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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Camorra: ‘Dite a vostro figlio che ha tempo fino a domani’, il pizzino di minaccia al boss D’Amico di San Giovanni

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“Per Pasquale dite a vostro figlio che ha tempo fino a domani. Ok”. La camorra imprenditrice non si perde d’animo davanti ai ritardi nei pagamenti delle vittime del pizzo e così lascia anche un pizzino davanti al cancello d’ingresso di un familiare. Un messaggio inequivocabile. E’ quello lasciato dal clan D’Amico di via Nuova Villa  San Giovanni a teduccio sul cancello d’ingresso dove abita una donna sorella e zia di due imprenditori napoletani che da tempo si erano trasferiti a Parma e che erano diventate le “vittime sacrificali” del boss Salvatore D’Amico o’pirata e dei suoi affiliati. E’ quanto emerge dalla chiusura delle indagini che ha portato all’accoglimento del processo immediato dal parte del gip Claudio Marcopido del Tribunale di Napoli. Con il boss sono imputati il nipote Salvatore Salomone, Giovanni Paduano , l’ex pentito Salvatore Cianniello, Salvatore Taglialatela e Mauro Cimilo. dalle indagini è emerso che il boss aveva creato una società, la “Gip Metallica”, intestata a un pre­stanome, con sede all’estero e conti correnti attivi in diverse banche e attraverso di essa faceva riciclaggio ed estorsioni agli imprenditori facendo fatture false e tra l’altro non pagando neanche l’Iva e quindi danneggiando due volte le imprese. Il biglietto in cui si chiedeva al familiare dell’imprenditore di pagare il bonifico era rivolto a padre e figlio originari di san Giovanni a Teduccio ma da anni trasferiti a Parma dove avevano messo in piedi una società di Impiantistica. Sono stati loro i primi a subire le minacce di D’Amico, furono convocati da Cianniello e portati a casa del boss. Da quel momento era stato costretti a pagare le fatture alla Gip Metallica facendo bonifici e poi pagando in contanti l’Iva. Ma ad aprile scorso si sono presentati dai carabinieri e hanno denunciato tutto. A maggio è scattato il blitz con l’arresto del boss e dei suoi complici. L’inchiesta ora passa nelle aule del Tribunale e come ha anticipato il Corriere del Mezzogiorno, il gip ha spiegato: “La camorra ha affinato le tecniche di riciclaggio perché ricevono dagli imprenditori minacciati soldi con bonifici regolari e tracciabili. La contaminazio­ne criminale in cui versa il ter­ritorio è notoria, ma questa nuova attività di riciclaggio appare come un male ende­mico che sta affliggendo im­prenditori e commercianti, spesso responsabili di una so­stanziale passività e omertà umanamente comprensibile, ma certamente devastante ai fini della tutela penale”.

 

Cronache della Campania@2018


Medico dell’Asl faceva certificati falsi al ras per evitargli le manette

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Un medico compiacente dell’Asl di Salerno aiutava due im­putati di Scafati coinvolti nel processo di estorsioni e usura ad evitare il carcere. E’ l’elemento clamo­roso che viene fuori nel corso del processo che si tiene presso il Tribunale di Nocera. La noti­zia vieni fuori dopo le deposi­zioni degli ufficiali di Pg che sono stati ascoltati durante l’udienza.
Secondo il loro racconto il medico produceva certificazioni fittizie per evitare il carcere ad Antonio Davide alias “u messican” e al ras Raffaele Porpora, detto Lello, 38 anni, figlio di Antonino Porpora, detto Ndulino, ucciso alla fine degli anni ’80 nella guerra di camorra e amico e sodale di Alfonso Loreto senior, per fargli ottenere i domi­ciliari. Un particolare emerso da alcune inter­cettazioni, su cui si è basata l’udienza del processo che vede alla sbarra la famiglia De Maio-Porpora per un giro di estorsioni e usura a Scafati e Angri nei confronti di persone in difficoltà economiche. Nell’udienza si è par­lato anche del tenore di vita degli imputati, in particolare di quello di Elvira De Maio, la ve­dova del boss Antonino Porpora, ritenuta il capo della banda.
Alla donna era stato assegnato una casa popolare ma aveva, come hanno dimostrato le inda­gini auto di lusso e una forte disponibilità eco­nomica. Raffaele Porpora, il figlio coinvolto nel processo, aveva venduto un immobile per circa 100 mila euro ma dal Comune di Scafati nessun rilievo essendo la cosa vietata per legge. C’è stato poi il racconto delle vittime che hanno raccontato dei tassi di interessi usurari che avrebbero raggiunto anche il 20% in un mese, oltre alle minacce per chi non era in regola con i pagamenti. Tre gli episodi di consegna dei soldi sono stati filmati dalla polizia giudiziaria, che ha relazionato il tutto in flagranza di reato. Sentenza prevista per il 5 dicembre.

Cronache della Campania@2018

Appalto rifiuti alla Ecocar, c’è anche un’inchiesta della Procura di Cassino con 12 indagati

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C’è un’altra inchiesta della Procura di Cassino per associazione e corruzione sulle proroghe all’Ecocar: sono 12 gli indagati, 4 sono funzionari casertani.
Non c’è solo l’indagine della Dda su 4 comuni della provincia di Caserta a scuotere il mondo della pubblica amministrazione. Un’altra inchiesta che parte della Procura di Cassino è arrivata in questi giorni a chiudersi con l’individuazione delle persone coinvolte, tra cui anche funzionari pubblici dei Comuni di Caserta e Marcianise. Si tratta di un’indagine che ruota attorno alla Ecocar, che gestisce l’appalto rifiuti nei due grandi comuni casertani, e che parte da lontano.
In totale sono 12 gli indagati, tra cui Antonio Deodati, patron dell’Ecocar, il suo collaboratore Antonio Nocera, l’ex dirigente del Comune di Caserta Carmine Sorbo, il dipendente del cantiere di Marcianise Gerardo Doppiettae due dipendenti dell’Ente di piazza Umberto I, Francesco Topa e Vincenzo Negro. L’accusa, a vario titolo, è di concorso in associazione e corruzione.
Secondo la Procura di Cassino Carmine Sorbo avrebbe ritardato e rallentato, tra il 2014 ed il 2015, le operazioni di gara per l’affidamento del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti a Caserta dopo la risoluzione del contratto con l’Ati Ecocar-Ipi, in conseguenza dell’interdittiva antimafia ricevuta dalla Ecocar, permettendo alla società di Deodati di ottenere la prosecuzione del servizio in via provvisoria (a suon di proroghe) ottenendo, secondo gli inquirenti, la consegna di una somma di denaro (per un importo non precisato) erogate da Antonio Deodati e pagate materialmente da Antonio Nocera. Stessa strategia anche al Comune di Marcianise, dove, secondo la Procura, venivano consegnate somme di denaro a Negro e Topa, “che in cambio dell’asservimento delle loro funzioni esercitate presso il Comune di Marcianise ricevevano utilità consistenti in somme di denaro, per un importo complessivo di 500 euro mensili”.
Gustavo gentile

Cronache della Campania@2018

Metanizzazione, tangenti da Forlì a Salerno per l’appalto di Terzigno. Bufera su Mediterranea srl e su Conscoop

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Salerno. Tangenti per la metanizzazione in manette i vertici della Conscoop, una delle cooperative più importanti dell’Emilia Romagna e un funzionario del Ministero. Mauro Pasolini, Presidente del colosso cooperativo con sede a Forlì e Giuseppe Cangione, membro dell’ufficio del Ministero dello sviluppo economico responsabile della metanizzazione nel mezzogiorno sono finiti agli arresti domiciliari. Mentre in carcere è finito Flavio Aldini, ex dirigente di Conscoop già vicepresidente della Mediterranea srl di Salerno, società concessionaria del servizio di distribuzione del metano.
Inoltre i carabinieri del comando provinciale hanno notificato cinque avvisi di garanzia nei confronti di professionisti e dei vertici della Mediterranea di Salerno. E’ l’esito di un’indagine della procura di Forli’-Cesena, iniziata nel gennaio 2017 coordinata dai sostituti procuratori Francesca Rago e Lucia Spirito, ed eseguita dai carabinieri del comando forlivese e di colleghi di Salerno, per le ipotesi di reato di estorsione, corruzione, favoreggiamento personale, false informazioni al pubblico ministero e turbata libertà degl’incanti. Secondo quanto spiegato dal procuratore di Forli’-Cesena, Maria Teresa Cameli, i vertici di Conscoop avrebbero attuato un sistema di pressioni su alcuni professionisti che collaboravano con il consorzio affinché consegnassero somme di denaro per ottenere il pagamento di quanto dovuto e successivi ulteriori incarichi. Un solo professionista cesenate, secondo quanto emerso, sarebbe stato costretto a versare circa 200 mila euro nell’arco di cinque anni. Una parte di tali somme sarebbe poi servita ai vertici di Conscoop per “ungere” il funzionario ministeriale responsabile del progetto di metanizzazione del mezzogiorno per ottenere la proroga del termine per il completamento dei lavori relativi al metanodotto del comune di Terzigno in provincia di Napoli che andavano a rilento, esponendo il consorzio al pagamento di forti penali e alla perdita dell’appalto. Quattro degli indagati si riferiscono a un secondo filone dell’indagine in merito ad un appalto indetto nel 2015 a Salerno e che, secondo quanto emerso dalle indagini, sarebbe stato attagliato a misura di una società controllata da Conscoop. Precisato dal procuratore Cameli come “ogni passo dell’indagine sia stato confortato da ampi e documentati riscontri”.
Per quanto riguarda la Mediterranea srl che distribuisce il metano nel capoluogo campano e in diversi comuni campani e lucani, gli inquirenti hanno scoperto che il bando di gara era stato indetto per permettere alla municipalizzata di individuare un partner industriale al fine di irrobustire la compagine societaria e poter successivamente allargare il proprio mercato. Secondo l’accusa il bando, poi aggiudicato da una società controllata da Conscoop, sia stato fatto a misura di quest’ultima – con la consulenza del professionista romano – attraverso la formazione di un bando di gara ad hoc, configurando il reato di turbativa d’asta.
La Conscoop è consorzio di cooperative che rappresenta un colosso per l’economia locale e nazionale, con circa 120 affiliate e un fatturato che nel 2017 ha toccato quota 146 milioni di euro. Nel blitz di ieri i carabinieri hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare del giudice per le indagini preliminari Monica Galassi, che ha accolto la richiesta della procura, che da mesi ha messo sotto inchiesta il gigante delle coop forlivesi per ipotesi di reato commesse tra Forlì, Roma e Salerno. Da ieri mattina, Pasolini, presidente della coop rossa è agli arresti domiciliari nella casa di Cesenatico. In carcere si trova invece il forlivese Aldini, da qualche tempo uscito dai ranghi dell’azienda. Le perquisizioni dei carabinieri sono andate avanti fino al tardo pomeriggio di ieri, sia nella sede Conscoop di via Galvani sia nelle abitazioni di Pasolini e Aldini. Perquisite anche le abitazioni degli altri 5 indagati a piede libero, sia a Forlì sia Cesena. Nel mirino degli inquirenti sono finiti diversi appalti ottenuti dal consorzio forlivese in tutta Italia, per un giro di svariati milioni di euro. Nel 2017 il gruppo Conscoop si è aggiudicato 37 gare, per un importo acquisito di 102 milioni.

Cronache della Campania@2018

Party nei luoghi d’arte: indagine conoscitiva della Procura di Napoli

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La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le foto della festa di Halloween nella chiesa di San Gennaro all’Olmo, a Napoli (che da tempo non ospita piu’ funzioni religiose) affidata dalla Diocesi in comodato d’uso ad una Fondazione per attivita’ culturali: foto comparse sui social e siti internet con ragazze in abiti succinti, giovani mascherati da diavoli, una impiccagione simulata, oltre ai residui di plastica abbandonati sugli altari del ‘700. Mentre la Curia ha espresso “profondo dissenso” per quanto accaduto, la Procura di Napoli ha aperto una indagine conoscitiva – come riferiscono alcuni organi di stampa – sulle feste organizzate nei luoghi d’arte. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, e’ affidata al lavoro dei pm che fanno parte della sezione che si occupa della tutela del patrimonio artistico. Pochi mesi fa fecero discutere e polemizzare le immagini del selfie di alcune ragazze sul trono dei Borbone al Palazzo Reale di Napoli.

Cronache della Campania@2018

Tentata concussione: condannato l’ex presidente del Consiglio Regionale della Campania, Paolo Romano

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Il tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato ad un anno di carcere con pena sospesa l’ex presidente del Consiglio Regionale della Campania Paolo Romano. Il processo riguarda la tentata concussione, poi riqualificata dalla Corte in tentata induzione indebita, commessa da Romano, ex esponente del Nuovo Centro Destra (Ncd) ai danni dell’ex manager dell’Asl di Caserta, Paolo Menduni, e relativa alla nomina all’interno dell’azienda sanitaria locale di una persona vicina al politico. Il collegio presieduto da Roberta Carotenuto ha assolto invece l’ex consigliere regionale Eduardo Giordano e l’avvocato Francesco Pecorario (difesi rispettivamente da Giuseppe Stellato e Alfonso Quarto). Romano (assistito da Nicola Garofalo) fu arrestato nel maggio 2014 dai finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Caserta nell’ambito di un’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere allora guidata da Corrado Lembo, oggi Procuratore a Salerno; il politico di Capua fini’ ai domiciliari (poi torno’ in liberta’), con l’accusa di aver abusato della sua carica, contattando piu’ volte Menduni e minacciandolo – a dire degli inquirenti – anche attraverso articoli di stampa, ispezioni e controlli della Regione Campania presso l’Asl, qualora non avesse accolto le sue richieste relative alla nomina del direttore del distretto sanitario di Capua, suo feudo elettorale. L’anno dopo, alle elezioni regionali del 2015 poi vinte da De Luca, nonostante l’indagine, Romano si candido’ nel Nuovo Centro Destra (Ncd) ma non fu eletto. Il processo, nato dalla denuncia di Menduni, e’ iniziato nell’aprile 2016; momento decisivo nel novembre 2017, l testimonianza dell’ex manager Asl, che parlo’ di “continue segnalazioni dalla politica sulle nomine dei funzionari Asl”, e di “pressioni indebite con tanto di campagna mediatica sfavorevole”.

Cronache della Campania@2018

Truffe sui fondi editoria. False fatture per crediti tasse e contributi

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Fatture false, che servivano per accumulare crediti di Iva, Irap, Ires, compensare contributi a diversi enti di previdenza, dall’Inps all’Inpgi e l’Enpals, e presentare quindi false dichiarazioni di regolarita’ contributiva che permettevano di accedere ai contributi del MiSe per l’editoria. Julie tv, Telelibera e TeleAkery, stelle della galassia televisiva di Lucio Varriale, figura ben conosciuta nel panorama dell’emittenza privata campana, e non solo, hanno avuto negli anni ricche erogazioni attraverso il Corecom territoriale. Julie e Telelibera, in particolare, hanno sempre occupato i primi posti della specifica graduatoria, arrivando a percepire milioni di euro da pubbliche risorse. Un meccanismo ben congegniato, che consentiva di risparmiare sulle tasse e di ottenere denaro dallo Stato, e’ quello messo in luce da una indagine della Guardia di finanza di Napoli, su delega della procura, nata a maggio 2016 da una verifica contabile proprio su Julie, cui seguirono il 4 maggio e il 12 agosto dello scorso anno due decreti di sequestro. Una bufera giudiziaria alla quale Varriale reagi’, spiega il gip della IX sezione di Napoli che ha firmato il provvedimento di arresto per l’imprenditore e altri tre indagati, avvalendosi delle sue televisioni “al fine di screditare chiunque si frapponesse alla realizzazione dei disegni e degli scopi perseguiti”, con una rubrica, ‘Vostro onore’, e dossier, in cui prendeva di mira finanzieri e magistrati. Varriale e’ ora ai domiciliari, come la sua collaboratrice piu’ fidata, Carolina Pisani, che e’ stata anche amministratrice legale di Julie tra il luglio 2011 e il 2013, e i suoi commercialisti Renato Oliva (amministratore dal 2013 alla messa in liquidazione nel 2017 di So.Pro.Di.Mec, altra srl del gruppo) e Claudio Erra; altre 8 persone sono indagate, e due di queste sono state prestanome di Varriale come amministratori di societa’ (oltre a Julie Italia srl e So.Pro.Di.Mec, c’e’ anche Universal 3000 al centro dell’inchiesta) di fatto sempre da lui gestite. Varriale e i suoi complici hanno contribuito a vario titolo a produrre e utilizzare le fatture materialmente false, a sottrarre scritture contabili, a procedere a indebite compensazioni, a ottenere indebitamente erogazioni pubbliche negli anni tra il 2011 e il 2015. Ad esempio, nel 2011 una fattura da 2 milioni di euro emessa da Saesa immobiliare srl serve a creare una dichiarazione Iva con 400mila euro di elementi passivi fittizi, cosi’ come l’anno dopo una da 1,5 mln emessa da Deca 56 crea 315mila euro di elementi passivi fittizi. Da qui la compensazione di contributi, e la relativa e, per i pm, falsa, dichiarazione di ‘regolarita’ contributiva’ presentata in quattro domande al Corecom che fanno si’ che a Julie Italia srl il MiSe riconosca una somma complessiva di contribuzione per oltre 1,5 milioni di euro nel 2015.

Cronache della Campania@2018

Sentenze pilotate per gli amici: slitta all’11 gennaio la decisione per il giudice Mario Pagano e la cricca dei 22

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E’ slittata all’11 gennaio prossimo la decisione del gip di napoli per il giudice salernitano Mario Pagano e gli altri 22 complici accusati di corruzione in atti giu­diziari e corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio. Nell’elenco compaiono due nomi in più, quelli del giudice Mario Pagano (magistrato del Tribunale di Salerno e Potenza e, fino all’arresto ai domiciliari, in servizio a Reggio Cala­bria) e del funzionario di cancelleria Nicola Montone (suo cognato), per completezza del capo di imputazione rispetto agli altri indagati. Gli avvo­cati hanno chiesto per i loro assistiti la revoca dei provvedimenti cautelari con il parere favorevole dei Pm.
I ventuno indagati che rispondono in concorso sono invece Carmine Pa­gano (fratello del giudice e sindaco di Roccapiemonte), gli imprenditori della sanità privata Luigi Celestre Angrisani (ritenuto il titolare di fatto della casa di cura Angrisani-Villa dei Fiori) e la compagna Irene Miceli; Gio­vanni Di Giura e Riccardo De Falco (soci e comproprietari delle case di cura Silba-Villa Silvia e Materdomini), Roberto Leone (rappresentante legale della Royal Trophy) e, ancora, Eugenio Rainone, Renato Coppola (dipendente pubblico ritenuto factotum di Mario Pagano), Luigi Grimaldi, Assunta In­genito, Filippo Romano, Peppino Sa­batino, Gennaro Saviano, Giovanni Scarano, Giacomo Sessa, Gerarda To­rino ed Ermelinda Aliberti. Indagini chiuse anche per il got Augusta Vil­lani e il giudice di pace Davide Pailadino, l’avvocato Giovanni Pagano. Procedimento mosso nei confronti dei seguenti enti:
Casa di cura Angrisani – Villa dei Fiori S.r.l., Raffaele; Silba s.p.a. Casa di cura “Villa Silvia”, nella persona di Russo Giovanni, Royal Trophy Srl, Costruzioni Generali Rainone srl. Secondo la ricostruzione della procura di Napoli, che è stata riassunta nelle circa trenta pagine del provvedi­mento di conclusione delle indagini preliminari, Mario Pagano avrebbe garantito «esito favorevole nelle cause civili in cui erano coinvolti imprendi­tori ai quali era legato da consolidati rapporti di amicizia».
Per gli inquirenti, il giudice – in cam­bio del suo impegno affinchè le cause relative ad imprenditori amici fossero assegnate a lui e garantire così un esito favorevole a questi ultimi – avrebbe ricevuto regali (orologi come Rolex, Submariner, Breguet) e somme di denaro a beneficio della società Po­lisportiva Rocchese, della quale Pa­gano sarebbe responsabile diretto e tramite congiunti (come il fratello Carmine). E, ancora, in altri casi, for­niture varie (cucine e climatizzatori) a beneficio di un agriturismo di Roccapiemone riferibile allo stesso magi­strato, ritenuto quale contitolare di fatto della “Eremo” proprietaria della struttura.” La società in questione avrebbe ricevuto un finanziamento di 300mila euro a fondo perduto. I pm giudicano l’operazione come truffaldina, in quanto sarebbero emerse operazioni fittizie con l’apparente co­stituzione del capitale sociale e false fatture relative all’acquisto di mate­riali e forniture.
Per le sentenze “pilotate”, invece, molte sarebbero state quelle a favore di Angrisani e la compagna Miceli (in cui era parte in causa la casa di cura Angrisani – Villa dei Fiori srl e di cui Angrisani è il titolare di fatto e la com­pagna Miceli socia con quota aziona­ria pari al 33,33%); e, ancora, le pronunce in favore di De Falco e Di Giura in cui era parte la Silba Spa, casa di cura Villa Silvia e la Materdo­mini. E, ancora, per Leone della Royal Trophy (fornitrice del materiale spor­tivo della Rocchese) e per l’ammini­stratore unico della “Natura Mediterranea srl”, Grimaldi. Tra gli amici del giudice Pagano, figura anche l’imprenditore Rainone, che per la procura sarebbe stato favorito in un contenzioso in cui era parte la Costruzioni Generali Rainone.

Cronache della Campania@2018


Il pentito di Scafati: “Aliberti disponibile con i clan, incontrai il fratello Nello e Fele per una mazzetta sui lavori edili”

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“Aliberti era disponibile” così Massimo Fattoruso, pentito ex esponente del clan Aquino-Annunziata parla dell’ex sindaco Pasquale e del fratello Nello. ‘Disponibile’ per il neo collaboratore di giustizia ha un solo significato ‘era pronto a favorirci’. Nel corso dell’interrogatorio del 5 ottobre scorso Fattoruso spiega i rapporti che gli Aliberti, Pasquale e Nello hanno con esponenti del clan Matrone, e non solo. Racconta anche di una mazzetta che l’imprenditore Antonio Viscardi avrebbe dovuto pagare a Nello Aliberti per alcuni lavori edili sul territorio di Scafati e di un incontro in un bar di Scafati dove era presente anche un altro ex politico, Giancarlo Fele. E su domanda della polizia giudiziaria e del pm Vincenzo Montemurro che lo interrogano racconta: “Aliberti con Matrone, come con altri appartenenti al gruppo Matrone, era in buon rapporto perchè comunque, era in buon rapporto con Generoso Di Lauro e questi faceva capo a Franchino Matrone. Per buoni rapporti intendo che è una persona disponibile a favorirci e quindi anche a favorire il clan Matrone se ce n’era bisogno a livello comunale”. Il collaboratore su espressa domanda sostiene di non aver mai visto insieme Michele Matrone (figlio del boss Franchino Matrone, ndr) con Pasquale Aliberti, ma con il fratello Nello, sì. “Con Pasquale no, però con il fratello sì. Li ho incontrati presso il bar Nappo ed erano molto amici, la stessa cosa come quando ho incontrato Nello presso il bar che sta a via Passanti di fronte al cimitero dove quel giorno avevamo appuntamento io, Giancarlo Fele e Antonio Viscardi che avevano anche appuntamento con Nello Aliberti. Antonio Viscardi gli doveva una mazzetta per un lavoro fatto a livello edile perchè bene o male Viscardi diciamo gli Aliberti facevano prendere i lavori al Viscardi che nell’ambiente è vicino a Matrone”. Il neo pentito delinea la figura dell’imprenditore Viscardi e sostiene che già il padre di questi “era una persona vicina al clan Matrone, adesso se ne occupa il figlio Antonio”.
Il pentito, fratello di Francesco Fattoruso ucciso in un agguato di camorra, racconta quello che sa agli inquirenti, delinea personaggi e circostanze e parla dei rapporti tra Antonio Viscardi, l’imprenditore edile, e l’ex assessore ai lavori pubblici della giunta Aliberti, Giancarlo Fele: “Antonio e Giancarlo Fele sono anche soci per quanto riguarda le auto a noleggio: Maserati, Ghibli, Maserati Levante, Porsche Cayenne, una società che hanno all’estero in Romania – dice il pentito -. Le auto le immatricolano nuovamente in Romania quindi con targhe rumene e le mettono, le portano qua che poi le auto là non ce l’hanno mai portate. Le auto stanno sola qua in Italia e le tengono in gestione la Di Palma Rent e la Golden cars”. Secondo Fattoruso, oltre ai collegamenti con il clan Matrone i due – Viscardi e Fele – hanno rapporti anche con i Langella (nota famiglia camorristica di Boscoreale, ndr) sia la Di Palma Rent che la Golden cars farebbero capo a loro. (r. f.)

Cronache della Campania@2018

Omicidio Materazzo, la vedova dell’ingegnere in aula: “Luca era una bomba ad orologeria”

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Napoli. Una testimonianza agghiacciante quella della vedova di Vittorio Materazzo al processo nei confronti del cognato Luca imputato per l’omicidio dell’ingegnere, ucciso il 28 novembre del 2016 davanti alla sua abitazione a Napoli. Elena Grande ha raccontatto ai giudici della Corte d’Assise che “Avevano tutti paura di Luca, non ci permettevamo di mandarlo via, perchè era una bomba ad orologeria”. La donna ha manifestato, oggi in udienza, nell’aula 115 del Tribunale di Napoli, tutti i suoi timori riguardo il cognato Luca, accusato di essere l’assassino del marito. Rispondendo alle domande dei suoi avvocati, Arturo e Errico Frojo, e dell’avvocato Nicola Giovanni Saetta difensore del fratello della vittima, ha più volte messo in evidenza questo aspetto. Elena Grande ha anche avuto un botta e risposta, a voce alta, con l’avvocato dell’imputato quando quest’ultimo le ha chiesto perchè, subito dopo l’assassinio del marito, non avesse chiamato il cognato: “Avvocato, Luca odiava mio marito, perchè avrei dovuto chiamarlo”. La prossima udienza è stata fissata giovedì 22 novembre.
Elena Grande ha anche ricordato, sollecitata dagli avvocati, di avere carpito una conversazione che l’aveva turbata, a casa del padre del marito, Lucio Materazzo, poco dopo la sua morte. Luca stava avendo una accesa conversazione con Fabrizio Fiore, l’attuale compagno di Scintilla Maria Amodio, la donna che e’ stata legata sentimentalmente a Lucio, nell’abitazione dove i tre vivevano. Una conversazione agitata, con sede sbattute sul pavimento, dove Luca a voce alta dice: “l’aggia acciso, l’hamm acciso (l’ho ucciso, l’abbiamo ucciso)…che vita di merda, fino a quando vuoi manipolare la vita delle persone… papa’ aveva le mani legate”. Elena Grande piu’ volte ribadito i timori che nutriva nei confronti del cognato, insieme con il marito, il quale aveva proibito al fratello di recarsi nella sua abitazione (abitavano nella stessa palazzina ma su piani diversi, ndr) in sua assenza, anche se in una occasione Luca, per discutere della ripartizione di una tassa, si era recato a casa del fratello. Nel corso dell’udienza e’ stata anche ricordato che Lucio, con una lettera, una settimana prima della sua morte, aveva sancito, nero su bianco, la sua volonta’ di lasciare le redini dell’azienda di famiglia nella mani di Vittorio.

Cronache della Campania@2018

Angri, madre e gemellini morti in sala parto: condannato ginecologo

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Arriva una sola condanna per la morte di Maria Rosaria Ferraioli, mamma 23enne deceduta nell’aprile del 2011 insieme ai due gemellini che portava in grembo. La sentenza emessa dal tribunale di Nocera Inferiore arriva dopo circa cinque ore di camera di consiglio che si è conclusa con la condanna ad un anno e sei mesi di reclusione per Vincenzo Centore, ginecologo dell’ospedale di Scafati. Secondo il giudice sarebbe stato lui l’unico colpevole della morte dei gemellini. Anche per lui è caduta la responsabilità per la morte della donna.
La procura a maggio aveva chiesto una condanna per tutti i medici indagati, complessivamente erano cinque i camici bianchi imputati: il ginecologo, Raffaele Molaro, Michele Mastrocinque, Michele Piscopo e Attilio Sebastiano. Dalla sentenza emessa dal tribunale di Nocera questi non sarebbero responsabili della morte della donna e dei suoi due figli.
La 25enne fu visitata dal ginecologo di fiducia per un ascesso alla coscia destra. Secondo l’accusa sarebbe stata prescritta una terapia non idonea. Dopo due giorni la donna arriva all’ospedale di Scafati, visitata dal ginecologo viene trasferita nel reparto di chirurgia ed operata senza verificare lo stato di salute dei gemelli. Secondo le accusa il medico diede l’ok al chirurgo e spinse per effettuare l’operazione. La situazione precipitò nella notte, quando Maria Rosaria fu colta da uno shock settico, inutile anche il taglio cesareo praticato subito dopo. Ne lei nei i gemelli sono riusciti a salvarsi dalla morte.

Cronache della Campania@2018

Bus nella scarpata, per la difesa di Autostrade ‘le accuse sono insussistenti’

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“Gli standard di sicurezza delle barriere protettive sul Viadotto Acqualonga garantivano una elevata capacita’ di contenimento, adeguata a quella massima prevista dalla normativa”. Lo ha sostenuto la difesa dei 12 imputati tra dirigenti e funzionari di Autostrade spa, nel processo in corso ad AVELLINO per la strage che il 28 luglio del 2013 costo’ la vita a 40 persone precipitate dal viadotto dell’A16 Napoli-Canosa a bordo del bus con il quale stavano facendo ritorno a casa dopo una gita nei luoghi di san Pio da Pietrelcina. Il difensore della societa’ Autostrade, Giorgio Perroni, ha anche sostenuto che il degrado dei “tirafondi” (i bulloni che fissano al suolo i New Jersey, ndr) non e’ da ritenere la causa che ha provocato il cedimento della barriera, come hanno dimostrato i crash test mentre per contro l’accusa non avrebbe fornito alcuna prova in ordine alla effettiva conoscenza da parte della Direzione del Tronco a cui e’ demandata la manutenzione di quel tratto autostradale, del fenomeno accertato.La difesa degli imputati, tra i quali l’ad di Autostrade, Giovanni Castellucci e l’ex condirettore, Riccardo Mollo, ha anche sottolineato che invece “tutti gli elementi emersi dal dibattimento indicano in modo inequivocabile quanto siano state determinanti le condizioni del bus”, che non avrebbe dovuto circolare e che non avrebbe mai potuto superare la revisione, “la cui falsificazione e’ stata accertata in modo inequivocabile”: l’automezzo, che aveva gia’ percorso quasi un milione di chilometri, viaggiava con la valvola di sicurezza del sistema frenante manomessa, con pneumatici usurati e di marche diverse e il giunto cardanico mai sottoposto a controlli o revisioni. La difesa di Autostrade spa, che ha giudicato “insussistenti gli elementi dell’accusa nei confronti della societa’”, ha anche ricordato le dichiarazioni rese in dibattimento dai superstiti che allarmati dalle anomalie di marcia verificatesi alcuni chilometri prima del Viadotto Acqualonga, avevano chiesto piu’ volte all’autista, Ciro Lametta, di fermarsi nel tratto in salita che il bus stava percorrendo. Allarmi che vennero ignorati da Lametta, anch’egli perito nell’incidente. Per ognuno dei 12 imputati, il Procuratore di Avellino, Rosario Cantelmo, ha chiesto al giudice monocratico, Luigi Buono, la condanna a dieci anni di reclusione. Nell’udienza del 5 ottobre scorso, la pm Cecilia Annecchini, aveva chiesto la condanna a 12 anni per Gennaro Lametta, proprietario del bus, e quelle a 12 e 9 anni rispettivamente per Antonietta Ceriola e Vittorio Saulino, dipendenti della Motorizzazione Civile di Napoli che avrebbero falsificato la revisione del bus. La prossima udienza e’ fissata per il 30 novembre.

Cronache della Campania@2018

Camorra, pesanti condanne anche in Appello per la faida del rione Berlingieri

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I giudici della terza sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli hanno confermato la condanna a 30 anni per carcere Attanasio Liguori accusato di aver fatto parte del commando che uccise Francesco Feldi, ras del cartello Sacco-Bocchetti  freddato il 19 febbraio 2011 al rione Berlingieri. Liguori, difeso dagli avvocati Luigi e Saverio Senese, non è il solo ad essere stato condannato. Sedici anni infatti anche per il pentito Giovanni Illiano, 14 per gli altri pentiti Carmine e Gaetano Annunziata.  La Procura antimafia, al termine della requisitoria aveva infatti chiesto l’ergastolo per l’autista del gruppo, il 38enne Attanasio Liguori. Pene più leggere, in ragione della loro collaborazione con la giustizia, per gli altri scissionisti che presero parte al delitto. Per Giovanni Illiano, l’uomo che materialmente ha premuto il grilletto, il pubblico ministero Enrica Parascandolo aveva invocato una condanna a 18 anni di reclusione, per i fratelli Carmine e Gaetano Annunziata 14 a testa. secondo l’ipotesi investigativa, come ricorda Il Roma; “Franchetiell’ ’o tufano” fu ammazzato nell’ambito della guerra per il controllo delle piazze di spaccio di droga nell’area di Secondigliano. Feldi, vecchio espnente del clan Licciardi poi transitato tra le fila dei Sac-co-Bocchetti, si sarebbe infatti ritrovato in una condizione di sostanziale isolamento dopo la disgregazione – tra omicidi, pentimenti e retate – degli scissionisti fuoriusciti dalla Masseria Cardone. Una posizione di svantaggio che non gli avrebbe consentito di prevedere e affrontare in tempo le mire espansionistiche che gli Amato-Pagano stavano covando alla vigilia della terza faida di Scampia: entrambi volevano infatti mettere le mani sul rione Berlingieri. Ad avere la peggio fu però Feldi. Fu proprio il killer Illiano a ricostruire le fasi del raid: “’o tufano” fu raggiunto da una pioggia di piombo a due passi dalla propria abitazione il 19 febbraio di sei anni fa. Il pentito, già condannato per l’omicidio di Fortunato Scognamiglio, raccontò agli inquirenti della Dda che quel giorno agì insieme a Mirko Romano – trovato cadavere nel dicembre 2012 – su ordine del boss Tonino “’o russ”. Ad accompagnarli, sempre stando a quanto riferito dal pentito, sarebbe stato Attanasio Liguori: l’autista del commando. Della fornitura delle armi da impieare per eseguire la sentenza di morte si sarebbero invece incaricati i fratelli Carmine e Gaetano Annunziata. La ricostruzione del collaboratore di giustizia, per il pm Parascondolo, troverebbe inoltre riscontro anche nelle testimonianze rese da altri otto pentiti, su tutti i fratelli Caiazza.

Cronache della Campania@2018

Operazione Galassia: tutte le richieste di condanna per i 15 del clan Iovine

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San Cipriano d’Aversa. Il Procuratore Generale ha completato le richieste di condanna in Corte di Appello nell’ambito dell’operazione “Galassia”. Dieci anni fa fu inferto un colpo durissimo agli interessi economico-criminali della fazione di Antonio Iovine, detto o’ ninno, del clan dei Casalesi, oggi collaboratore di giustizia insieme alla moglie Enrichetta Avallone. Per lei a settembre il PG chiese 12 anni di carcere ed effettuò queste richieste di condanna: per Garofalo chiesti 4 anni; per Armando Di Chiara chiesti 7 anni; per Del Frate chiesti 7 anni; per Giuseppe Di Chiara chiesti 5 anni.
Chieste altre pesantissime condanne per altri 15 componenti del clan Iovine e per Giuseppe Iovine, fratello di quest’ultimo, che in primo grado era stato assolto. Nel collegio difensivo gli avvocati Paolo Caterino, Mirella Baldascino, Angelo Raucci, Giuseppe Tessitore per i coniugi Iovine. La sentenza è prevista per gennaio
Corrado De Luca anni 4
Francesco Iovine anni 3
Filomena Iovine anni 3
Nicola Martinelli anni 8
Francescio Cantile anni 8
Cristofaro Coppola anni 7
Vincenzo Della Volpe anni 9
Luigi Di Bello anni 9
Salvatore Diana anni 9
Antonio Ferri anni 8
Francesco Ferri anni 6 e mesi 6
Nicola Fontana anni 7
Nicola Sicurezza anni 7
Giuseppe Iovine anni 7
Gaetano Manno anni 9

 

Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

‘Cassaforte’ di Zagaria: la Cassazione conferma le accuse per Nicola Inquieto

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Nicola Inquieto deve restare in carcere. E’ quanto ha disposto la Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso presentato dagli avvocati difensori Nicola Marino e Giuseppe Stellato contro l’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva confermato le esigenze cautelari per l’imprenditore, accusato di camorra e ritenuto il canale attraverso cui il capoclan Michele Zagaria avrebbe investito i propri capitali all’estero.
Per i giudici della Suprema Corte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, finite nell’ordinanza a carico di Inquieto, non sarebbero “discordanti” tra loro in quanto “ogni collaboratore di giustizia era portatore di una porzione di conoscenza dei fatti, talora sovrapponibile a quella riportata dagli altri collaboranti e talora integrativa di quella; il giudice sottolineava come ogni dichiarazione avesse una sua fonte autonoma e come ciascuna contribuiva coerentemente alla ricostruzione di un ambito criminale particolare. Le divergenze nei racconti sottolineate dal ricorrente sono state correttamente ritenute di modesto rilievo, anche perché il ricorso effettua una parcellizzazione minimizzante degli elementi raccolti allo scopo di destrutturare il disegno complessivo che si era venuto formando. Così, non si riscontra affatto una sorta di pregiudizio a carico del ricorrente allorquando il Tribunale riporta l’episodio del bunker scoperto nel 1994, poich detto elemento viene saldato con gli altri che dimostrano lo stretto rapporto che legava il capo-cosca Michele Zagaria con la famiglia dell’Inquieto, e correttamente il Tribunale sottolinea che proprio presso l’abitazione del fratello del ricorrente veniva in seguito arrestato lo stesso Zagaria, ponendo termine ad una lunga latitanza: risultava così coerente quanto narrato dai collaboranti circa il finanziamento del ricorrente da parte dello Zagaria Michele circa l’apertura del negozio di telefonia del ricorrente medesimo e circa la fiducia che quegli riponeva nel ricorrente, tanto da affidargli somme di danaro di rilievo, da reinvestire in Romania – scrivono i giudici – dove egli aveva preferito allocare l’Inquieto per evitare l’addossarsi su di lui degli interessi investigativi di organi inquirenti”.
Inoltre le dichiarazioni dei collaboratori trovano un riscontro dal “raffronto di dati oggettivi – proseguono i giudici – quali la situazione di impossidenza del ricorrente e della sua famiglia e la ricchezza accumulata dallo stesso in un tempo relativamente breve a fronte della impossibilità di rinvenire una causa legittima di detta nuova condizione alla stregua della documentazione finanziaria, anche prodotta dal ricorrente: anzi, a proposito della stessa, non risponde al vero che il Tribunale non abbia considerato l’ordinario ricorso al credito quale fonte degli investimenti, in quanto l’ordinanza impugnata riporta i dati dei ripetuti trasferimenti di danaro (per somme di rilievo assoluto) a favore del ricorrente o della sua impresa, nonché quelli della progressiva espansione di tale impresa e degli acquisti di beni immobili; ed ancora, venivano correttamente tratte conclusioni dalle conversazioni intercettate del ricorrente, il quale, nell’ambito dei rapporti conflittuali della separazione coniugale, faceva espresso riferimento al fatto che il danaro di cui poteva disporre non era soltanto suo ma anche di un’altra persona, descritta come pericolosa e violenta, alla quale doveva versare somme di danaro. In questo ambito, il Tribunale rilevava che la documentazione prodotta dal ricorrente era talora priva di sottoscrizione o talora priva di data e che comunque non erano evincibili le causali dei pagamenti e detta documentazione non era idonea a scalfire il chiaro quadro indiziario che emergeva dal contenuto delle conversazioni”.
Per questo la Cassazione ha confermato le esigenze della custodia in cella rigettando il ricorso. Intanto Inquieto è a processo con il giudice titolare del fascicolo che ha inoltrato all’autorità giudiziaria romena una proroga di ulteriori sei mesi della consegna temporanea alla giustizia italiana, per consentire lo svolgimento del processo. Proroga a cui si è opposto Inquieto che ha promosso un ricorso alla Corte di Giustizia di Bucarest che si esprimerà nei prossimi giorni.

 Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018


Faccia a faccia tra l’ex giudice corrotto e il pm, Iannello si difende e dice ‘no’ al Riesame

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Scafati. Quattro ore di interrogatorio, l’analisi punto per punto di ogni capo di imputazione e degli aspetti di un’indagine che lo hanno portato dietro le sbarre a Poggioreale. Antonio Iannello, l’ex giudice di pace di Torre Annunziata, arrestato per corruzione – dopo due mesi di carcere, trascorsi nelle celle di Poggioreale – ha chiesto di essere sentito dal pm Anna Chiara Fasano della Procura di Nocera Inferiore, per chiarire gli aspetti dell’intricata vicenda che lo vede protagonista. Il suo interrogatorio potrebbe finire presto agli atti del Tribunale del Riesame di Salerno che valuterà a partire dal 26 novembre le istanze di scarcerazione degli altri indagati: consulenti, avvocati, carabinieri e ex giudici di pace ancora sottoposti a misura detentiva. Iannello ha risposto diffusamente alle domande del pm, assistito da un esponente delle forze dell’ordine, alla presenza del suo avvocato Francesco Matrone, pare si sia difeso su molti punti fornendo la sua versione dei fatti contestati. Una circostanza sulla quale l’ex giudice pare abbia battuto molto è stata la ‘regolarità delle sue sentenze’ emesse in particolare su cause riguardanti sinistri stradali e che – secondo l’accusa – avrebbero favorito avvocati e ricorrenti contro le compagnie assicurative per ottenere liquidazioni maggiorate. Circostanza, questa, più volte negata dall’ex giudice che ha sostenuto le liceità del suo comportamento, ribattendo – su ogni circostanza – la propria difesa. L’interrogatorio dell’ex giudice sarà trasmesso agli inquirenti per ulteriori approfondimenti, pare infatti che Iannello – avvocato scafatese, ripreso mentre intascava le mazzette nel suo studio da una telecamera piazzata dagli uomini della guardia di finanza – non abbia potuto negare la circostanza di aver preso soldi da alcuni coindagati, in particolare dai consulenti tecnici, fornendo anche in questo caso una propria versione a proposito. Il pm Anna Chiara Fasano alla quale è stata affidata l’inchiesta proveniente dalla procura di Roma parte abbia analizzato con Iannello tutti gli aspetti della vicenda e i ruoli dei diversi imputati. Tra parziali ammissioni e difese l’ex giudice ha fornito una serie di indicazioni su quanto accaduto nel suo studio nei mesi in cui i finanzieri hanno posizionato una cimice e una telecamera, registrando un giro di corruttele, per l’affidamento di incarichi a consulenti tecnici e incontri ‘privati’ con avvocati che avrebbero dovuto discutere cause per sinistri stradali proprio davanti a lui. L’effetto del lungo interrogatorio probabilmente non tarderà ad arrivare qualora il pm decida di metterlo agli atti del Riesame che valuterà la sussistenza delle esigenze cautelari per gli indagati. L’ex giudice Iannello – di concerto con il suo difensore non ha presentato istanza di scarcerazione al tribunale per la libertà di Salerno, in attesa che – anche alla luce delle sue dichiarazioni – vengano completate le indagini.
Rosaria Federico

Cronache della Campania@2018

Mazzette per interventi al Ruggi, verso il processo il neurochirurgo Brigante. Nell’inchiesta coinvolto anche Fukushima

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Salerno. Soldi per accelerare gli interventi chirurgici: verso il processo il neurochirurgo Luciano Brigante. Il pm Valleverdina Cassaniello ha dichiarato chiuse le indagini per l’inchiesta che due anni e mezzo fa portò all’arresto del primario del Ruggi d’Aragona, accusato di concussione per aver chiesto a pazienti con gravi patologie soldi per ridurre i tempi di attesa.
Cinque casi, dal gennaio al dicembre del 2014, in cui a persone affette da patologie tumorali o da com ­promissioni della colonna ver­tebrale sarebbe stata prospetta­ta la possibilità di scavalcare le liste di attesa pagando una mazzetta. Secondo la procura Brigante avrebbe intascato dai 1.500 ai 2mila euro dai familiari dei malati ‘all’interno del pro­prio ufficio ubicato presso il re­parto di neurochirurgia’.
Le indagini non hanno provato invece altri sei casi di concussione, in cui aveva operato i pazienti insieme al lumi­nare giapponese Takanori Fu­kushima e per i quali sono fini­ti sotto inchiesta anche il medico nipponico, la capo­sala Anna Rita Iannicelli e il neurochirurgo Gaetano Liber­ti, che per quattro volte dalla clinica privata di San Rossore (in provincia di Pisa) avrebbe dirottato pazienti a Salerno. In questi casi si è ritenuto che l’e­largizione di denaro fosse avve­nuta liberamente, come corri­spettivo dell’intervento chirur­gico che era stato concordato nella clinica, e che il reato sia piuttosto quello di peculato, perché l’operazione era poi sta­ta eseguita – senza autorizza­zione – nell’ospedale pubblico di Salerno. «L’intervento veni­va eseguito in regime di ricove­ro ordinario, durante l’orario di lavoro e al di fuori delle liste d’attesa» si legge nell’avviso di conclusione delle indagine, ma né Brigante sarebbe stato autorizzato a operare in regime di intramoenia né Fukushima avrebbe potuto coaudiuvarlo nell’esecuzione dell’interven­to.
Tra l’altro, secondo la Procura di Salerno, il luminare giapponese non era autorizzato ad operare in nessuna struttura pubblica nazionale. Quegli in­terventi sarebbero stati possibi­li secondo gli inquirenti grazie alla compiacenza della caposa­la Iannicelli, che gestiva le sale operatorie, e alla collaborazio­ne del medico toscano. Per questi interventi i carabinieri del comando provinciale di Salerno hanno accertato che vi siano stati bonifici tra i 5mila e i 35mila euro con bonifici sui conti del “Fukushima brain institute” di cui lo specialista era direttore nella clinica pisa­na oppure in forma di dona­zione alla fondazione america­na “International neurosurge ryeducation&research”, diret­ta dal giapponese e con sede nel North Carolina.
Destinatario dell’avviso di conclusione delle indagini è an­che il medico salernitano Rena­to Saponiero, accusato di abu­so d’ufficio e omessa denuncia perché, da capo del diparti­mento del settore neuroscien­ze, non segnalò il presunto giro di mazzette né alla commissio­ne disciplinare né all’autorità giudiziaria, nonostante alcuni medici gli avessero segnalato le anomalie.

Cronache della Campania@2018

Camorra, gli esattori del clan Orlando incastrati da scarpe e vestiti indossati. LE FOTO

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I due esattori del pizzo del clan Orlando arrestati due settimane fa, Celestino De Fenza e Antonio Agrillo sono stati incastrati non solo dalle foto fatte per caso da un carabiniere libero dal servizio subito dopo aver intascato la tangenti de un imprenditore. Ma anche dalle scarpe che indossavano. I due infatti il 18 aprile scorso sono stati fotografati, da un altro carabiniere, mentre si trovavano nell’atrio del Tribunale di Napoli Nord per assistere all’udienza del processo a carico di Maurizio de Fenza detto o’ mamozio , fratello di Celestino, imputato per l’omicidio del gioielliere di Marano, Salvatore Gala. E quelle immagini sono state utilizzate dagli investigatori per fare una sorta di comparazione e arrivare a un riconoscimento dei due soggetti che avevano compiuto l’estorsione ai danni dell’imprenditore. Non a caso durante l’arresto di Antonio Agrillo e di altre nove persone, avvenuto il 29 giugno scorso, per le minacce ai familiari del pentito Teodosio Giannuzzi, i militari sequestrarono nella sua abitazione un paio di scarpe marca THOMS NICOLL di colore nero ed un giubbotto di colore nero marca K-way, aventi caratteristiche del tutto simili ai capi indossati dalla persona ritratta di spalle nelle fotografie che il carabiniere libero dal servizio aveva fotografato nella villa di Marano la mattina del 25 marzo e che sono state oggetto di comparazione. Gli investigatori hanno anche effettuato una sorta di ricognizione facendo indossare ad un militare scarpe e giubbotto con le quali veniva poi fotografato per effettuare la comparazione tra le due fotografie. Sentito a verbale il carabiniere che aveva scattato le prime foto, quelle delle villa comunale, come riportato nelle 88 pagine dell’ordinanza cautelare firmata dal gip Francesca Ferri, ha spiegato agli inquirenti: “…ricordo perfettamente che la prima scena che vidi era quella dei tre soggetti, secondo le indicazioni che ho fornito alla S.V. guardando le foto che io stesso ho inviato al collega. Il quarto soggetto è sicuramente sopraggiunto dopo. La villa è aperta e la mia visuale era completa. Se ci fosse stato già insieme ai tre, io lo avrei visto: la villa è strutturata su due livelli, ma già quando entri al primo livello, si ha una visuale completa dei luoghi. Come ho detto, vidi esattamente che il soggetto cacciò dalla tasca una mazzetta di soldi raccolti in un pezzetto di carta bianco, giusto per trattenerli a mò di elastico e, appena vide i due soggetti che vi ho riconosciuto sopraggiungere, cacciò questi soldi e quando mi rigirai non li vidi più. In realtà, quando io passai vicino ai tre, vidi chiaramente che nel momento in cui si salutavano, l’uomo aveva ancora nella mano sinistra, quando poi mi girai dopo pochi istanti per aspettare il cane, non vidi più i soldi in mano a quell’uomo.
Scattai le foto dalla mio dispositivo Samsung Galaxy Note 8, utilizzando lo zoom, la mia utenza di servizio da cui, poi, inviai tramite whats app le foto tutte e quattro insieme non appena ho scattato la quarta, ossia quella dell’autovettura Peugeot C1, secondo la sequenza che vi ho già descritto, quando i quattro soggetti si stavano allontanando.
Ricordo distintamente che il signore che aveva i soldi in mano si allontanò poi con il quarto soggetto che era sopraggiunto, il quale portava una tracolla; i due erano a bordo di una Fiat Idea o Lancia Musa non ricordo, ma ne rilevai il numero di targa, e ricordo anche che guidava il signore che aveva in mano i soldi. Quello con la tracolla era al suo fianco. Ricordo anche che gli altri due invece, si misero in macchina – nella Peugeot C1, e tardarono qualche istante a partire, tanto che quando io li fotografai, la macchina era ancora ferma e loro erano ancora all’interno”.

 Rosaria Federico

 2. continua

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Camorra a Castel Volturno, il pentito Vassallo: ‘L’ex assessore Lorenzo Marcello intascò una mazzetta’

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Castel Volturno. Gaetano Vassallo ha parlato del suo albergo. Lo ha fatto venerdì, nei suoi lunghi esame e contro esame, durante i quali ha risposto alle domande del pubblico ministero e dei difensori, che lavorano da tempo nel processo che vede imputati gli ex sindaci di Castel Volturno, Antonio Scalzone e Francesco Nuzzo, l’ex assessore Lorenzo Marcello nonchè il comandante dei vigili urbani e altri vigili della città.
L’accusa grave è quella regolata dall’articolo 416 bis del codice penale, nel caso specifico nella sua versione del concorso esterno di associazione a delinquere di stampo camorristico.
Il teste ha dichiarato che nonostante il Vassallo Park Hotel non avesse la certificazione antincendio, rilasciabile solo dai vigili del fuoco, fu in grado di proseguire l’attività grazie all’amministrazione comunale. Per “quell’attenzione”, ha dichiarato ancora Gaetano Vassallo, l’assessore Lorenzo Marcello avrebbe intascato una mazzetta di 10 mila euro.
Per quanto riguarda la posizione del comandante dei vigili e dei suoi sottoposti, difeso il primo e anche alcuni degli altri, dall’avvocato Nando Letizia, l’accusa era di non aver fatto rispettare l’ordinanza di chiusura che pure era stata emessa dal comune. La difesa ha fatto notare che in realtà Vassallo era stato denunciato due volte per violazione dell’articolo 650 del codice penale (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) e una volta denunciato per violazione in materia edilizia perchè avrebbe costruito un patio senza osservare la metratura così come dall’autorizzazione rilasciata dal comune. L’avvocato Sgambato, invece, difensore di Lorenzo Marcello, ha fatto emerge una serie di discrasie per quanto riguarda le date: Vassallo ha affermato che sarebbe stato accompagnato in un’occasione da un tal Di Tella, ma quel giorno quest’ultimo era detenuto.

Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Camorra, il pentito Giannuzzi parla delle piazze del clan Orlando. I VERBALI DI ACCUSA

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“Agrillo Antonio che gestisce la piazza di spaccio di Quarto insieme a Verde Mauro ed un altro ragazzo Pasquale soprannominato Dragon Ball, benchè Agrillo sia agli arresti domiciliari ed è legato con Pataniello Liccardo Salvatore oggi i tre gestiscono ovviamente per conto degli Orlando”. Era il 21 settembre del 2017 quando il pentito del clan Orlando, Teodoro Giannuzzi, in uno dei suoi primi verbali delinea la figura di Agrillo e degli altri emergenti del clan Orlando. Le dichiarazioni sono contenute nell’ordinanza cautelare firmata dal gip Francesca Ferri che ha colpito lo stesso Agrillo e celestino De Fenza per l’estorsione agli imprenditori che stavano ristrutturando il parco Amelia a Marano. “…Agrillo e i suoi  pagano agli Orlando la quota per poter gestire tale piazza. Mi risulta che Agrillo Antonio sia uno stipendiato dagli Orlando”, ha raccontato ancora Giannuzzi. “…riconosco OMISSIS Da quando è stato scarcerato Antonio Agrillo si è affiancato a costui con il quale gestisce la piazza di marijuana e hashish a Quarto. …omissis… Nell’inverno 2016, una sera fui chiamato da Agrillo Antonio, che era agli arresti domiciliari, presenti i suoi familiari ed il cognato tale o’ ciacio, grosso trafficante. Agrillo mi disse che era passato Veccia Raffaele ed il fratello di Armandino, Lubrano Raffaele, che li avevano avvisati, OMISSIS che quella sera avrebbero fatto un blitz a Quarto e quindi di avvisare, non solo quelli del sistema, ma anche quelli fuori sistema per evitare eventuali arresti. …ho incontrato LUBRANO Raffaele a casa di AGRILLO Antonio, “Polveriniano” , al quale volevo vendere una partita di droga che mi aveva venduto …OMISSIS …. Il LUBRANO precisò ad AGRILLO, che poi me lo riferì, che AGRILLO non poteva comprare la droga direttamente da OMISSIS e da me, ma dovevamo comunque “passare da loro”. Vi spiego bene come andò la vicenda. Si trattava di novanta chili di fumo che OMISSIS mi avrebbe dato e che io avrei ceduto ad AGRILLO “fuori sistema”, cioè di nascosto. AGRILLO però fece l’errore di dirlo a OMISSIS, che ne diffuse notizia, tanto da arrivare a LUBRANO Raffaele, il quale venne a Quarto e rimproverò ad AGRILLO dicendogli che loro lo stipendiavano e che lui non poteva agire al di fuori del “sistema”. Infatti, OMISSIS fu costretto a vendere questa partita di droga di novanta chili a Lorenzo NUVOLETTA….” …omissis… Ciro aveva il compito di recuperare i soldi e di rifornire le piazze di spaccio sempre su Quarto. Il predetto Ciro non l’ho visto per diversi mesi in quanto si ruppe una gamba. Era invece ritornato a Quarto negli ultimi periodi, cioè alla fine del 2016 ed il 2017, insieme ad Agrillo Antonio, Polveriniano, che benchè agli arresti domiciliari, gestisce ancora la piazza di spaccio chiaramente entrambi per conto degli Orlando. Facemmo anche un’altra riunione della quale forse non vi ho detto ma non mi ricordo, a casa di Nicola lo spagnolo poco prima che lo stesso fosse riarrestato. Il predetto abita in una casa a Marano munita di telecamere, non so se era la sua. Alla riunione eravamo presenti io lui, Giarra Diego, Candela Cristoforo, Luigi il chiattone, Giovanni Raniello che pure era fuori, il cognato di Lelluccio riecch e puorc cioè Di Maro Raffele che però non ho visto nelle foto. Nella riunione parlammo di una discussione avvenuta tra i fratelli Ferro e la famiglia di Agrillo Antonio, quest’ultimo detenuto già affiliato ai Polverino, perché Gigino il Chiattone aveva picchiato un famigliare degli Agrillo, il marito della sorella di Antonio, e i Polverino volevano tutelare la famiglia del loro affiliato. …”.

Rosaria Federico

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