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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Fu uccisa dall’ex, danno iniquo per la morte di Maria Mennella impugnata la sentenza in sede civile

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Un risarcimento troppo esiguo quello addebitato ad Antonio Ascione il pizzaiolo di Torre del Greco che il 23 luglio del 2017 uccise l’ex moglie, Maria Archetta Mennella, a Musile di Piave nel veneziano. L’avvocato dei familiari della vittima ha chiesto di parificare l’entità del risarcimento a quello previsto per i familiari delle vittime di un incidente stradale. Antonio Ascione, condannato per omicidio a vent’anni di reclusione (trenta scontati di un terzo per effetto della scelta del rito abbreviato) lo scorso 4 ottobre dal Tribunale di Venezia è stato condannato anche al risarcimento dei danni e indicato una provvisionale immediatamente esecutiva di 50mila euro per i figli, 30mila per la mamma e 20mila per le sorelle e il fratello. L’avvocato Alberto Berardi del Foro di Padova, che assiste i familiari della vittima con la collaborazione di Studio 3A, ha impugnato in sede civile la sentenza di condanna dell’assassino ed ha chiesto di equiparare il risarcimento a quello previsto per i familiari delle vittime di incidenti stradali.

Cronache della Campania@2018


Bancarotta Novaceta: Lettieri condannato a 4 anni e 4 mesi insieme al fratello di Tronchetti Provera e altri 15 imputati ecellenti

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Condanne eccellenti a Milano nel processo per il fallimento della Novaceta Spa, poi diventata BembergCell, storica azienda di Magenta, nel milanese, leader nella produzione di filo acetato in Italia e nel mondo. Sono diciassette i condannati e due soli gli assolti. Tra i condannati ci sono il manager Maurizio Cimatti, l’ex candidato sindaco del centrodestra a Napoli Gianni Lettieri, il fratello del vicepresidente e amministratore delegato di Pirelli Roberto Tronchetti Provera e l’avvocato Nicola Squillace. Sette anni di carcere per l’imprenditore Massimo Cimatti, 6 anni e mezzo per Nicola Squillace, 4 anni e 4 mesi per per Gianni Lettieri, e poi 4 anni invece per Roberto Tronchetti Provera, fratello di Marco e dall’ottobre 2003 al 5 maggio 2005 presidente del Cda, 2 anni e mezzo per un paio di imputati minori. Sono alcune delle pene inflitte oggi dal Tribunale di Milano al termine del processo per bancarotta con al centro il crac di Novaceta Spa. I giudici hanno anche disposto provvisionali in favore delle parti civili Novaceta e BembergCell di 1 milione per la prima e 4 per la seconda e 1500 euro, come danno non patrimoniale, per ciascuno dei circa 20 lavoratori che si cono costituiti nel dibattimento. Secondo quanto ricostruito dal pm Bruna Albertini, che a novembre 2017 aveva chiesto 19 condanne fino a un massimo di 13 anni di carcere, tutti gli imputati si sarebbero resi colpevoli di “operazioni distrattive e di depauperamento di ampia portata” per un totale di circa 70 milioni di euro. Una “mala gestio”, aveva sostenuto in aula la rappresentante della pubblica accusa, iniziata sotto la gestione Cimatti e, dal 2007 in avanti, proseguita con Lettieri, prima amministratore unico e poi presidente della società, “con il risultato di lasciare senza lavoro” circa 220 operai fino a quel momento nello stabilimento di Magenta.

Cronache della Campania@2018

Il boss Setola falso cieco per evadere e uccidere ancora, condannato famoso oculista di Pavia

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Caserta. Attestò che il boss Giuseppe Setola era cieco, una falsa diagnosi grazie alla quale il killer dell’ala Bidognetti dei Casalesi riuscì ad ottenere un ricovero nella clinica dell’oculista a Pavia. Per il noto professionista Aldo Fronterrè, ex primario della clinica Maugeri di Pavia, è arrivata la condanna a 10 anni di reclusione, il pm ne aveva chiesti 16. I giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere – presidente Di Girolamo – hanno condannato l’oculista pavese e il superkiller Giuseppe Setola, a 8 anni di reclusione, per simulazione di reato. Grazie al certificato che attestava falsamente la sua cecità all’occhio destro, il boss dell’ala Bidognetti riuscì a ottenere gli arresti domiciliari in un appartamento in centro storico a Pavia, nella zona di via Garibaldi, concessi proprio perché potesse curarsi alla Maugeri per una patologia del tutto inesistente per l’accusa. Il 7 aprile 2008 era evaso dagli arresti domiciliari facendo perdere le proprie tracce, in quel periodo di latitanza e fino al 14 gennaio del 2009 quando fu arrestato a Mignano Montelungo, commise – secondo l’accusa – 18 omicidi tra i quali la strage dei ghanesi a Castel Volturno e l’agguato all’imprenditore Domenico Noviello.

Cronache della Campania@2018

Tifoso morto, Da Ros patteggerà meno di 2 anni: abbreviato per gli altri ultrà

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La Procura dà l’ok per il patteggiamento con sospensione della pena per Luca Da Rom, il tifoso dell’Inter che ha collaborato con gli inquirenti dopo l’arresto per gli scontri del 26 dicembre prima di Inter-Napoli. L’accordo raggiunto tra difesa (avvocato Alberto Tucci) e Procura è per una pena inferiore ai due anni di reclusione e la sospensione condizionale della pena.  Sull’istanza di patteggiamento si dovrà esprimere, il gup Carlo Ottone De Marchi. I due capi della curva nerazzurra Marco Piovella e Nino Ciccarelli, invece, difesi dal legale Mirko Perlino, hanno scelto la strada dell’abbreviato. Stessa scelta, pare, anche per le altre tre persone al momento arrestate nell’inchiesta milanese. Le istanze delle difese per il patteggiamento e gli abbreviati dovrebbero essere depositate domani. Nei giorni scorsi, l’aggiunto Letizia Mannella e i pm Rosaria Stagnaro e Michela Bordieri avevano chiesto e ottenuto per tutti e sei il rito immediato.
Da Ros, finito in carcere due giorni dopo la guerriglia di via Novara assieme ad altri due ultras nerazzurri, Francesco Baj e Simone Tira, era stato scarcerato dal gip lo scorso 5 gennaio e poi lo scorso 11 febbraio ha anche ottenuto la revoca degli arresti domiciliari. Nel corso “di una pluralita’ di interrogatori”, ha scritto, infatti, il gip Guido Salvini, il giovane “ha dato un significativo contributo alle indagini sui fatti del 26 dicembre, consentendo di ricostruire per quanto a sua conoscenza lo scenario di quegli eventi”. Da Ros, già nell’interrogatorio dopo l’arresto, aveva chiamato in causa Piovella (poi finito in carcere), detto ‘il Rosso’, come uno dei capi dei Boys della curva interista che avrebbe impartito gli “ordini” per l’agguato contro gli ultras napoletani. E poi aveva collaborato anche davanti ai pm e su un album fotografico mostratogli aveva riconosciuto alcuni dei partecipanti all’assalto, tra cui Nino Ciccarelli, capo dei Viking della curva, anche lui poi arrestato. Per tutti e sei gli arrestati le accuse sono di rissa aggravata dalla morte del tifoso Belardinelli, lesioni nei confronti di quattro ultras napoletani e lancio di oggetti pericolosi. E per Ciccarelli c’è anche la violazione di un Daspo. I sei, tra l’altro, sono anche indagati, così come tutti gli oltre 30 coinvolti nell’inchiesta, per omicidio volontario.

Cronache della Campania@2018

Arresto genitori, Renzi su Fb: “Rispetto la giustizia ma provvedimento assurdo. Non lascio la politica”

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“Sono costretto ad annullare la presentazione del libro a Torino per una grave vicenda personale. Da circa un’ora mio padre e mia madre sono ai domiciliari. Ho molta fiducia nella giustizia italiana e penso che tutti i cittadini siano uguali davanti alla Legge. Dunque sono impaziente di assistere al processo. Perchè chi ha letto le carte mi garantisce di non aver mai visto un provvedimento così assurdo e sproporzionato. Mai. Adesso chi crede nella giustizia aspetta le sentenze. Io credo nella giustizia italiana e lo dico oggi, con rispetto profondo, da servitore dello stato”. Così sul suo profilo Facebook l’ex premier Matteo Renzi. “Arriveranno le sentenze – aggiunge – e vedremo se questi due cittadini settantenni, incensurati, sono davvero i pericolosi criminali che meritano – oggi, casualmente proprio oggi – questo provvedimento. Arriveranno le sentenze e misureremo la credibilità delle accuse. Arriveranno le sentenze e vedremo chi è colpevole e chi no. Da rappresentante delle Istituzioni difendo lo Stato di diritto e chiedo a tutti di credere nella giustizia. Da figlio sono dispiaciuto per aver costretto la mia famiglia e le persone che mi hanno messo al mondo a vivere questa umiliazione immeritata e ingiustificata. Se io non avessi fatto politica, la mia famiglia non sarebbe stata sommersa dal fango. Se io non avessi cercato di cambiare questo paese i miei oggi sarebbero tranquillamente in pensione”.
“Dunque mi sento responsabile per il dolore dei miei genitori, dei miei fratelli, dei miei figli e dei miei nipoti – sottolinea Renzi -. I dieci nipoti sanno però chi sono i loro nonni. Sanno che possono fidarsi di loro. E sanno che ciò che sta avvenendo è profondamente ingiusto. Ma voglio che sia chiaro a tutti che io non mollo di un solo centimetro. La politica non è un vezzo personale ma un dovere morale. Se qualcuno pensa che si possa utilizzare la strategia giudiziaria per eliminare un avversario dalla competizione politica sappia che sta sbagliando persona. Non ho mai avuto così tanta voglia come stasera di combattere per un Paese diverso e per una giustizia giusta. Chi ha letto le carte dice che di questa storia si parlerà a lungo e che siamo davanti a una decisione assurda. Io non ho letto le carte, aspetto le sentenze. So però ciò che hanno fatto in questi anni alla mia famiglia. E mi basta per dire che non accetteremo nessun processo nelle piazze o sul web. I miei genitori si difenderanno in aula, come tutti i cittadini. Io continuerò a combattere per questo Paese, forte della mia onestà. Forte delle mie idee. Forte dell’affetto di tanta gente che sa perfettamente che cosa sta accadendo”, conclude Renzi.

Cronache della Campania@2018

Certificati falsi al killer Setola: altre 5 relazioni mediche nel mirino

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Certificati falsi al killer Setola: 5 relazioni nel mirino. Gli attestati della direzione sanitaria del carcere finiscono in Procura. La cecità del killer dei Casalesi Giuseppe Setola finisce nuovamente in Procura. E’ quanto ha disposto la seconda sezione penale (collegio B) presieduta dal giudice Loredana Di Girolamo a margine della sentenza con cui sono stati condannati Setola, difeso dall’avvocato Paolo Di Furia, ed l’oculista Aldo Fronterré, difeso dall’avvocato Pasquale Coppola, che attestò falsamente l’incompatibilità del boss stragista con il carcere consentendogli il trasferimento presso la clinica Maugeri di Pavia da cui Setola scappò dando inizio alla scia di morte del 2008.
Ed ora nel mirino della magistratura è finito il diario clinico di Setola ed in particolare le certificazioni redatte dalla direzione sanitaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sotto la lente d’ingrandimento sono finiti 5 accertamenti oculistici (del 2 novembre 2004, del 5 maggio 2005, 18 aprile 2006, 30 maggio 2006 e 30 ottobre 2006) per i quali i giudici hanno dichiarato la falsità parziale e disposto la cancellazione nelle parti riguardanti l’occhio destro e la trasmissione degli atti al pm per le valutazioni del caso. Nella sentenza i giudici hanno anche cancellato la perizia attestante la “cecità parziale” redatta da Fronterrè e depositata nel febbraio 2011 in Corte d’Assise nel corso del processo per la strage di Castel Volturno.

 

 Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Messaggi hot alle piccole allieve: condannato il maestro di musica

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Confermata in Appello la condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale – mai consumata – a carico di un sessantaduenne di Pagani. Le vittime due alunne minorenni del maestro di musica popolare, destinatarie di messaggi “hot”. L’indagine era partita dopo la denuncia sporta dalla madre di una delle due vittime, entrambe undicenni, in seguito alla ricezione di messaggi dal contenuto erotico, inviati più volte e per più giorni. I carabinieri acquisirono le conversazioni scambiate tra l’uomo e le due minori attraverso sms e whatsapp.

“Ti voglio bene, mi manchi, non posso stare senza te”, questi i messaggi contenuti nelle chat di Whats App tra il maestro di musica di strumenti popolari di Pagani e le due bambine di undici e dodici anni. I messaggi erano scoperti dalle mamme delle due bimbe preoccupate per gli strani atteggiamenti delle loro figlie. Dalle indagini è emerso che l’uomo avrebbe abusato del rapporto quotidiano di frequentazione con le ragazzine minori, avvantaggiandosi della sua posizione di direttore artistico e insegnante della scuola di balli, “con una intensa e sistematica attività di persuasione e pressione psicologica, con frasi esplicite, richieste di incontri a sfondo sessuale, apprezzamenti diretti ad ottenere il compimento di atti sessuali, richieste di appuntamento, piccole regalie, nonché cercando in una occasione di baciarle sulla bocca”. L’uomo fu arrestato nel gennaio del 2017 e posto agli arresti domiciliari.

 

Cronache della Campania@2018

Tragedia della Solfatara, in aula a maggio per valutare le perizie tecniche

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Napoli. Il presidente aggiunto del Gip di Napoli, Isabella Iaselli, ha fissato per il giorno lunedì 20 maggio l’udienza camerale per esaminare la perizia prodotta dai sette esperti incaricati di valutare i rischi del sito e di individuare i necessari interventi di messa in sicurezza dell’area della Solfatara di Pozzuoli, dove tragicamente morirono il 12 settembre 2017 il piccolo Lorenzo Carrer, il padre, Massimiliano, e la madre, Tiziana Zaramella, di Meolo in provincia di Venezia. Ad annunciarlo sono i legali dei familiari delle vittime. Nel tragico avvenimento sopravvisse solo il figlio più piccolo che oggi vive con la zia. Nel registro degli indagati, per il reato di disastro colposo, sono stati iscritti Giorgio Angarano, amministratore della Vulcano Solfatara srl, e cinque soci della società che gestisce l’area: Maria Angarano, Maria Di Salvo, un’omonima Maria Di Salvo, Annarita Letizia e Francesco Di Salvo.

Cronache della Campania@2018


Uccise l’amico della sua ex moglie: condannato a 15 anni di carcere

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Non sono bastate le scuse ai giudici e alla famiglia di Maurizio Fortino da parte di Davide Giorgio Sanzone. Fortino il 20 luglio del 2017 con una sola coltellata provocò la morte dell’uomo, un infermiere di 52 anni trovato nell’appartamento con l’ex moglie di Sanzone. I giudici della corte d’Appello hanno condannato l’uomo ad una pena di 15 anni per omicidio volontario. I giudici, nel corso dell’udienza, hanno verbalizzato le dichiarazioni spontanee dell’imputato che ha chiesto perdono alla vittima spiegando di non voler uccidere l’infermiere, confermando quanto riferito ai carabinieri subito dopo l’omicidio. L’uomo ha dichiarato di aver agito per gelosia pregando la vittima di non denunciarlo. Il 52enne subito dopo la coltellata si mise in sella al suo scooter in direzione dell’ospedale. Durante il tragitto cadde e fu soccorso da un’ambulanza chiamata da alcuni passanti. Arrivò in condizioni disperate in ospedale ma la ferita, inflitta con un coltello dalla lama di circa cinque centimetri, l’ha portato alla morte. L’omicidio si è consumato a Nocera, a casa dell’ex moglie di Sanzone. I due erano infatti separati da poco più di cinque anni. L’uomo rientrando a Milano si diresse prima verso casa sua e poi dall’ex dove notò la presenza dell’uomo con il quale aveva una relazione con la donna. Entrato in casa ritrovò il 52enne nel bagno così Sanzone si diresse in cucina, prese un coltello e lo colpì. Durante l’interrogatorio di garanzia l’aggressore sostenne di essere stato aggredito da Fortino e di averlo colpito nel tentativo di difendersi e che a fargli perdere il controllo fu la presenza in casa della figlia che non avrebbe dovuto vedere altri uomini in compagnia della madre.

Cronache della Campania@2018

Casalesi in Veneto, tra gli arrestati anche un sindaco, un poliziotto, commercialisti e avvocati

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Colpo alla camorra infiltrata in Veneto. La Guardia di Finanza e la Polizia, coordinate dalla Dda di Venezia, hanno eseguito 50 misure cautelari e 11 provvedimenti di obbligo di dimora e di altro tipo. Sequestrati anche beni per 10 milioni.
Gli arresti sono scattati a Venezia, Casal di Principe, in provincia di Caserta, e in altre località. I destinatari del provvedimento sono accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e altri gravi reati. In manette anche il sindaco di Eraclea, Mirco Mestre e un agente di polizia del commissariato di Jesolo, sposato con la figlia di un camorrista. Perquisizioni nel municipio di Eraclea.
Mirco Mestre era stato eletto primo cittadino nel maggio 2016, con una lista civica di centrodestra. I 50 arrestati sono stati trasferiti in penitenziari di tutta Italia, in particolare nell’Italia centrale. L’indagine è stata condotta dal Gico del nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Trieste e dalla squadra mobile di Venezia. L’inchiesta vede coinvolti a vario titolo almeno un avvocato e dei commercialisti. Tra i filoni d’indagine anche l’ipotesi di rapporti con la politica e il voto di scambio, in particolare in rapporto con il clan dei Casalesi. A coordinare l’inchiesta e’ il sostituto procuratore veneziano Roberto Terzo, mentre l’ordinanza con i provvedimenti restrittivi – oltre 1.100 pagine -è stata emessa dal gip Marta Paccagnella. Il blitz e’ scattato tra le 4.00 e le 5.00 di stamani, con i primi arresti. Tutto ruoterebbe attorno al mondo dell’edilizia legato alle costruzioni lungo la costa adriatica veneziana, da San Dona’ di Piave a Bibione, Caorle e oltre.

 Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Il clan dei Casalesi in Veneto grazie all’infiltrazione del gruppo Bidognetti. I NOMI DEGLI ARRESTATI

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Il clan dei Casalesi in Veneto. I nomi. Le indagini hanno consentito di evidenziare come l’organizzazione risulti formata già alla fine degli anni ’90 da Luciano Donadio, 53enne di Giugliano e residente ad Eraclea, Raffaele Buonanno, 60enne di San Cipriano d’Aversa domiciliato a Casal di Principe ed Eraclea, Antonio Buonanno, 57enne di San Cipriano d’Aversa e residente a Casal di Principe. Con gli ‘organizzatori c’era poi un folto gruppo di persone originarie di Casal di Principe e dell’agro aversano, tra cui Antonio Puoti, Antonio Pacifico, Antonio Basile, Giuseppe Puoti, Nunzio Confuorto, poi implementata da altri soggetti campani e non come Girolamo Arena, Raffaele Celardo, Christian Sgnaolin.
I ruoli e le parentele con Bidognetti
Leader del gruppo camorristico erano Luciano Donadio e Raffaele Buonanno, quest’ultimo imparentato tramite la moglie con esponenti di vertice dai clan Bianco e di Francesco Bidognetti, ‘cicciotto e mezzanotte’. Il clan, come emerge dall’inchiesta, si era insediato nel Veneto orientale rilevando il controllo del territorio dagli ultimi epigoni locali della “mafia de Brenta”, con i quali sono stati comprovati i contatti.
Il controllo di edilizia e ristorazione
Dall’indagine risulta inoltre come, con violenza e minacce, il clan agiva per conquistare il controllo delle attività economiche, in particolare nel ramo dell’edilizia e della ristorazione, oltre ad imporre ai sodalizi criminali limitrofi un ‘aggio’ per il narcotraffico e lo sfruttamento della prostituzione. L’organizzazione sgominata ha operato inizialmente soprattutto nel settore dell’edilizia, dedicandosi all’usura e alle estorsioni, specializzandosi poi nel settore delle riscossioni crediti per conto di imprenditori locali.
I soldi per le ‘famiglie’ di Casal di Principe
Una quota dei profitti del gruppo camorristico era poi destinata a sostenere finanziariamente i carcerati di alcune storiche famiglie di Casal di Principe, cui l’organizzazione era legata e della quale costituiva il gruppo criminale referente per il Veneto orientale.
Armi, truffe e false fatture
Per affermare l’egemonia sul territorio il gruppo camorristico ha fatto largo uso di armi da guerra, utilizzate per compiere attentati intimidatori anche ai danni di ditte concorrenti. Nel corso dell’indagine sono state sventate anche alcune rapine commesse dal sodalizio criminale: in una di queste, in provincia di Treviso, alcuni membri del gruppo erano stati anche tratti in arresto. Nel tempo l’organizzazione si era poi finanziata anche con la produzione di false fatture per milioni di euro grazie ad una fitta rete di aziende intestate a prestanome, oltre a compiere truffe all’Inps attraverso false assunzioni allo scopo di lucrare indebitamente l’indennità di disoccupazione per 700mila euro.
Il direttore di banca complice
In carcere è finito anche Denis Poles, direttore di un istituto di credito di Jesolo, complice come il suo predecessore (indagato a piede libero) in quanto consentiva al gruppo criminale di operare su conti societari senza averne il titolo, concordando con loro l’interposizione di prestanome e omettendo di segnalare operazioni sospette.
L’agente di polizia arrestato
Nell’indagine è coinvolto anche un agente della Polizia di Stato, Moreno Pasqual, accusato di aver fornito informazioni riservate ai malavitosi sulle indagini nei loro confronti. Il tutto avveniva tramite un accesso illecito alle banche dati della polizia.
Chi è Bidognetti.Nato nel 1951 a Casal di Principe, soprannominato Cicciotto ‘e Mezzanotte, viene arrestato il 18 dicembre 1993 e recluso sotto il regime del 41 bis. Nel clan le sue attività criminali convergevano principalmente sullo smaltimento illegale dei rifiuti urbani, industriali e tossici, attività per cui è noto alla magistratura già all’inizio degli anni novanta. Negli anni novanta ordina l’assassinio del medico Gennaro Falco, colpevole di non aver diagnosticato in tempo una neoplasia alla prima moglie, Teresa Tamburrino. Per l’omicidio del medico qualche anno dopo viene accusato uno dei figli di Francesco Bidognetti, Raffaele, per questo arrestato.La compagna, Anna Carrino, fu arrestata nel 2007 con l’accusa di fare da tramite tra il marito recluso e il clan recapitando pizzini. Grazie alle sue rivelazioni, nell’aprile del 2008, vengono emesse 52 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti affiliati al clan tra cui il figlio Raffaele. Il clan per ritorsione ferisce in un agguato la nipote anche se si presume che l’obiettivo fosse la madre della ragazza, sorella della Carrino.La sua amante, Angela Barra, egemone nel territorio di Teverola, curava le alleanze politiche ed economiche del clan.n nuovo provvedimento di custodia viene emesso dalla Dia di Napoli l’11 dicembre 2012 con l’accusa di disastro ambientale. Bidognetti avrebbe avvelenato falde acquifere per favorire il clan dei Casalesi.

Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Camorra, il pentito: ‘Ecco perchè fu ucciso Salvatore Esposito a Materdei’. Il boss Sequino dal carcere: ‘Vastarella ha le corna e gli devo far uscire il fegato dalla bocca…’

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“…faccio presente che proprio per lo sconfinamento fatto da Totore Esposito che era andato a riscuotere una tangente dai parcheggiatori abusivi dietro al teatro Bellini, zona di competenza del clan Lepre, fu la causa della sua uccisione. Totore Esposito, in realtà, una volta fuoriuscito dal clan Lepre, ha iniziato a gestire le attività illecite nella zona del Cavone di piazza Dante ed a un certo punto si è alleato con Totore Sequino con quale divideva la metà dei suoi proventi illeciti…”. A spiegare il movente e i mandanti del clamoroso agguato del 3 agosto del 2016 in vico Nocelle a Materdei è stato il pentito Rosario De Stefano, uomo del rione Sanità legato a doppio filo al clan Lo Russo di Miano. Nell’agguato rimasero uccisi il ras emergente Salvatore Esposito detto ‘sandokan’, Ciro Marfè uomo dei Sequino e ferito Pasquale Amodio elemento apicale dello stesso clan (da ieri in carcere). Dopo quello agguato tuto è cambiato nel rione Sanità. Lo scenario criminale ha avuto dei mutamenti improvvisi e si è scatenata una interminabile faida tra i Vastarella autori del ‘tradimento’ e i Sequino i ‘traditi’. Nell’ordinanza composta da 514 pagine firmata dal gip Emilia Di Palma e che ieri ha portato all’arresto die 29 persone dei gruppi criminali coinvolti nella nuova faida del rione Sanità viene raccontato tutto lo scenario e i protagonisti di questo scontro. Una data spartiacque è rappresentata senza dubbio dal 3 agosto 2016 tanto è vero che dopo quella data i due fratelli Salvatore e Nicola Sequino, sebbene in carcere continuavano a impartire ordine e giurano vendetta nei confronti dei Vastarella. Emblematica a tal proposito è la conversazione intercettata nel carcere di Vibo Valentia il 10 agosto del 2016 (quindi sei giorni dopo l’agguato) tra il boss Salvatore Sequino che era detenuto, la moglie Sonia Esposito (da ieri agli arresti domiciliari), il cognato Silvestro Pellecchia e il nipote Giovanni Sequino (entrambi in carcere da ieri) mostrando forte risentimento nei confronti di Patrizio Vastarella dice:  “…quello ha le corna è un infame e gli deve uscire il fegato da bocca perché se Gesù Cristo mi da la fortuna di uscire da qua dentro devo andare la dentro e lo devo pisciare nelle Fontanelle sei un fallito e sei un uomo di merda e tieni anche le corna…”.
Secondo il boss detenuto quell’agguato non doveva essere commesso perché Salvatore, ossia Esposito ‘Sandokan’, era un loro compagno ed inoltre, quando si erano avveduti della presenza di Pasquale e Ciro, ossia Pasquale Amodio e Ciro Marfè, Patrizio Vastarella, avrebbe dovuto annullare l’azione delittuosa; visto che ciò non era accaduto ne avrebbe subito le conseguenze “….perché è lui è lui, era una cosa di Totore, non lo dovevi fare perché sono anche compagni a noi, è uno, secondo quando hai visto che è venuto Pasquale e Ciro gli dovevi dire che non dovevano fare nulla, avete fatto? E adesso ti devi prendere le conseguenze…”. Il pentito Rosario De Stefano ha spiegato nei dettagli (contenuti nell’ordinanza con una serie di omissis)cosa sarebbe accaduto: Ecco il suo racconto:

“…Totore Esposito era il reggente, per conto dei Sequino della Sanità, del clan del Cavone di Piazza Dante; so per certo che Totore Esposito entrò in contrasto con il clan della zona di Piazza Mazzini,… omissis… ebbene, Totore Esposito …omissis….era entrato in contrasto con i menzionati soggetti di piazza Mazzini per la divisione del territorio dove venivano compiute le estorsioni ai parcheggiatori nei pressi di piazza Bellini. Su tale circostanza posso riferire nel dettaglio dal momento che io ho fatto il “doppio gioco” da una parte per conto di Totore Esposito e dall’altra di omissis e gli altri, nel senso che Totore Esposito mi diede un telefonino bianco a sua volta datogli da Giovanni Sequino con una scheda dedicata e mi chiese di fare da specchiettista volendo uccidere i componenti del gruppo di Piazza Mazzini (promettendomi in cambio 3000 euro e diverse dosi di cocaina) e dall’altra il omissis e gli altri (ai quali io andai a riferire che Totore Esposito li voleva ammazzare) mi chiesero a loro volta di “filargli” Totore Esposito consentendogli di ammazzarlo a loro volta. Preciso che io, avendo paura, non ho filato né l’uno né l’altro ed anzi ho riferito tutto confidenzialmente alla Squadra Mobile, nel senso che sono andato in Questura alla Squadra antirapina e poi alla Squadra omicidi dove ho raccontato tutto consegnando anche nelle mani del personale della Squadra omicidi il menzionato telefonino bianco che mi era stato dato dal Totore Esposito che poi mi fu restituito.
Sempre nel contesto di questo contrasto apertosi tra Totore Esposito (referente dei Sequino) da una parte e il clan di Piazza Mazzini dall’altra, so per certo che ad un certo punto fu interpellato come garante e come paciere Patrizio Vastarella, che poi è quello che si è venduto Totore Esposito; nel dettaglio fu chiesto a Vastarella Patrizio di presenziare ad una riunione che si tenne a vico Nocelle dove parteciparono Patrizio Vastarella, Antonio Vastarella, il figlio di Lelluccio o Femminiell chiamato Tony o Tommy, Fabio Vastarella e Maicol o nir, Totore Esposito, Genny o Cecato, Pasquale Amodio, o chiattone (che poi è morto con Totore Esposito), o Barone e tale Milk; tale riunione si tenne a casa di uno che si chiama o scognato, luogotenente di un clan del Vomero… omissis…
dopo l’omicidio di Totore Esposito compiuto, come ho detto, grazie a Patrizio Vastarella si è creato una alleanza, capeggiata dai Vastarella, che comprende (oltre ai Vastarella) i “ragazzi di piazza Mazzini” – e cioè omissis e gli altri e un gruppo del Vomero (al riguardo sottolineo che la riunione che ha preceduto l’omicidio di Totore Esposito si è svolta a casa dello scognato che è un esponente del clan del Vomero)….
Totore Esposito aveva regalato 7/8 pistole, qualche fucile a pompa e qualche AK 47 e qualche giubbotto antiproiettile a Salvatore Sequino prima che venisse arrestato, penso nel 2015; queste informazioni mi furono fornite da Totore Esposito col quale avevo ottimi rapporti; con lui sono anche andato in Spagna unitamente ad Enzo Criscuolo e Gennaro detto “palli palli”, dove avremmo dovuto commettere dei reati che non riuscimmo a portare a termine perché appena arrivati al porto di Barcellona la Guardia Civile ci sequestrò l’autovettura ed arrestò Gennaro “palli palli” perché era in possesso di documenti falsi…”.

Rosaria Federico

1 continua

(nella foto da sinistra in alto Salvatore Sequino, Nicola Sequino, Gianni Gianni Sequino, Silvestro Pellecchia, Patrizio Vastarella, Salvatore Esposito, Ciro Marfè, Pasquale Amodio)

Cronache della Campania@2018

La Cassazione: “Il Decreto sicurezza non è retroattivo e non si applica per i soggiorni umanitari”

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Il dl sicurezza, convertito in legge, non ha effetto retroattivo e non si applica quindi ai casi di richiesta di permesso di soggiorno per motivi umanitari prima della sua entrata in vigore. Lo ha stabilito la sentenza numero 4890 del 19 febbraio 2019 della Corte di Cassazione, prima sezione civile. Chiamata a decidere sul rigetto da parte del Tribunale di Napoli delle domande di protezione internazionale ed umanitaria proposte da un cittadino della Guinea, la Corte pur rigettando nel merito il ricorso, ha individuato in via preliminare il “paradigma legislativo applicabile alla domanda relativa all’accertamento delle condizioni per il riconoscimento di un titolo di soggiorno sostenuto da ragioni umanitarie, essendo nel corso del giudizio, e più esattamente in pendenza del procedimento davanti la Corte di Cassazione, intervenuto il d.l. n. 113 del 2018 convertito con modificazioni nella l. n .132 del 2018 e in vigore dal 5 ottobre 2018, che ha mutato la disciplina legislativa previgente relativa alle condizioni per il riconoscimento del diritto ad un permesso per ragioni umanitarie”. Quindi ha stabilito che “la normativa introdotta con il decreto legge numero 113 del 2018, convertito nella legge numero 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione”. In ogni caso, vista la sopravvenuta disciplina, i permessi di soggiorno per motivi umanitari rientreranno nei “casi speciali” e ne recheranno la dicitura: “Tuttavia – spiega infatti la Cassazione – in tale ipotesi, all’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base dei presupposti esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del 2018, conv. nella l. n. 132 del 2018, farà seguito il rilascio da parte del Questore di un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura ‘casi speciali’ e soggetto alla disciplina e all’efficacia temporale prevista dall’art. 1, comma 9, di detto decreto legge”.

Cronache della Campania@2018

Camorra: assolto il boss Ciro Mariano, pena ridotte per tutti gli affiliati

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Napoli. La notizia più eclatante è l’assoluzione al boss Ciro Mariano da circa un anno libero completamente dopo 30 anni circa trascorsi in carcere ininterrottamente, La sentenza è stata pronunciata in un’aula blindata e per ben due volte il giudice ha dovuto richiamare gli astanti. Sopratutto quando ha letto l’ultima parte del dispositivo che confermava le assoluzioni e dimezzava le pene. Si é chiuso così il processo al clan Mariano dei Quartieri Spagnoli di Napoli, con l’assoluzione del boss Ciro Mariano. Questa la decisione: pene dimezzate per tutti gli imputati, tra loro il figlio di Ciro, Marco Mariano, difeso dall’avvocato Gaetano Inserra, che é stato condannato a 4 anni. Stessa decisione anche per Fabio Mariano (4 anni), Raffaele Mariano (6 anni) e Salvatore Mariano (4 anni). Pena ridotta anche per Eduardo De Crescenzo, Antonio Masiello, Vincenzo Ricci e Annamaria Dresda, che rischiavano condanne superiori a 10 anni. Erano difesi tutti dall’avvocato Giuseppe De Gregorio. Per Antonio Esposito, soprannominato “Pallino”, difeso dall’avvocato Leopoldo Perone, 4 anni di reclusione e scarcerazione immediata. Armando Perrella, difeso dall’avvocato Giovanni Fusco, rischiava una condanna a 13 anni ed é stato condannato a 6 anni: inammissibile il ricorso del pm sull’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Era considerato il braccio destro di Mariano e come gli atri é tornato in libertà. L’indagine del settembre del 2016 portò in carcere oltre trenta persone, quasi tutte considerate vicine al clan Mariano dei Quartieri Spagnoli. Le accuse erano di associazione camorristica, estorsione e riciclaggio: secondo la Procura molti dei soldi illeciti venivano riciclati in negozi che vendevano pesce e in altri che fornivano latticini. Tra gli imputati anche Ernesto Tecchio, genero dei Mariano, che é stato condannato a sei anni di reclusione. Confermate tutte le assoluzioni di primo grado. In ballo c’erano anche le ipotesi di estorsione aggravata, in quanto avrebbero imposto i loro prodotti alimentari ai commercianti di mezza Napoli, e di traffico di droga, poi-ché grazie ad accordi con altre cosche erano riusciti a gestire le piazze dello spaccio per la movida.

Cronache della Campania@2018

Scambiarono un’aneurisma addominale per un appendicite: 8 medici dell’ospedale di Caserta a processo per omicidio colposo

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Per 8 medici dell’ospedale civile di Caserta, il pubblico ministero della omonima procura Vincenzo Quaranta, ha chiesto il rinvio a giudizio, contestando il reato di omicidio colposo compiuto in concorso per la morte, avvenuta il 4 agosto del 2013, durante un intervento chirurgico di Andrea Arzillo di Santa Maria Capua Vetere.
La vicenda somiglia a tante altre. In piena estate, arriva una persona con forti dolori, affermando di avvertire una forte colica renale. Una prima diagnosi dell’ospedale certifica una colica addominale da sospetta appendicopatia, in pratica, un attacco di appendicite. Intanto passano le ore e finalmente dalla TAC si capisce che non è un’appendice, bensì si tratta di un aneurisma dell’aorta addominale. Solamente che l’autore di quell’esame, cioè il medico radiologo, Giovanni Moggio diagnostica una circonferenza di soli 3 centimetri, quando invece lo spessore era di gran lunga maggiore.
Gli altri medici, divenuti ora imputati, Francesco Mariano, di Curti, Donato Sciano, di Caserta, Sergio Sgueglia, di Napoli, Antonello Maresca,di Ercolano, Raffaele Carbone di Caserta, Giuseppe Coppola, di Caserta, Raffaele Carotenuto di Pompei, sono accusati di non aver valutato correttamente i sintomi avvertiti da Andrea Arzillo e collegati ad una pesante patologia acuta di aneurisma.
Si è andati avanti così per diversi giorni con i medici che, sempre secondo la ricostruzione della Procura di Santa Maria Capua Vetere, si sono adagiati sull’esito della citata TAC dei 3 centimetri di circonferenza, senza rivalutare il caso, senza farsi assalire dal dubbio, che stante quei dolori sempre più lancinanti che non riuscivano ad essere leniti con nessun analgesico ordinario, poteva essere utile, se non decisivo, ripetere l’accertamento, rifare la TAC in modo da riverificare lo stato e l’ampiezza dell’aneurisma. Quando se ne sono accorti, era già troppo tardi e, per l’appunto, il 4 agosto del 2013, Arzillo si spegneva durante un intervento chirurgico alla disperata.

 Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018


Omicidio Mollicone, la perizia del Ris inchioda l’ex maresciallo di Arce e suo figlio. Il padre: “Serena troverà pace”

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Frosinone. Un’informativa di centinaia di pagine nella quale si ricostruisce l’omicidio di Serena Mollicone. Per i carabinieri del comandando provinciale di Frosinone ed i colleghi del Ris a colpire Serena sarebbe stato Marco Mottola, figlio dell’ex comandante della caserma di Arce. L’alterco, sfociato poi in omicidio, sarebbe avvenuto in uno degli alloggi in disuso presso la struttura militare. L’informativa, consegnata al magistrato titolare delle indagini, il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo, contiene anche il ruolo di ogni indagato in questa vicenda. Oltre al giovane Marco Mottola a finire nel mirino degli investigatori sono stati il padre Franco, la madre Anna e due carabinieri che all’epoca dei fatti era in servizio presso la caserma di Arce. I due militari sono indagati, uno per favoreggiamento e l’altro per istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi che si ammazzò nel 2008, il giorno prima di essere ascoltato in merito all’omicidio.
La perizia dei Ris è contenuta in un’informativa consegnata alla Procura di Cassino nella quale in sostanza si ribadisce ciò che era emerso dall’atto istruttorio: per la morte di Serena Mollicone, uccisa il 1 giugno del 2011, le indagini conducono a Marco Mottola e al padre Franco. I due, con la moglie di quest’ultimo Anna sono infatti da tempo iscritti nel registro degli indagati per omicidio volontario in concorso e occultamento di cadavere. Secondo quanto emerso dalla perizia dei Ris Serena Mollicone, studentessa 18enne, sarebbe stata colpita negli alloggi della caserma al culmine di una lite. Successivamente il cadavere sarebbe stato spostato nel boschetto dell’Anitrella dove poi è stato trovato. La perizia medico-legale infatti indica una compatibilità tra lo sfondamento della porta dell’alloggio della caserma dei carabinieri di Arce e la frattura cranica riportata da Serena Mollicone. L’informativa raccoglie tutto il materiale investigativo su un delitto avvenuto 18 anni fa. Ora il pm dovrà valutare come proseguire.
“A 8 anni dall’iscrizione nel registro degli indagati ancora non si sa come andrà a finire la loro vicenda processuale” commenta l’avvocato Francesco Germani, legale della famiglia Mottola sottolineando di essere “sicuro dell’innocenza” dei suoi assistiti. La vicenda giudiziaria dell’omicidio della diciottenne Serena è stata tortuosa. Due anni dopo il delitto fu arrestato con le accuse di omicidio e occultamento di cadavere Carmine Belli, un carrozziere poi prosciolto da ogni accusa dalla Cassazione. Il caso sembrava destinato a restare un mistero. Ma i dubbi, soprattutto quelli sui depistaggi, erano troppi. Le indagini sono poi proseguite anche attraverso sofisticati accertamenti scientifici per arrivare alla verità. Arrivò così la perizia dei Ris a segnare una svolta concreta.
“Serena troverà finalmente pace, dopo più di 17 anni”. Guglielmo Mollicone ripercorre il caso della figlia, ritrovata cadavere nel bosco di Fonte Cupa ad Anitrella con un sacco in testa, stretto con nastro adesivo, carta in bocca, oltre a mani e piedi legati. “La verità sta uscendo fuori, nonostante i depistaggi” dice, commentando quanto trapelato dalla relazione conclusiva dei carabinieri del comando provinciale di Frosinone e dai colleghi dei Ris, depositata ieri pomeriggio in Procura a Cassino. “Ho sempre avuto il timore che potessero anche scappare, ora devono pagare, voglio che li arrestino. Temo che possano scappare anche con dei passaporti falsi. Per me non è stato soltanto il figlio dell’ex comandante della stazione dei carabinieri locale, come sostengono gli inquirenti nell’informativa, perché il giovane potrà avere anche avuto uno scatto d’ira, ma la mia ‘bambina’ poteva essere salvata e, invece, è morta soffocata. Serena ha perso tanto sangue, non respirava. E’ morta dopo 4 o 5 ore e, non per il colpo ricevuto, ma per il sacchetto in testa che non le permetteva di respirare. Per me la colpevolezza è anche dei genitori. L’ho sempre detto”. “Colpevoli di sicuro moralmente per me anche i militari presenti, due, uno è morto – conclude il papà -, che l’avranno sentita urlare e non sono intervenuti. Da un tutore dell’ordine, sinceramente, mi aspetto di più”.

Cronache della Campania@2018

Le lettere dal carcere del boss Sequino: ‘Caro nipote, io non dimentico, ripagherò con la stessa moneta’, rivolto a Vastarella

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Napoli. Ci sono una serie di lettere, che la magistratura ha sequestrato, spedite dal boss Salvatore Sequino, dal carcere e indirizzate al nipote Giovanni detto Gianni Gianni e poi a un affiliato in cui mostra tutto il suo risentimento nei confronti di Patrizio Vastarella all’indomani dell’agguato del 3 agosto di vico Nocelle in cui furono uccisi il boss emergente Salvatore Esposito e Ciro Marfè , uomo dei Sequino e ferito Pasquale amodio, altro elemento di spicco del clan. Nella prima lettera Salvatore Sequino si rivolgeva al nipote ,  Giovanni detto Gianni Gianni, disponendo che gli affiliati adottassero le precauzioni del caso restando in casa, senza uscire, alla luce dell’agguato subito “…Ciao mio amato nipote …Omissis… vi raccomando di non camminare di stare sopra, dovete essere invisibili con tutti e con tutto…”.
Salvatore Sequino , inoltre, esternava in maniera palese il suo sentimento di vendetta, invitando gli affiliati ad attendere il momento opportuno per colpire il clan avverso “…io non dimenticherò mai e prima o poi ripagherò con la stessa moneta … dovete solo sapere attendere il momento giusto che stai sicuro arriverà voi dovete solo stare attenti e uniti … Vedrai che tutto passa vedrai che capiterà la nostra occasione che arriverà ma voi dovete essere invisibili sempre capito? State sempre tutti uniti, tutti stretti e avere tanta pazienza che arriverà il momento giusto vedrai lo faranno qualche errore questo è sicuro hai capito?…State solo attenti ti prego io già ho il cuore a pezzi per i nostri due fratelli e non lo sopporterei ancora, quindi tutti uniti non fidatevi di nessuno solo di voi e basta. Vedrai che tutto passa vedrai che capiterà la nostra occasione che arriverà ma voi dovete essere invisibili sempre capito? State sempre tutti uniti, tutti stretti e avere tanta pazienza che arriverà il momento giusto vedrai lo faranno qualche errore questo è sicuro hai capito? Ora state solo attenti e rilassati con la mente dovete essere lucidi in tutto ok ora mi fermo ti bacio e ti stringo forte a me ti raccomando state attenti non voglio più piangere non ce la farei. Ok vi amo!”. La lettera è data 13 agosto 2016. Due settimane dopo ovvero il 24 agosto Salvatore Sequino scrive a Mirko Zolfino: “…ciao carissimo Mirco … ma dimmi una cosa ma tu lo sai che abbiamo perso due fratelli? E lo sai che tu devi dare conto solo a me e no a Gianni?…”.
Sequino proseguiva redarguendo l’affiliato e gli spiegava la gravità della situazione, invitandolo ad allontanarsi da Napoli nel caso in cui non avesse voluto sottostare alle disposizioni impartite “…E allora io sono qui a dannarmi e a stare male e tu te ne vai al festino? Ma ti credi che si sta scherzando? Io non lo so ma se non volete stare andate via allontanatevi da Napoli prima che capita qualche altra cosa, mi sono spiegato?…”.
Il tono utilizzato dal Sequino nella lettera, lasciava trasparire, in maniera incontrovertibile, il carisma ed il ruolo di leader che quest’ultimo rivestiva all’interno del Clan; si poteva cogliere, inoltre, l’enorme esperienza criminale vantata dallo stesso “…Spero che mi ascolterai, come Ciro Macal non la vuole finire di andare e venire da casa sua? Io non lo so vi sembra tutto un gioco comunque te l’ho detto smettetela e pensate che abbiamo perso due fratelli capito?…”.

Anche le telefonate che i detenuti effettuavano dal carcere alle proprie famiglie si dimostravano essere un’occasione per trattare argomenti di interesse per le indagini in corso. Infatti in occasione della conversazione telefonica concessa al detenuto Nicola Sequino, il 25. agosto del 2017, parlava con il figlio Giovanni di questioni relative al sodalizio camorristico. Nel corso della telefonata emergeva che:Nicola chiedeva notizie a Giovanni sul fratello Salvatore anch’egli detenuto. La richiesta non riguardava il suo stato di salute, ma la reazione di Salvatore agli omicidi del 3 agosto scorso. Giovanni rassicurava il padre sullo stato di salute dello zio che era andato a trovare in carcere.
Nicola si interessava come stava facendo il figlio per non ottemperare all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria impostogli con DASPO al fine di rassicurarsi che il figlio stesse in casa ed evitare di correre rischi di altri agguati di camorra. Sull’argomento, già esaustivamente indottrinato dallo zio Salvatore, Giovanni rassicurava il padre, avendo intenzione di non presentarsi ai Carabinieri così come previsto. La moglie Maria Pirozzi, avendo capito quale fosse il senso della richiesta del marito in relazione al fratello, informava il coniuge che Salvatore serbava molto rancore per ciò che era accaduto il 3 agosto scorso e che questi aveva chiesto che Silvestro Pellecchia si presentasse al successivo colloquio in carcere. Questa informazione faceva capire a Nicola che Salvatore reputava Silvio più idoneo per gestire il difficile momento criminale della consorteria camorristica rispetto al figlio Giovanni che era ancora inesperto per certe dinamiche malavitose. Il 26 agosto si acclarava che anche Nicola Sequino si interessava al benessere dei propri affiliati, in particolare il ras si informava con la moglie se il figlio Giovanni stesse uscendo o se si fosse chiuso in casa. La domanda, logicamente, andava oltre il rapporto padre-figlio in quanto la condotta alla quale si interessava Nicola riguardava il modus operandi del clan che in quel momento storico si sentiva tradito ed in pericolo, e, pertanto, avrebbe potuto subire altri agguati di camorra. Allo stesso modo Nicola Sequino chiedeva notizie di Gennaro Passaretti con il quale avrebbe avuto il piacere di parlare al telefono. Tale interesse dimostrava il legame profondo che legava il ras ai suoi uomini”.

 Rosaria Federico

2. continua

Cronache della Campania@2018

Camorra, ‘sconto di pena’: al boss Orlando: solo 18 anni di carcere

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Marano. E’ stato condannato a 18 anni di carcere il boss Antonio Orlando, detto Mazzolino, capo del clan Orlando di Marano, arrestato tre mesi fa dopo una latitanza di oltre 15 anni. Il leader della cosca ‘dei Carrisi’ era accusato di associazione mafiosa finalizzata al traffico di stupefacenti ed estorsione. Il processo si è celebrato con il rito abbreviato per cui Mazzolino, che è attualmente detenuto nel carcere milanese di Opera, ha usufruito dello sconto di pena. Antonio Orlando in tutti questi anni della sua latitanza è sempre stato nella zona a Nord di Napoli e manteneva i contatti, prima del blitz di due anni che sgominò l’intero clan, con il nipote Armandino Lubrano. Quando fu arrestato il 27 novembre scorso in un appartamento di via Rossini, nel centro di Mugnano, il boss ora 60enne aveva con sé una carta d’identità falsa, con i dati anagrafici di un cugino residente a Marano, e una foto, la sua, piuttosto recente. E prima di arrendersi, tentò di disfarsene e dare alle fiamme alcuni documenti, tra cui alcune lettere e pizzini per comunicare con l’esterno. Secondo gli investigatori al momento dell’arresto il boss era pronto a cambiare rifugio, dove comunque vi era ogni comfort: sauna, doccia e tapis roulant. Nell’appartamento su due livelli, intestato ad una insospettabile,  furono rinvenute due sim card, sei mila euro in contanti e una collezione di Rolex e costosissimi accendini.

Cronache della Campania@2018

Salerno, il direttore delle agenzie delle entrate si difende: ‘Nessun favore all’imprenditore’

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Salerno. Emilio Vastarella, direttore dell’Agenzia delle Entrate provinciale di Salerno ha risposto nella giornata di ieri alle domande del Gip durante l’interrogatorio di garanzia durato poco più di due ore. Il funzionario ha chiarito la sua posizione e rimarcato la “linearità delle procedure eseguite nelle pratiche dell’imprenditore caseario Gianluca La Marca” smentendo quindi ogni ipotesi corruttiva avanzata dagli inquirenti. Vastarella ha chiarito come l’accordo di conciliazione eseguito nei confronti del caseificio Tre Stelle nasce da procedure previste dall’Agenzia delle Entrata. Vastarella è dalla scorsa settimana agli arresti domiciliari. Secondo la Procura infatti avrebbe “corretto alcune pratiche a favore dell’imprenditore ebolitano La Marca” in cambio di regali. Secondo la guardia di finanza il funzionario dell’agenzia delle entrate territoriale avrebbe autorizzato uno scontro del 10% per una conciliazione tributaria ed intervenuto per uno sblocco dei rimborsi Iva. Nell’ambito della stessa inchiesta anche Giovanni Maiale è stato raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere noto esponente del clan camorristico locale e già collaboratore di giustizia. Anche se gli inquirenti ritengono che l’uomo, terminato il programma di protezione, abbia iniziato a fare affari con la criminalità organizzata. Tra le altre persone coinvolte c’è l’imprenditore La Marca il cui desiderio sarebbe stato quello di monopolizzare tutto il mercato che va dalla produzione casearia all’allevamento dalla Piana del Sele al Cilento. A carico di La Marca viene contestata la corruzione di un pubblico ufficiale, falso in bilancio all’appropriazione indebita, autoriciclaggio ed impiego di denaro di provenienza, trasferimento fraudolento di valori fino alla turbativa d’asta.

Cronache della Campania@2018

Assolto Taglialatela, ex portiere del Napoli, era accusato di essere prestanome del clan Mallardo

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Napoli. Era accusato di essere un prestanome del clan Mallardo di Giugliano: è stato assolto dalla corte d’Appello di Napoli Pino Taglialatela, ex portiere del Napoli degli anni novanta. Batman, questo il suo soprannome quando giocava con la maglia azzurra era stato già assolto in primi grado dall’accusa di intestazione fittizia di beni e di associazione per delinquere di stampo mafioso. La Dda di Napoli presentò appello contro quell’assoluzione e chiedendo la condanna. Pino Taglialatela è stato difeso dai penalisti Luca Capasso e Monica Marolo che si dicono soddisfatti per il risultato. “E’ quello che ci aspettavamo e anche Pino è soddisfatto. In questo momento sta festeggiando la decisione della Corte d’Appello che ha messo finalmente la parola fine a una brutta vicenda che ha prodotto forti ripercussioni sulla sua vita, anche lavorativa, con la perdita di una serie di contatti”, spiegano. Nel 2012 il calciatore era stato iscritto nel registro degli indagati nell’ambito di una inchiesta che aveva portato in carcere cinque esponenti del clan Mallardo, una cosca ricca e con spiccate capacità imprenditoriali. Per il pubblico ministero Maria Cristina Ribera, Taglialatela era uno degli affiliati alla cosca, in grado anche di riciclare soldi di provenienza illecita con intestazioni fittizie di beni. Così al termine di una lunghissima requisitoria davanti alla quarta sezione penale del Tribunale di Napoli aveva chiesto in primo grado la condanna a 14 anni di carcere. Le indagini furono condotte dal Gico della Guardia di Finanza di Napoli che con una informativa depositata alla Dda aggravò la posizione dell’ex portiere del Napoli che era ritenuto ‘la testa di legno’ del capoclan.

Cronache della Campania@2018

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