti che, attraverso la faida del 2012 ed il rovesciamento di alcune storiche alleanze, ha saputo acquisire il controllo dei quartieri napoletani ed il dominio della quasi totalità delle piazze di spaccio. La Vinella-Grassi ha anche inglobato le storiche famiglie criminali dei Leonardi e dei Marino. Tanto potente da ‘accogliere’ nelle proprie fila gli ex affiliati degli scissionisti. La storia della camorra napoletana oltre ad essere stata scritta dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, è stata scandita dagli arresti delle forze dell’ordine. Arresti che hanno mutato, di volta in volta, l’assetto dei vertici della cosca, ma non l’hanno mai stroncata del tutto.

E quando il clan sembrava sulla via del tramonto per defezioni e arresti è nata la Nuova Vinella-Grassi ancora più spietata e potente con il predominio su due quartieri storici dello spaccio Scampia e Secondigliano a partire dall’aprile 2011. Un gruppo capace di ‘rigenerarsi’ scrivono gli inquirenti, svolgendo prima un ruolo subalterno ai Di Lauro e agli Amato-Pagano, poi il predominio assoluto con altre frange e gruppi operanti sul territorio.

Il 2011 è l’anno dell’indipendenza della Nuova Vinella-Grassi, la cosca si rende indipendente dagli Amato-Pagano e si allea con gli Abete-Abbinante-Notturno-Aprea, Marino e Leonardi le cosiddette cinque famiglie di Secondigliano. Ma il 4 luglio del 2012 parte la faida da un lato i Vinella-Grassi con i Marino e i Leonardi, dall’altro Abete-Abbinante-Notturno-Aprea.

Nasce così la Nuova Vinella Grassi che ha portato all’estromissioni degli Amato Pagano dai quartieri di Scampia e di Secondigliano. La Vinella Grassi, infatti, dopo una prima fase di adesione al programma criminale di Arcangelo Abete, ha eroso gradualmente il consenso intorno a lui ed alla sua famiglia (formata anche dai Notturno e dagli alleati di sempre, gli Abbinante), per raccogliere sotto la propria egida gli scontenti e tutti coloro che ritenevano di non potere più sottostare al controllo degli Abete Abbinante Notturno.

Gli inquirenti registrano in quella fase l’alleanza della Nuova Vinella Grassi con Mariano Riccio e l’assimilazione dei clan Leonardi e Marino (novembre-dicembre del 2011). Lo scontro con gli Amato Pagano si ricompone prima ‘sottobanco alla fine del 2011 e poi ‘ufficialmente a metà del 2012. E’ questo il periodo in cui la Vinella inizia la faida con il tentato omicidio di Giovanni Esposito (4 luglio 2012) contro gli Abete Abbinante Notturno.

Gli inquirenti delineano anche i nomi dei capi che si sono alternati in questi cinque anni. Sino all’aprile del 2011, anno in cui finisce in carcee, il capo era stato Salvatore Petriccione, con altri suoi parenti tra cui i nipoti Antonio Accurso (poi pentitosi) e Rosario Guarino. Altro vertice dell’organizzazione era Antonio Mennetta, detenuto fino al dicembre del 2012. Fino al 2011 la cosca aveva operato in una zona molto circoscritta tra i vicoletti del quartiere Secondigliano compreso tra via Dante – via Vanelli Grassi – Vico Lungo Ponte – Corso Italia.

Durante la faida del 2012 la Vanelli Grassi è guidata dal cosiddetto triumvirato composto da Antonio Mennetta, Fabio Magnetti e Rosario Guarino.

I tre finiscono in manette nel corso del biennio 2012-2014. Il primo a finire dietro le sbarre è Rosario Guarino (12 novembre 2012), poi è la volta di Antonio Leonardi (27.12.2012) e di Antonio Mennetta (3.01.2013). Sul fronte opposto finiscono i manette tutti i capi degli Abete Abbinante, escluso Giovanni Esposito arrestato a gennaio 2015. L’attività della magistratura e dello Stato conduce la faida verso una tregua forzata. Ma a fare da pacieri arrivano anche i Licciardi della Masseria Cardone.

Decapitato il triumvirato che l’aveva guidata nella faida, la Vinella si è affidata ad Antonio Accurso – nei primi mesi del 2013 agli arresti domiciliari a Scauri – ed al fratello Umberto, sua longa manus sul territorio.

Il periodo del ‘governo’ congiunto dei fratelli Accurso, Antonio e Umberto, è durato tuttavia solo fino all’arresto di Antonio nel maggio del 2014.

In quell’anno inizia la latitanza di Umberto, che lascia il posto ai vertici della cosca dei cugini Antonio Coppola e Gaetano Angrisano, secondo la regola vinelliana per cui le posizioni apicali sono legate ai rapporti di parentela o di affinità con la famiglia Petriccione, da cui discende la Vinella Grassi. Ai due si affiancano il ‘responsabile’ economico del clan, Giuseppe Corcione ed un altro giovane promettente, che peraltro risulta legato ad una cugina della moglie di Umberto Accurso, Roberto Ciuoffi.

Ma quando – nel dicembre del 2014 – anche costoro vengano assicurati alla giustizia la Vinella si riorganizza nuovamente con un veloce ricambio di reggenti e di comprimari.

Il risultato principale è un inevitabile abbassamento dell’età dei capi e dei quadri intermedi, nonché degli affiliati, con una contestuale riduzione dei tempi di affiliazione per raggiungere le posizioni apicali della cosca, posizioni comunque caratterizzate da una marcata matrice familiare. A svelare i segreti su quest’ultima fase del clan e del suo assetto sono stati i collaboratori di giustizia Mario Pacciarelli, ma soprattutto l’ex reggente Antonio Accurso. 

(nella foto Umberto Accurso e Antonio Mennetta)

Il boss pentito Accurso: “Marco Riccio fu ucciso da mio fratello Umberto su richiesta di Antonio Mennetta”

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L’ex boss pentito della “Vinella” , Antonio Accurso detto “’o porco”, ha fatto luce su uno dei tanti omicidi ancora irrisolti della faida di Scampia. E’ quello del 19 enne: Marco Riccio, ucciso il 26 giugno del 2012 perché i ras della “Vinella” sospettavano che avesse parlato troppo e involontariamente avesse contribuito  all’arresto del latitante Fabio Magnetti, all’epoca uno dei capi della cosca. Ecco cosa ha raccontato Accurso: “…Fabio Magnetti è entrato nel clan nel 2008, dopo l’omicidio del fratello. Gli facemmo aprire una piazza di spaccio fuori la Vinella, con soci Luca Raiano e Gaetano Petriccione. La sua latitanza, trascorsa da gennaio a giugno 2012, l’ha passata da Carlo Matuozzo, gestito da costui e poi, a casa della suocera dove venne arrestato. Le persone arrestate con lui erano trafficanti di eroina di Pianura o di Fuorigrotta presentatigli da “Siburilino” e se non sbaglio erano presenti pure “Johnny o’ niro” e il suocero. Dopo il mio arresto la situazione fu divisa così: Fabio Magnetti si occupò della cocaina mentre Guarino della piazza di spaccio. I capi della Vinella erano: Salvatore Petriccione, io, Rosario Guarino, Antonio Mennetta, Fabio Magnetti, Luca Raiano, Gaetano Petriccione. Divennero otto dopo l’arresto di Fabio Magnetti perché Antonio Mennetta ordinò a mio fratello Umberto l’omicidio di Marco Riccio, perché si sospettava che avesse fatto la soffiata per all’arresto di Fabio. Così mio fratello Umberto entrò in società con noi”. Marco Riccio aspirava a diventare un ras, ma era ancora un ragazzino, aveva già due figli dalla sua compagna. Da Scampia si era trasferito nella zona della “Vinella” a Secondigliano da quando aveva lasciato il ruolo di “sentinella” della droga alle Case dei Puffi, per conto degli Amato-Pagano, per “lavorare” con i Petriccione-Magnetti.

(nella foto il luogo dove fu ritrovato il cadavere di marco Riccio e in alto da sinistra, Antonio Accurso, Umberto Accurso, Anonio Mennetta e Fabio Mignetti)

Napoli, omicidio Ciro Esposito: De Santis condannato a 26 anni di carcere. Proteste dei familiari della giovane vittima

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È stato condannato a 26 Daniele De Santis, l’ultrà giallorosso accusato di aver ferito e ucciso Ciro Esposito durante gli scontri che precedettero, il 3 maggio del 2014, la finale di Coppa Italia, Napoli Fiorentina. La sentenza dei giudici della terza sezione della Corte d’Assise di Roma è stata letta nell’aula bunker di Rebibbia dopo tre ore e mezzo di camera di consiglio. Era presente Daniele De Santis. Presenti in aula i legali della famiglia Esposito, Angelo e Sergio Pisani, i genitori di Ciro, la mamma Antonella Leardi e il padre Giovanni, e, nella parte riservata al pubblico, altri parenti del giovane di Scampia ferito gravemente il 3 maggio 2014, poco prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, e morto dopo un’agonia di 53 giorni. Condannati per lesioni anche i due tifosi napoletani Gennaro Fioretti e Alfonso  Esposito, entrambi a otto mesi ciascuno, pena sospesa. Proteste in aula alla lettura della sentenza. I familiari di Ciro Esposito hanno inveito più volte contro l’ultrà romanista: “Ventisei anni di carcere sono pochi, devi marcire in galera” .


L’allarme della Dda: “Stanno per essere scarcerati numerosi boss dei Casalesi”

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Stanno per avvenire ”scarcerazioni eccellenti di esponenti di primo piano del clan dei Casalesi, torneranno sul campo personaggi di grande pericolosità, che una volta liberi non si dedicheranno certo ad oneste attività lavorative”. Lo ha detto il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, coordinatore della Dda di Napoli a margine dell’operazione dei carabinieri che ha portato all’esecuzione di 53 arresti nei confronti del gruppo ”Gagliardi, Fragnoli, Pagliuca” di Mondragone. Borrelli ha sottolineato che ciò avviene in quanto molti personaggi di rilievo, alcuni coinvolti anche nel processo Spartacus, torneranno entro breve in libertà per aver espiato la pena. Ciò è normale essendo il nostro – ha precisato – uno Stato di diritto, ma il ritorno in libertà di personaggi di tale spessore crea comunque uno stato di allarme”. La Dda sta monitorando la situazione ed ha istituito ”un gruppo di lavoro” per vagliare l’ingente materiale scaturito dalle rivelazioni dei pentiti. Borrelli ha detto che tale attività produrrà a breve importanti risultati.

La faida di Scampia: “Jonny ‘o niro” diventò armiere della Vinella Grassi dopo essere scampato alla morte per mano di Pierino Licciardi

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Uno degli armieri della Vinella Grassi all’epoca dela faida di Scampia era Joanderson Monaco detto “Jonny ‘o niro” ma prima era stato un affiliato a Di Lauro e come racconta il pentito  Carlo Capasso fu salvatto da morte sicura perché Pierino Licciardi aveva deciso di ucciderlo visto che aveva litigatoe  accoltellato uno dei licciardi appunto. Ecco cosa ha raccontato Capasso : “Arrivati alla Masseria Cardone incontrammo Pierino Licciardi, Pasquale Salomone, Paolo Abbatiello, Peppe Pellegrino e altre persone che non ricordo. Ciro Maisto cominciò a parlare con Pierino Licciardi, il quale ci disse che un ragazzo del Rione Berlingeri soprannominato “Jonny o’ niro», ragazzo di colore imparentato con Ugo De Lucia, aveva accoltellato un affiliato al clan Licciardi…Pierino Licciardi ci disse che dovevamo prendere “Jonny o’niro ed accoltellarlo come lui aveva fatto con questo ragazzo; altrimenti lo avrebbe ammazzato… … Jonny ’o niro non era un nostro affiliato ma era imparentato con Ugo De Lucia, mostro affiliato. Allora Pica Giuseppe ci disse di andare a prenderlo e di picchiarlo davanti a per evitare che quest’ultimo lo ammazzasse. Pasquale Rinaldi andò e lo portò nel posto indicato da Pierino Licciardi. Scendemmo in un garage ed alla presenza anche di Licciardi e Peppe Pellegrino, io e Ciro Maisto incominciammo a picchiare Jonny o’ niro. Intervenne a un certo punto Pierino Licciardi, prese un coltello che aveva in tasca e si avvicinò per accoltellarlo. Ma Ciro Maisto per evitare che Licciardi lo accoltellasse mortalmente, gli tolse il coltello da mano e lo fece lui stesso, colpendolo al volto e sulla testa. Dopo essere stato colpito nel modo che ho descritto, Jonny o niro perdeva sangue, in quanto colpito su entrambi i lati del volto e sul capo, e venne accompagnato in ospedale da Pasquale Rinaldi”. Di Jonny ‘o niro che è stato condannato a 22 anni di carcere per l’omicidio di Antonello Faiello, hanno parlato ampiamente anche i pentiti della Vinella Grassi.

Mario Pacciarelli ha raccontato:

“MONACO JOANDERSSON detto JOHNNY O NIRO aveva il compito di mantenere la cocaina di MAGNETTI FABIO, GUARINO ROSARIO e MENNETTA ANTONIO; era custode dello stupefacente che alla VINELLA veniva mandata da MARIANO RICCIO;… … all’epoca dell’omicidio FAIELLO MONACO veniva pagato da FABIO MAGNETTI, non so dire quanto. MONACO JOANDERSSON non ha partecipato a delitti di sangue; non è mai stato sulla piazza di spaccio; io ho visto che MONACO JOANDERSSON si riceveva la droga a pacchi da UMBERTO DE VITALE, il figlio di PEPESCE: questi due camminano assieme. La droga viene da MARIANO RICCIO e la portano direttamente alla Vinella, Specifico: quando arriva il carico a MELITO MARIANO RICCIO manda tramite un suo affiliato, CICCIARIELLO o FRANCO o ANTONIO o GEMELLO, a GUARINO ROSARIO dicendo che ci sta la fatica oppure che ‘domani arriva il lavoro’ ed allora GUARINO lo diceva a MAGNETTI e costui incaricava o MONACO JOANDERSSON o UMBERTO DE VITALE di prelevare i pacchi da emissari di MARIANO RICCIO che venivano a Secondigliano a consegnare la droga con macchine a sistema… quando vennero arrestati MAGNETTI FABIO e MONACO JOANDERSSON io ero in carcere; FABIO quando entrò nella mia sezione qui a Secondigliano, mi disse che lui venne preso dalla Polizia… …MAGNETTI stava facendo una riunione di cocaina… …MONACO JOANDERSSON stava sempre con MAGNETTI FABIO e si stavano preparando per dove andare a prendere la roba dai venditori.   …Vi era un buon rapporto, gli AMATO PAGANO fornivano ogni quindici giorni massimo un mese, un quantitativo di cocaina, 50, 60 anche 100 chili al mese… ….Il flusso della cocaina si ridusse e la portava sulla VINELLA dove UMBERTO DE VITALE, per conto di MAGNETTI FABIO ed un loro affiliato, organizzavano il trasporto dei pacchi; non so dire dove si trovasse l’appoggio. Era coinvolto anche MONACO JOANDERSSON, specificamente nello stesso ruolo di DE VITALE UMBERTO, per come ho già riferito…”.    

Rosario Guarino, “Joe banana” invece ha detto:

MONACO JOANDERSSON detto JOHNNY O NIRO è il cugino della moglie di MAGNETTI FABIO, che è la figlia di ESPOSITO VINCENZO detto O’ PORSCHE. MONACO JOANDERSSON si è sempre occupato di vendere armi al gruppo della Vinella Grassi, dal 2009 in poi……MONACO JOANDERSSON aveva anche un ruolo sulla droga; quando venne arrestato DE VITALE UMBERTO, MONACO subentrò nel ruolo della droga occupato da UMBERTO DE VITALE: tagliava, consegnava… …Per quanto riguarda la droga, io non ho mai visto MONACO JOANDERSSON tagliare la droga ma a consegnarla sì, gli ho fatto consegnare la droga proprio a LEONARDI FELICE, figlio di CHIAPPELLONE, dieci chili di cocaina, eravamo nel maggio del 2012… …MONACO JOANDERSSON prima non era pagato da noi, ma dopo il blitz del gennaio 2012, dando appoggio a FABIO MAGNETTI, è entrato a far parte degli stipendiati dalla Vinella Grassi, e prendeva 1,500 euro al mese dalla cassa……Anche adesso che è in carcere MONACO è stipendiato dalla Vinella Grassi…

 

 

ANTEPRIMA. I verbali del pentito Alfonso Loreto, ecco chi pagava il pizzo al clan a Scafati e dintorni: dai Longobardi ai Chiavazzo, fino ai Principe di Pompei

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Il fiume in piena Alfonso Loreto, il pentito di camorra di Scafati  rischia di travolgere tutto e tutti nella cittadina dell’Agro con le sue dichiarazioni. Ha raccontato agli investigatori gli ultimi anni di camorra a Scafati: le estorsioni, i fatti di sangue, i traffici illeciti, i rapporti con la politica. Insomma un racconto completo parte del quale è già agli atti del processo che si celebrerà a giorni e che vece imputato lo stesso e buona parte dei suoi accoliti. Alfonsino Loreto, figlio del del pentito Pasquale, ha  spiegato agli investigatori, facendo nome e cognome, di come gli industriali di Scafati erano costretti a pagare il pizzo al suo clan. Ecco le sue dichiarazioni in esclusiva e in anteprima: “Facit faticà e paesan, siamo giovani, siamo carne che cresce” si presentavano così con nome e cognome i rampolli del clan Loreto-Ridosso agli industriali conservieri ai quali imponevano il servizio di pulizia e manutenzione nelle industrie scafatesi e non.

I conservieri costretti ad assumere “i guaglioni” del clan. Alfonso Loreto narra la nascita della sua attività, appena diciotto anni creò la prima società per imporre la pulizia e non solo ai conservieri. “La prima società fu creata da me, ero amministratore della ‘Delta Service di Loreto Alfonso’ – dice – per entrare nel settore appalti privati. Da subito prendemmo gli appalti dai Longobardi (l’industria di famiglia di Nello Longobardi, ex presidente dell’Acse, e patron dello Scafati Basket, ndr)”. Appalti in tutte e tre le sedi dell’azienda conserviera. “Due siti a Scafati e uno a Calvi, a Benevento. Poi prendemmo Teodoro Di Lallo, Bruno, con l’azienda di Scafati”. Bastava il nome. Nessuno di scompose più di tanto e fecero lavorare i giovani anche presso il Centro Plaza e in altre ditte private scafatesi. “non è stato troppo necessario un atto intimidatorio – dice Alfonso Loreto – quando ci presentavamo io e Luigi Ridosso dicevamo è meglio che ci facit faticà siamo paesani”. Minacce velate, ma neanche troppe, quelle dei rampolli della cosca egemone a Scafati per dieci anni. I verbali di Loreto sono ricchi di particolari, moltissimi dei quali coperti da ‘omissis’, molte vittime e complici nascosti ancora per non compromettere le indagini in corso. “Vir te vo parlà papà. Lo prendemmo, stava in pigiama, e lo portammo in via Fondo Monaco a Scafati”. Papà è Pasquale Loreto, pentito, che nel 2009 giunse a Scafati per regolare i suoi affari e ripristinare l’ordine della camorra imponendo a noti industriali conservieri il pagamento della tangente al clan Loreto-Ridosso. A raccontare i particolari di quegli incontri ‘forzati’ il rampollo di famiglia, Alfonso Loreto, che insieme ai suoi fidati amici e complici dell’organizzazione criminale prelevarono le persone indicate dal padre per portarle al suo cospetto. Era il 2009. Pasquale Loreto, nonostante fosse in località protetta arrivò a Scafati. “E’ sceso lui, sua figlia Claudia e sua moglie perché chell in effetti è la moglie … quale compagna … mia mamma sa spusat e c’è stata due anni tutt cos. Comunque scese Santa Formisano con Pasquale Loreto e Claudia la figlia – dice Alfonso Loreto – Santa Formisano e la figlia la appoggiammo da Teodoro Di Lallo, Bruno, dalla zia a dormire, e io a mio padre lo appoggiai presso un suo parente, Ciccillo, in via Fondo Monaco a Scafati. Venne perché doveva fare soldi ‘iss si doveva drogà’ perché penso che chill ultimamente i motivi di rottura con mio padre sono stati per la droga”.

Gli imprenditori sequestrati. Il primo ad essere prelevato e portato al cospetto del pentito fu Gaetano Novi, noto imprenditore e titolare di un grosso deposito di pomodori. “Io, Salvatore Ridosso e Luigi Ridosso (di Salvatore) andammo a prendere prima Gaetano Novi, un grosso commerciante di pomodori, erano le nove-dieci di sera. ‘Vir te vo parlà papà’ gli dissi”. L’uomo probabilmente credeva che quel parlare sarebbe stato via cavo, invece lo fecero salire in pigiama in auto e lo protarono da Pasquale Loreto. “Gli fu fatta una richiesta estorsiva di 50mila euro, ma Novi non pagò. “Sapemmo da Vincenzo Galasso, che ci stava in contatto – racconta Alfonsino – che era andato a denunciare. Io dissi ‘aspettamm nu poco’ lo dovevamo ammazzare, ma non lo trovavamo, avevo deciso di gambizzarlo”. Ma Novi non fu l’unico a essere portato alla corte di Pasqualino Loreto. “Il giorno dopo mandò a chiamare Giuseppe Chiavazzo (anch’egli un imprenditore conserviero), gli fa un’estorsione di diecimila euro e si accorda. Doveva pagare dopo 15 giorni. Se li chiudeva nello studio mentre noi eravamo fuori. Poi i soldi li avremmo divisi”. Chiavazzo alla scadenza non pagò e fu vittima di un violentissimo pestaggio da parte di Salvatore Ridosso e Alfonsino Loreto “Lo sbattemmo con la capa nel muro’ racconta al pm Giancarlo Russo. In successione la ‘convocazione’ fu fatta a Antonio De Clemente. “Lo portammo e pagò subito 5mila euro – dice Alfonso Loreto -, poi sono andato a ritirare altri diecimila”. In quella stessa mattina fu convocato anche Salvatore Ferraiuolo, il titolare del noto negozio ‘Principe’ di Pompei al quale i rampolli del clan dovevano tantissimi soldi. Un’estorsione, già contestata, al clan nell’ordinanza eseguita a settembre scorso. “Salvatore ‘Principe’ se ne ascett chiagnenn dicett non voglio sapè niente, aggia iut sott e ncopp però non voglio più niente”. Tutti i membri del clan andavano a vestirsi presso il noto negozio di griffes pompeiano. Dopo quell’incontro rinunciò a migliaia di euro. (rosaria federico)

(altri particolari sul quotidiano La Città in edicola)

Torre del Greco, appalto per le luminarie natalizie: indagato l’assessore Mele

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C’è un quinto indagato nell’inchiesta della Procura di Torre Annunziata sull’appalto da 400 mila euro per le luminarie natalizie al comune di Torre del Greco. Si tratta dell’assessore Luigi Mele, fedelissimo del sindaco forzista Ciro Borriello che secondo il pm Rosa Annunziata sarebbe stato ” L’istigatore della turbativa d’asta”. Luigi Mele, assessore ai lavori pubblici e ai servizi tecnologici però si difende sostenendo di non aver ricevuto alcun avviso di garanzia. Ma il suo nome compare nell’avviso di garanzia inviato a Mario Pontillo, dirigente del settore tecnologico del comune di Torre del greco dell’architetto Maria Solo, responsabile del progetto. Con loro due avevano già ricevuto nei giorni scorsi l’avviso di garanzia anche i due titolari delle ditte del doppio bando per le luminarie promosso dal comune. Mele si difende sostenendo “Rispetto al passato la nostra amministrazione ha ridotto le spese per le luminarie garantendo uno spettacolo apprezzato da tutti i nostri cittadini. evidentemente devo aver dato fastidio a qualcuno” Anche il sindaco Borriello lo difende: ” La sua carica di assessore non è in discussione qualora risultasse indagato sono sicuro che riuscirà a dimostrare la sua estraneità ad eventuali accuse”.

 

(nella foto il sindaco di Torre del Greco, Ciro Borriello e l’assessore Luigi Mele)

Scafati, Alfonsino Loreto: “Ecco perché ho deciso di pentirmi”. Tutti gli uomini del clan

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protezione pentito

Trent’anni appena. Ha passato tutta la sua vita nell’orbita di un clan, prima quello del padre Pasquale Loreto, poi la sua famiglia è diventata quella dei Ridosso. “Ho deciso di collaborare perché i miei familiari stanno male, ho due figli piccoli e poi mia sorella è malata”: questa la giustificazione alla decisione di collaborare con la giustizia da parte di Alfonso Loreto che il 23 febbraio scorso racconta, nel primo verbale illustrativo, la sua partecipazione al clan Loreto Ridosso. Racconta di Pasquale Loreto ‘chill’ come lo indica spesso nei verbali che si è mangiato anche ‘i soldi della nonna’ con il quale ha avuto grossi contrasti per la ‘droga’ perché aveva un bisogno continuo di danaro. Sposato con Giovanna Barchiesi, nipote del consigliere Roberto Barchiesi, dalla quale è separato e ha avuto una bambina, è attualmente legato ad Alessia, la sua compagna, dalla quale ha avuto due figli piccolissimi che non portano il suo cognome. Alfonso Loreto comincia la sua collaborazione il giorno dopo il compleanno della prima figlia. E vuota il sacco. Una militanza durata un decennio e giunta all’apice tra il 2007 e il 2009. Un decennio di estorsioni, attentati, affari e appalti ottenuti grazie al potere dell’intimidazione e delle armi. Usura, estorsioni, videopoker e omicidi: questi i temi centrali della collaborazione di Alfonsino Loreto, condito da alleanza e rancori, oltre che di accordi e complicità con il tessuto sociale e politico di Scafati.

La nascita del clan e i capi. All’inizio il capo dell’organizzazione era Salvatore Ridosso, siamo ai primi anni del 2000, e Tore ‘piscitiello’ si impone a suon di botte in città. Vuole mettere le mani sull’affare videopoker e non sopporta che il clan Aquino-Annunziata, alleato con i Muollo, impongano la droga in città. Ma i contrasti si accendono presto e i Muollo, con i quale i Ridosso entrano in collisione, decidono di eliminare ‘Salvatore’. E’ l’inizio della faida, Alfonsino Loreto è minorenne ha appena 16 anni. “Venni convocato da Generoso Di Lauro – ha raccontato il neo pentito – che mi disse di allontanarmi perché stava per succedere qualcosa. Io scesi e avvertii Salvatore, mi sentivo della sua famiglia”. La morte di Salvatore Ridosso, impone a Romolo, il fratello una vendetta e nel giro di un anno i Ridosso tentano di uccidere Generoso Di Lauro e uccidono Luigi Muollo.

Il nuovo clan. “Entrai a far parte del gruppo dopo la fase degli omicidi – dice Alfonso Loreto – e da quel momento in poi la ‘Cassazione’ eravamo io, Gennaro Ridosso e Salvatore Ridosso di Salvatore. Il periodo migliore gli anni dal 2007 in poi”. Ascesa conclusasi solo con l’arresto degli affiliati nel 2014 per la tentata estorsione per conto dell’ottico Ulderico Siano di Salerno. 

“Abbiamo sempre avuto armi, giravamo tutti armati, o addosso o in macchina sempre. Giravamo con armi di piccolo calibro, tranne Gennaro che amava girare con una Magnum P38 corta che po’ ‘amma cummess nu raid’ con questa”. C’era una ‘cassa’ comune delle ari, custodite in una cantina vicino casa dei Ridosso, ma c’era anche una cassa comune per le estorsioni o gli introiti dei videopoker. Già perché Alfonso Ridosso racconta di aver stabilito l’egemonia a Scafati sull’affare slot che fruttava 80 euro a macchinetta installata nei bar e negli esercizi commerciali scafatesi. Tutto attraverso una ditta di Castellammare di Stabia. “nel 2007-2008 il gruppo decise nuovamente di interessarsi al settore dei videopoker, in quel periodo il clan Tammaro-Di Lauro era stato già colpito dalle misure anche se a loro nome vi erano altre persone che lavoravano come Mario Cerbone, Vincenzo Starita, Gianluca Tortora, Raffaele Alfano detto polvere di Stelle”. Chi meglio di Alfonso Loreto conosce gli affari della sua cosca e quelli degli avversari. Il capito di quanto accaduto ‘criminalmente’ a Scafati nell’ultimo decennio è lungo. Il collaboratore di giustizia svela retroscena inediti su episodi commessi dal suo clan ma anche degli altri. L’affare videopoker gestito in monopolio dai Loreto-Ridosso, attraverso un’agenzia di scommesse per la quale avevano un appalto di pulizie, sulla Statale. Funzionava così: il gestore degli impianti, Tommaso De Luca, consegnava ai titolari dello Strike i soldi della mesata e questi poi li giravano a Luigi Ridosso o Alfonso Loreto. Cinquantamila euro l’anno, circa 5mila euro al mese. Ma Alfonsino rivela che a far parte del suo gruppo vi era anche un gruppo già noto a Scafati, capeggiato da Andrea Spinelli, detto Dario. “Ad oggi il gruppo è composto – dice Loreto, da Gennaro Ridosso, Luigi di Salvatore, Alfonso Loreto, Alfonso Morello, Dario Spinelli e Cenatiempo Roberto che si occupa dei proventi illeciti dei videopoker e degli appalti di pulizia e manodopera”. Un decennio in cui non sono mancati screzi con gli avversari. Da una parte i Loreto-Ridosso dall’altro il gruppo più vicino a Franchino Matrone, ovvero al figlio Michele. Proprio Dario Spinelli fu tra le vittime di una ritorsione ‘avversaria’. “L’attentato all’auto di Dario Spinelli che fa parte del nostro gruppo e al quale passavamo 2-300 euro a mese dai soldi delle macchinette, o al quale venivano fatti prestiti – dice Loreto – a suo dire era stato fatto da Carmine Alfano, bim bum bam, perché lo zio della moglie era rimasto in debito per l’acquisto di droga e Spinelli si era fatto garante del pagamento. Non essendo stato onorato il pagamento Carmine Alfano se l’era presa con Spinelli con la bomba carta”.

Rosaria Federico

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