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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Boscoreale, assolto il ‘signore della droga’ del Piano Napoli di via Passanti

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Boscoreale. “Assolto per non aver commesso il fatto”. Secondo il giudice, dottoressa Campanile, Mario Padovani, il 40enne fratello di Carlo, l’ex “signore della droga” ora in carcere a scontare condanne complessive a 16 anni per lo spaccio gestito all’interno del Piano Napoli di via Passanti Scafati, “non violò gli obblighi della sorveglianza speciale”.
Sorveglianza speciale elusa nella serata di sabato quando era stato arrestato in flagranza di reato mentre girava liberamente per le palazzine del Piano Napoli, tristemente denominata la Scampia del Vesuviano, sebbene dovesse far rientro alle ore 20:00. In attesa del rito direttissimo era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari.
Secondo l’accusa neppure le prescrizioni imposte dalla sorveglianza speciale avevano fermato Mario Padovani,considerato dagli inquirenti il nuovo capopiazza, dal frequentare pregiudicati, ponendo in essere diverse riunioni operative per affari illeciti. Scarcerato nel novembre 2015, il 40enne in tribunale ha scelto la difesa con rito abbreviato. Il pm della Procura di Torre Annunziata aveva chiesto per Mario Padovani – recidivo – la condanna ad un anno e mezzo di reclusione. Il pluripregiudicato, sorvegliato speciale, difeso dall’avvocato Gennaro De Gennaro è tornato subito in libertà. Ennesima assoluzione, la decima della seria. Nei mesi scorsi era stato assolto sebbene gli veniva contestato di essersi messo alla guida di un auto senza patente. Ed anche in quella occasione era stato assolto. Il suo difensore ha contestato la legittimità della misura di prevenzione che il Padovani sta subendo ingiustamente. Tesi accolta dal giudice e per il “capo piazza”, ancora una volta, il reato non sussiste.

Cronache della Campania@2018


Uccise un narcotrafficante albanese: ergastolo per il killer dei Casalesi, Salvatore Letizia

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E’ stato condannato oggi all’ergastolo da una Corte di Tirana Salvatore Letizia, 38 anni, originario di Santa Maria Capua Vetere, ritenuto legato alla camorra al clan dei casalesi,e considerato iun “killer professionista”. Letizia e’ stato riconosciuto colpevole di aver preso parte il 28 maggio del 2015 ad un agguato teso da un gruppo criminale albanese ad un suo rivale nel traffico di droga, Mentor Lufi. L’attentato, in una delle zone centrali della capitale albanese, si trasformo’ in una sparatoria, conclusasi con tre morti, tra cui, oltre a Lufi, anche l’albanese Besnik Sulku, l’uomo che aveva ingaggiato il killer italiano affiliato all’organizzazione camorristica dei Piccolo di Marcianise.

Cronache della Campania@2018

Camorra, il tesoro confiscato ai Candurro frutto del riciclaggio delle marche da bollo. IL VIDEO

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“La fortuna economica di Vincenzo Candurro e’ legata ad un grande affare economico degli anni 90, ovvero quello della acquisizione e del riciclaggio delle marche da bollo annullate che erano oggetto di furti o rapine”. E’ il 26 marzo 2007 quando Michelangelo Mazza, ex boss del clan Misso del rione Sanita’ di Napoli, racconta quel che sa ai pm della Dda che si occupano di scoprire il tesoro nascosto della cosca. Un racconto che insieme ad altri spunti investigativi ha portato alla confisca di beni per oltre 9 milioni di euro. “Alla fine degli anni ’90, quindi, Candurro e’ diventato una delle persone piu’ ricche della citta’, pur continuando a svolgere sempre formalmente la attivita’ di parrucchiere. Quando questa attivita’ volgeva al termine verso la fine degli anni ’90 in quanto gli uffici della Motorizzazione Civile cominciarono a dotarsi di piu’ sofisticati sistemi per prevenire i furti, Candurro e Molignano passarono alla attivita’ di contraffazione vera e propria delle marche da bollo anche se io non sono in condizioni di indicare i luoghi ove avveniva questa attivita’ illegale”, aggiunge il pentito. Nel 2000, dal racconto dei collaboratori di giustizia, Vincenzo Candurro acquisto’ da un altro affiliato “il suo attuale appartamento sito in via Foria, pagandolo la somma di un miliardo e quattrocento milioni di lire. Si tratta di un appartamento sfarzoso in tutto simile a quello che si puo’ vedere nel film Scarface con Al Pacino”. Contro i fratelli Candurro, a carico dei quali e’ stata eseguita la confisca, in particolare contro Vincenzo, ci sono decine e decine di verbali. Anche quelli di Giuseppe Misso ‘o chiatto’, parente del capoclan, che il 16 luglio 2007 spiegava: “Vincenzo Candurro alias Enzo il barbiere e’ persona di Peppe Misso (il boss, ndr.) ed e’ ben conosciuto, in tutte le attivita’ illecite che svolge per mio zio, da Michelangelo Mazza; egli si occupa del cosiddetto parallelo, di attivita’ commerciali illecite quali l’importazione di piccoli motorini dalla Cina ed altro. Egli ha una villa ad Avellino intestata al fratello Peppe, del valore di un milione di euro, che ha comprato con i proventi illeciti delle dette attività”.

Cronache della Campania@2018

‘Guardie’ pagate a ‘settimana’ per aiutare la banda delle truffe assicurative. I NOMI DEGLI ARRESTATI

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Torre Annunziata. ‘Guardie’ a libro paga, giudici corrotti, periti infedeli, finti testimoni e carrozzieri per mettere a segno decine di truffe ai danni di compagnie assicurative. Tredici gli arresti effettuati stamane dalla guardia di Finanza di Torre Annunziata ma in tutto sono 112 gli indagati, iscritti dalla Procura di Torre Annunziata, nell’ambito dell’inchiesta che aveva già portato all’arresto di giudici di pace e consulenti tecnici alla fine di settembre. Un’indagine che rischia di allargarsi ancora. La base operativa del gruppo criminale che attuava sistematiche truffe ai danni di compagnie assicurative era lo studio dello ‘Zio’, Salvatore Verde, il perito assicurativo di Boscoreale arrestato già a fine settembre nell’ambito dell’inchiesta per corruzione ai giudici di pace. Ad incastrare la banda, 13 persone tra cui due finanzieri e un avvocato, finite agli arresti domiciliari – uno ha l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria – per ordine del Gip Antonello Anzalone, sono state ancora una volta le intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Torre Annunziata proprio nello studio di Salvatore Verde, lo Zio. “Quel che impressiona – scrive il Gip – è il carattere routinario dell’attività truffaldina. Si discorre in continuazione di perizie da addomesticare, di auto da danneggiare per creare l’apparenza di sinistri mai avvenuti, di testimoni da reperire per affrontare eventuali giudiziari, di soggetti che tardano a pagare quanto dovuto per imbrogli già andati in porto”. E proprio nell’ambito delle intercettazioni sono emersi i riferimenti che hanno ‘inguaiato’ i due finanzieri e l’avvocato Ivo Varcaccio Garofalo (già in carcere per la corruzione al giudice Antonio Iannello) finiti agli domiciliari, con un’ordinanza separata, per i reati di favoreggiamento e violazione del segreto istruttorio. ‘Guardie’ alle quali viene pagata ‘la settimana’ per “spifferare ciò che sanno sulle indagini in corso – scrive il giudice – e finanche un avvocato che si improvvisa bonificatore da microspie nel tentativo di scoprire la cimice piazzata dalla Pg nello studio di Verde”. E’ il quadro a tinte fosche scoperto dagli uomini della guardia di Finanza di Torre Annunziata che stamane hanno dovuto anche arrestare due colleghi in servizio. Un’associazione per delinquere per mettere a segno decine di truffe, scoperte – alcune – dalle stesse compagnie assicurative che hanno denunciato, altre emerse nel corso delle intercettazioni ambientali e telefoniche disposte dal pm Nuzzo della procura di Torre Annunziata. Il procedimento dal quale è nata l’inchiesta sui giudici di pace corrotti, seguita dalla Procura di Roma, riguarda decine di sinistri stradali e danneggiamenti mai avvenuti tra il comprensorio vesuviano e Scafati e liquidati dalle compagnie assicuratrici grazie alla compiacenza di periti, carrozzieri e consulenti tecnici, in alcuni casi anche dei Giudici di pace corrotti come Antonio Iannello.
A far da corollario, finti testimoni e avvocati infedeli. Verde istruisce le pratiche e addestra un gruppo di fedelissimi a gestire le pratiche fasulle e a tenere i rapporti con i periti delle compagnie assicurative. Vi sono poi i reclutato di persone disposte a figurare in falsi sinistri e carrozzieri che provvedono a montare e a smontare i veicoli fintamente danneggiati. Uno degli arrestati, Gennaro Avvisato detto Rino, ha il compito di mantenere i rapporti con le forze dell’ordine per scoprire informazioni sulle indagini in corso. Dalle intercettazioni emerge chiaramente la metodologia messa in atto con le ‘lettere’, ma anche che i proventi per i sodali del gruppo si sono notevolmente abbassati nel corso degli anni. E’ proprio Avvisato a lamentarsi che oggi non ci si arricchisce più ma ‘si campa’. Il braccio destro di Tore Verde, lo zio, Rino Avvisato è ben agganciato e ricorre spesso, nelle intercettazioni captate dagli inquirenti la circostanza che vi sono degli investigatori infedeli. In un’intercettazione del giugno 2017 è proprio Avvisato a spiegare a Massimo Izzo, uno del gruppo, che c’erano indagini in corso: “io ho le guardie a cui do la settimana, hanno detto che stanno prendendo a tutti quelli… adesso dobbiamo fare uno sterminio sugli imbrogli. Ha detto ce sono parecchi di loro da vent’anni che dobbiamo ancora arrestare. Hanno detto che gli devono dare l’associazione e l’associazione porta 7 anni, poi la truffa e le altre cose si arriva a venti trenta anni”. Avvisato spiega, in quell’occasione, che sono state effettuate riprese fotografiche e delle intercettazioni telefoniche spiegando che i soggetti più a rischio erano Izzo e Raffaele Celentano. Il gruppo si fa più prudente, ma ormai, le indagini avevano fatto gran parte il loro corso. Stamane sono state arrestate 13 persone, finite ai domiciliari, per un 14esimo indagato il giudice ha disposto l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Rosaria Federico
GlI INDAGATI
Agli arresti domiciliari
Ivo Varcaccio Garofalo avvocato di Boscotrecase (già in carcere per corruzione)
Salvatore Verde, 46 anni, di Torre Annunziata
Massimo Izzo, 48 anni, di Boscotrecase
Nunzio Sosto Archivio 68 anni di San Giuseppe Vesuviano
Diego Pagano, 32 anni di Boscoreale
Claudio Pagano, 21 anni di Boscoreale
Luigi Boccia, 45 anni di San Giuseppe Vesuviano
Raffaele Celentano, 53 anni di Boscoreale
Pasquale Cuomo, 38 anni di Boscoreale
Catello Aprea 45 anni di Scafati
Gennaro Avvisato, 34 anni di Terzigno
Obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per Raffaele Falanga, 48 anni di Boscotrecase

Cronache della Campania@2018

Napoli, un albero uccise Cristina Alongi, per i giudici ‘tecnico comunale e pompieri sono responsabili’

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Napoli”Quella mattina tutte le squadre o mezzi disponibili della centrale dei vigili del fuoco di Napoli erano impegnate. Ma cosi’ come emerge dai tabulati telefonici, di sicuro sarebbe stato possibile allertare qualcuna di essa per portarsi in via Aniello Falcone a Napoli e verificare lo stato del pino marittimo, vista la non particolare rilevanza o urgenza di molti degli interventi che stavano effettuando: aperture porte, recupero beni, verifica scale, infiltrazioni in una cantina, rimozione di un nido di vespe e recupero masserizie”. Quel pino marittimo, che era gia’ malandato dal 23 maggio 2013, il 10 giugno crollo’ sull’auto che stava guidando Cristina Alongi, 43 anni, morta schiacciata “dopo sette minuti di agonia”. Sono le motivazioni della sentenza d’Appello scritta dai giudici della prima sezione penale di Napoli che il 5 luglio scorso hanno condannato per omicidio colposo Cinzia Piccioni, agronoma del Comune e responsabile delle alberature, e Tiziano Fucci, il vigile del fuoco che ricevette la telefonata dal titolare di un bar proprio di fronte ai giardinetti dove crollo’ l’albero. Fucci in primo grado era stato assolto mentre in Appello, presidente Rosa Romano, ha avuto una condanna a un anno e quattro mesi. “La condotta e’ censurabile sotto piu’ profili, perche’ l’intervento sul posto per valutare e fronteggiare la situazione di pericolo competeva in primo luogo ai vigili del fuoco e poi ai vigili urbani che avrebbero potuto transennare la zona”, scrive il magistrato giustificando cosi’ l’assoluzione di Marino Reccia, assistente della polizia municipale del Comune. “Sulla Piccioni gravava certamente l’obbligo giuridico, una volta effettuata l’ispezione dell’albero e preso atto della situazione di instabilita’ della chioma e dei rischi connessi, di attivarsi per fronteggiare tale rischio con interventi finalizzati alla messa in sicurezza, soprattutto alla luce delle imponenti dimensioni della pianta e della sua ubicazione, in un giardino pubblico – si legge ancora nel provvedimento – il suo mancato attivarsi e’ dovuto ad imperizia e imprudenza, sia nella valutazione delle condizioni della pianta che alla circostanza del non dare il giusto peso agli allarmi e a una potatura che aveva reso l’albero squilibrato da un lato”.

Cronache della Campania@2018

Bimbo morto per una crisi d’asma, chiesto il processo per il pediatra

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La Procura ha rinviato a giudizio A.M. pediatra che ebbe in cura Liberato Calandra il piccolo di Campagna, in Provincia di Salerno, morto a 4 anni per una crisi di asma. L’accusa mossa dalla procura è di omicidio colposo che pende a carico della dottoressa. Secondo gli inquirenti il medico avrebbe somministrato al bambino, affetto da asma bronchiale, una terapia non idonea alle sue condizioni di salute. Per quanto riguarda i genitori, in un primo momento sul registro degli indagati, è stata archiviata la loro posizione e a parere della Procura i due non avrebbero alcuna responsabilità per la morte di Liberato. Il bambino giunse all’ospedale di Eboli il 25 marzo 2017 in condizioni gravissime: aveva perso conoscenza e non dava più segni di vita. Attraverso ad alcune consulenze tecniche la Procura ritiene ascrivibile la morte del bambino all’erronea terapia somministrata dal pediatra. Dopo il rinvio a giudizio il medico presto potrebbe finire davanti al gup per l’udienza preliminare.

Cronache della Campania@2018

Omicidio dell’ingegnere Materazzo: tracce di Dna di vittima e imputato sul coltello

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La Polizia Scientifica ha isolato il profilo genetico sia della vittima che dell’imputato, in taluni casi sovrapposti, sui reperti acquisti dell’omicidio di Vittorio Materazzo, tra cui figura anche un coltello da sub ritenuto una delle due armi usate per il delitto. La circostanza e’ emersa oggi, nell’aula 115 del Tribunale di Napoli, dove si sta svolgendo il processo sull’omicidio dell’ingegnere ucciso davanti la sua abitazione a Napoli il 28 novembre del 2016. Un procedimento giudiziario che vede come imputato Luca Materazzo, fratello della vittima. Tracce di Dna, sia di Vittorio che di Luca sono stati trovati – come ha riferito la dottoressa Elena Improta della Polizia Scientifica – anche su molti altri reperti, come il casco di cui l’imputato aveva denunciato il furto e, come il coltello, trovati in alcune buste in un vicolo vicino al luogo del delitto. Nel corso del processo ha deposto anche Valentina Guglielmi, amica di Luca che ha spiegato: “Accompagnai Luca da un avvocato il quale gli disse ‘se fosse mio cliente le consiglierei di andarsene”. La ragazza, dopo l’omicidio di Vittorio, torno’ a Napoli da Milano, dove si trovava, per incontrare Luca a cui era legato da una vecchia amicizia. I primi di dicembre, tra il 3 e il 10, Luca Materazzo ha anche vissuto a casa dei genitori di Valentina, dalla quale e’ poi andato via, senza neanche salutarla, la mattina di domenica 10 dicembre. Da quel momento si sono perse le tracce di Luca che verra’ individuato e arrestato, i primi giorni di gennaio 2018, a Siviglia, in Spagna, dove aveva trovato lavoro in un bar. Valentina Guglielmi ha anche raccontato di avere ricevuto una insolita richiesta da Luca, durante il soggiorno a casa dei suoi genitori. “Mi chiese se potevo dargli il mio passaporto. Gli ho risposto ‘ma cosa te ne fai, io i capelli lunghi, sono piccolina’ … ‘Mi metto la parrucca’, mi ha risposto”. Valentina ha anche spiegato di non avere dato molto peso a questa insolita richiesta in quanto credeva che “Luca scherzasse”.

E subito dopo Luca Materazzo ha chiesto  di fare dichiarazioni spontanee: “Non sono il mostro di Firenze… quell’avvocato non mi ha invitato alla fuga, mi disse che l’esito processuale non dipendeva dalla mia presenza… e io non mi sentivo al sicuro… neppure nella casa dove abitavo, dove tutti potevano entrare”. Inoltre “non volevo mettere in pericolo i miei amici, per questo sono andato via”. Febbricitante (“Presidente ho 39 di febbre”) si è difeso e ancora una volta, cosi’ come ha fatto anche nell’ultime tre udienze, Luca ha puntato il dito contro i media: “la stampa mi da addosso, lo ha iniziato a fare anche prima dell’avviso di garanzia”. Luca ha anche sostenuto, rivolgendosi alla giuria, la sua estraneita’ ai fatti e cercato di dare spiegazioni sul suo profilo genetico trovato, in particolare su un coltello e su un casco, che sarebbero stati usati dall’assassino. Luca Materazzo ha anche fatto sapere alla giuria di non sentirsi sicuro neppure in carcere: “temo di essere contagiato, il 70 per cento dei detenuti del padiglione dove mi trovo ha malattie contagiose”. La prossima udienza e’ stata fissata per il 35 ottobre. Verranno ascoltati gli ultimi due testimoni, tra cui la vedova dell’ingegnere, Elena Grande.

Cronache della Campania@2018

Camorra, il pentito: ‘Luigi De Micco uscì dal carcere e chiese la pace a Eduardo Casella’. IL RACCONTO

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C’è stato un momento nel 2015 in cui si è sfiorata una nuova faida di camorra a Ponticelli: quella tra il clan della famiglia Casella e quella dei potenti De Micco, i famosi “Tatuati”. Ma l’uscita dal carcere dei due boss e un gesto distentivo di Luigi De Micco reggente dei 2Bodo” riportò la pace. Lo ha raccontato il pentito Rocco Capasso e l’inedito episodio è raccontato nelle 184 pagine dell’ordinanza cautelare firmata dal gip Eglòe Pilla che l’ìaltra giorno ha portato in carcre 13 tra boss e gregari della cosca di via Proto Giurleo a Ponticelli. Capasso ha riferito che i Casella hanno pagato ai De Micco sulle proprie piazze di spaccio fino all’arresto di Roberto Scala, avvenuto a marzo 2015.
Al rifiuto di corrispondere la quota è seguita una reazione da parte di Flavio Salzano (ucciso poi da latitante dagli stessi De Micco nel 2016)reggente del clan De Micco dopo l’arresto di Scala e nel periodo di detenzione di Luigi De Micco. La reazione si tradusse in un attentato nel corso del quale Giuseppe Casella rimase ferito. Ancora una volta, però, i Casella hanno avuto la forza di resistere e non si sono piegati, neanche in seguito all’agguato, neanche di fronte ad uno dei clan più agguerriti operanti sul territorio.
Tanto che non solo hanno continuato a non pagare, ma hanno anche ricevuto un’attestazione di stima pubblica da Luigi De Micco che, una volta uscito dal carcere, si è mostrato in giro con Eduardo Casella per sancire la fine delle ostilità.

Ecco il racconto del pentito Rocco Capasso: “…omissis…all’epoca le piazze di spaccio erano gestite sempre dai De Micco, perchè quando è successo l’arresto di Roberto Scala c’è stato un po’ di disguido no, le per le piazze chi voleva pagare chi non voleva pagare, perché pensavano che non c’era più nessuno dei De Micco, che essendo Davide Davide Principe agli arresti domiciliari pensavano che si era dissolto il il clan De Micco, invece no stava risorgendo ancora più forte, e infatti parecchi di loro sono rimasti un po ‘perplessi su questa cosa qua che pagavano…”. Solo il Conocal non pagava e il pentito spiega anche il perché :”…c’era Nunzia D’Amico con l’attuale oggi pentito Stefanelli che ci creava ancora dei problemi…e poi in quel periodo là che subentrò Flavio ci fu una discussione con il gruppo Casella di via Ulisse …… Giuseppe che non  volevano pagare. i Casella gestivano le piazze di spaccio di cocaina, di erba, queste cose qua, e da una quota settimanale…tutta Ponticelli pagava e invece quelli che non volevano pagare erano i fratelli Casella e tutt’ora non pagano… I Casella si sono rifiutati nel momento in cui hanno arrestalo Roberto Scala. Prima dell’arresto di Roberto Scala i Casella si rifornivano da noi. Dopo l’arresto non solo non si volevano rifornire più da noi ma non ci volevano dare neanche una paRTE dei soldi per rifornimenti precedenti. Tutte le palazzine bianche dove abitano i Casella sono gestite a livello di droga da loro.Prima dell’agguato a Casella (avvenuto in data 23.5.15 ) hanno fatto delle “stese” contro di noi. Dopo l’agguato a Peppe casella è uscito dal carcere Luigi de Micco. I Casella aspettavano che uscisse Eduardo Casella e nel frattempo loro si erano chiusi dentro. Appena uscito Eduardo Casella, dopo un mese e mezzo, Luigi De Micco andò da solo in moto sotto al balcone dei Casella e chiamò Eduardo Casella e gli disse che era il momento di buttare acqua sul fuoco e se lo prese con lui. Cominciarono a girare insieme per Ponticelli per dimostrare che la guerra tra De Micco e Casella era finita… A dirmelo fu Flavio. Sono andato io a prendere Eduardo Casella e Peppe o Blob per portarli da Luigi De Micco quando quest’ultimo gli doveva chiedere qualche favore che loro potevano fargli. Tipo estorsione ad un cantiere o qualche altra attività…”.

Rosaria Federico

1.continua

òriproduzione riservata

Cronache della Campania@2018


‘Mi puntò la pistola in faccia’ le accuse contro Raffaella Verde, la nipote del ‘negus’ accusata di rapina

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“Ricordo solo una pistola puntata in faccia, ho detto alla mia collega di aiutarmi, poi il nulla. Sono passati due anni ma non riesco a togliermi quell’immagine dalla mente”. E’ la testimonianza resa stamattina da una delle commesse della gioielleria “Castoro” di piazza Risorgimento, a Torino, rapinata il 19 aprile 2016 da una donna ripresa dalle videocamere di sorveglianza. Per quell’episodio, dopo mesi di indagini, la polizia ha arrestato Raffaella Verde, 43 anni, appartenente al clan camorristico dei Verde. Stamattina a Torino si e’ aperto il processo nei confronti della donna, che avrebbe agito a volto scoperto e armata di pistola, portando via con l’aiuto di un complice preziosi per 15 mila euro. Raffaella Verde e’ la figlia del boss Domenico Verde e nipote del piu’ noto Francesco Verde, conosciuto come “Il Negus”, capo dell’omonimo clan, ucciso insieme al marito della donna durante la sanguinosa guerra di camorra per il controllo del territorio, che sin dagli anni Ottanta ha visto contrapposti i clan camorristici dei Verde e dei Ranucci-Puca. La donna, con diversi precedenti alle spalle, era sottoposta all’obbligo di presentazione, a giorni alterni, alla stazione dei carabinieri di Cesa, in provincia di Caserta. Un sistema che – come sostiene l’accusa – le avrebbe consentito di partire per Torino e commettere il reato con l’aiuto del complice.

Cronache della Campania@2018

‘O’ masto, un uomo d’onore come questo…’,il boss Antonio Orlando mazzulill da latitante ha partecipato ai summit. LE INTERCETTAZIONI

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Da latitante di lungo corso ha partecipato ai summit di camorra. Di certo a quelli importanti del mese di agosto del 2015 in cui quelli del suo clan ovvero gli Orlando di Marano decisero di prendersi il controllo di tutti gli affari illeciti di Marano, Quarto e Calvizzano sottomettendo i Polverino e i Nuvoletta padroni assoluti per anni di quel territorio a ridosso della collina dei Camaldoli a Napoli. Antonio Orlando detto Mazzullil, 60 anni compiuti e latitante da 15, non a caso inserito nell’elenco dei 100 ricercati più pericolosi d’Italia, da sempre ha fatto sentire la sua presenza e la sua ombra sia sulla famiglia dei Carrisi sia sulla stessa Marano. Di lui si parla molto nelle 1000 pagine circa dell’ordinanza cautelare firmata dal gip Francesca Ferri nell’aprile del 2017 e che portò in carcere una trentina di affiliati alle tre cosche criminali di Marano che avevano fatto un unico cartello. Tra le 36 ordinanze c’era anche quella per  Mazzullil che continua a sfuggire alla cattura. L’altro giorno nel processo di Appello la difesa del fratello maggiore Raffaele detto “Papele”, rappresentata dagli avvocati Dario Vannetiello e Sabato Graziano ha ottenuto un importante risultato visto che il reggente del clan condannato in primo grado a 12 anni di carcere non potrà essere giudicato per camorra in questo procedimento: il che comporterà inevitabilmente una riduzione della pena. A meno che non interverranno fatti nuovi come le dichiarazioni dei nuovi pentiti Giacomo Di Pierno e Gianluca Noto che vanno ad aggiungersi a quelle di  Roberto Perrone, Patrizio Bonaccorso, e Teodoro Giannuzzi. Antonio Orlando sarà giudicato in contumacia e la sentenza nei suoi confronti è prevista per il 12 dicembre. Per tutti gli altri invece potrebbe slittare agli inizi del 2019.

Dalla lettura delle circa 1000 pagine dell’ordinanza del gip Ferri che rappresentano il fulcro del processo e dell’inchiesta della Dda si capisce di come  i carabinieri siano andati vicinissimi alla cattura del super latitante che partecipò al summit del 7 agosto del 2015. Gli investigatori avevano piazzato una cimice nella LanciaY in uso a Gennaro Sarappo, uomo di vertice della cosca. Sono le 14,20 e Raffaele Lubrano, Armando Lubrano e Sarappo Gennaro, si recano presso il comune di Quarto in via Paisiello all‟altezza del civico  6 dove si terrà il summit con i Polverino. Tra i tre si registra la preoccupazione di essere seguiti anche perché, era prevista la presenza del latitante Antonio Orlando. Nella successiva conversazione progressivo n. 176 si conferma la presenza del boss latitante Antonio Orlando. E al rientro dal summit i tre commentano: “…omissis…Gennaro: ti ho detto che lui già sapeva quello che gli dicevano, hai capito? Armandino: che schifo, non so più nulla.. Gennaro: Lui non si è meravigliato, perché lui già sapeva, l’unica cosa che si è meravigliato, è che non doveva arrivare ò mast! (ndr:il capo).
La presenza di quelli che gli affiliati chiamano ‘o masto è imposta dal fatto che il clan Orlando sta sostituendo il clan Polverino in ogni settore e vi è disponibilità degli Orlando ad attrarre nelle loro fila i giovani di valore dei Polverino (approfittando del loro malcontento): “Lo facciamo per senza niente per la testa di questo. Va be, bene o male, tu ti fai la macchinetta ….inc….a te ho detto però come a te ci sono altri ragazzi validi…..incomp….che non percepiscono niente che stanno intorno ai Polverino, per amore ho detto io”. La delicatezza delle questioni da affrontare impone la presenza di Antonio Orlando: “Ho detto poi un latitante di questo deve venire a 10 mila appuntamenti..e tavole e tavolelle ho detto io. Un uomo d’onore come questo, 50 anni…ho detto io ..tavole e tavolelle perché? ..Perché uno scemo come quello non capisce la cosa come sta?…che ha fatto solo guai!”; ed invero, era stato presente proprio in quell’occasione (Sarappo:“Ho detto poi un latitante di questo”….” Un uomo d’onore come questo”). Emerge anche il motivo per il quale il clan “Orlando ha deciso, sia pure in ritardo, di sostituirsi ai Polverino nel controllo del territorio: Gennaro: “E’ stato l’unico a capire che le cose non venivano gestite bene. L’unico e si vuole togliere le pietre da dentro le scarpe e non lo fa per questo. Lo fa perché si vuole togliere di mezzo, vuole essere un‟ altra volta lui…hai capito? Fa capire perché la scusa qualche..incomp..con qualcuno domani mattina…tiene la voce in capitolo…”.

 Rosaria Federico

 1. continua

@riproduzione riservata

 

(nella foto da sinistra verso l’alto una foto datata di Antonio Orlando mazzulill, Raffaele Orlando papele, Angelo Orlando o’ malommo, Gaetano Orlando, Angelo Orlando top gun e Raffaele Orlando 1980)

Cronache della Campania@2018

Corruzione al tribunale di Torre Annunziata: chiesta la libertà di giudici e consulenti tecnici

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Roma. Giudici corrotti e processi aggiustati: bisognerà attendere lunedì per conoscere l’esito della decisione del Riesame del Tribunale di Roma che si è discusso stamane per alcuni dei 27 destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari per corruzione. La posizione di Antonio Iannello – l’avvocato di Scafati, giudice di pace di Torre Annunziata, che convocava nel suo studio consulenti tecnici e avvocati per farsi consegnare mazzette e aggiustare processi in corso – verrà discussa nei prossimi giorni.
Stamane, I legali dei coindagati – Ctu, avvocati, carabinieri (questi ultimi accusati di favoreggiamento e violazione del segreto istruttorio) – hanno sollevato numerose eccezioni, in particolare hanno sostenuto incompetenza territoriale del Tribunale di Roma che ha emesso l’ordinanza per la presenza del giudice di Pace come principale indagato. Il reato principale ‘la corruzione’ è stato commesso nello studio del giudice di Pace Iannello nel territorio di Scafati, quindi la competenza potrebbe radicarsi al tribunale di Napoli competente a decidere sui togati del distretto di Salerno, si discute – inoltre – anche se Iannello abbia agito nelle sue funzioni di giudice, oppure da privato-avvocato.
Il collegio difensivo ha anche sollevato eccezioni sulle esigenze cautelari e sulla proporzionalità della misura cautelare, tutti in carcere, tranne i cinque finiti agli arresti domiciliari: i due carabinieri Antonio Cascone e Gennaro Amarante e Carmela Coppola, Paolo Formicola, Rosaria Giorgio.
Tra le eccezioni sollevate dai difensori anche quella della derubricazione del reato da corruzione a concussione indotta. Secondo la tesi, avvocati e consulenti tecnici sarebbero stati costretti a pagare mazzette a Iannello.
Oltre due ore di discussione da parte degli avvocati dl collegio difensivo che ora dovranno attendere lunedì prossimo per conoscere la decisione dei giudici del Tribunale del Riesame che dovranno decidere se lasciare inalterate le misure cautelari applicate dal Gip del Tribunale di Roma Costantino De Robbio o alleviare la posizione degli indagati.
Nel blitz della guardia di finanza di fine settembre scorso sono finiti in carcere: Antonio Iannello, Francesco Afeltra, Nicola Basile, Luigi Coppola, Eduardo Cuomo, Fabio Donnarumma, Vincenzo Elefante, Liberato Esposito, Ciro Guida, Aniello Guarnaccia, Dario Luzzetti, Rodolfo Ostrifate, Raffaele Ranieri, Enrico Tramontano Guerritore, Guido e Ivo Varcaccio Garofalo, Salvatore Verde e Marco Vollono.

Rosaria Federico

Cronache della Campania@2018

Uccise e sciolse il fratello nell’acido: chiesta la perizia psichiatrica

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La Corte d’Assise d’Appello di Napoli ha stabilito che l’agricoltore di Piano di Sorrento, Salvatore Amuro potrà essere sottoposto alla perizia psichiatrica che dovrà stabilire se l’uomo nel momento in cui nel dicembre del 2015 uccise e poi sciolse nell’acido il fratello Franco era capace di intendere e di volere. la decisione dei giudici è arrivata in apertura del procsso di secondo grado su richiesta dei difensore dell’imputato che in primo grado nel processo che si è svolto a Torre Annunziata è stato condannato a 18 anni di carcere. L’avvocato Susanna Denaro, ha infatti chiesto l’assoluzione di Salvatore Amuro o almeno la riduzione della pena. Si sarebbe trattato di omicidio preterintenzionale e non volontario, visto che Amuro avrebbe voluto soltanto dare una lezione al fratello e non ucciderlo. Già in primo grado era stato invece assolto dal reato di occultamento di cadavere perché il fatto non sussiste. Il giudice Maria Concetta Criscuolo gli aveva anche riconosciuto le attenuanti generiche dopo aver applicato la riduzione di un terzo della pena che la legge prevede per chi sceglie il rito abbreviato.

L’orrendo delitto si consumò sulle colline di Piano di Sorrento nel dicembre del 2015. La famiglia dei due fratelli vive in tre abitazioni adiacenti che si trovano sulle colline di Piano di Sorrento, in una zona ricca di piantagioni: la vittima viveva con i genitori, una coppia di anziani; in due abitazioni vicine, invece, vivono, rispettivamente, Salvatore e la figlia, e nell’altra casa, la sorella di Salvatore e Francesco, con la sua famiglia. Il 7 dicembre del 2015 ci fu una violenta lite tra i due. Salvatore accusava il fratello Francesco di essere un fannullone e in preda a un raptus di follia colpì violentemente con la vanga , con la quale stava lavorando il terreno, il congiunto uccidendolo. Poi nè caricò il cadavere in una carriola e lo sotterrò in un fosso. Per completare l’opera acquistò una decina di litri di soda caustica con la quale sciolse il cadavere del fratello. Fu la sorella il giorno seguente a denunciare la scomparsa del fratello ai carabinieri. I militari iniziarono le indagini ascoltando tutti i parenti tra cui Salvatore il quale spiegò che il fratello si era allontanato a bordo di una macchina e che dal quel momento non ne aveva avuto più notizia. La versione fornita dall’uomo, però, non convinse gli investigatori che iniziarono a tenere sotto controllo gli spostamenti di Salvatore.
Sentendosi il fiato sul collo, l’uomo commette un passo falso: raccoglie i suoi effetti personali, prende il passaporto e scappa. Anche di lui non si hanno più notizie e la figlia di Salvatore, preoccupata dalla sua scomparsa, si reca in caserma e segnala ai carabinieri di non avere più notizie del padre. I militari, a questo punto, si mettono alla ricerca dell’uomo e lo rintracciano nelle campagne di proprietà della famiglia, dove aveva deciso di nascondersi prima di fuggire definitivamente. In caserma continua a negare di essere coinvolto nella scomparsa del fratello ma alla fine cede e confessa l’omicidio.

(nella foto il terrreno sulle colline di Piano di Sorrento dove avvenne l’orrendo delitto nel riquadro da sinistra la vittima Francesco Amuro e l’assassino Salvatore Amuro)

 

 

 

 

Cronache della Campania@2018

Impianto di stoccaggio rifiuti pericoloso: sequestrato il capannone della Lea a Marcianise

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Marcianise. Stoccaggio illegale di rifiuti: sequestrato l’impianto della Lea srl. La Compagnia della Guardia di Finanza di Marcianise, unitamente a personale dell’ARPAC di Caserta, ha eseguito un decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, su richiesta della locale Procura, nei confronti della società che opera nel settore dello stoccaggio e del recupero di rifiuti.
Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, hanno consentito di accertare che l’impianto di stoccaggio ubicato nella zona ASI di Marcianise, effettuava una gestione di rifiuti al di fuori dei limiti stabiliti dalla Regione Campania e causando gravi danni all’ambiente circostante.
Il sopralluogo effettuato nello scorso mese di luglio dalla Polizia Municipale aveva, infatti, portato alla luce notevoli irregolarità nel management dell’impianto. All’interno erano stoccati rifiuti in quantità notevolmente superiori a quelle consentite e, ad aggravare ulteriormente la situazione, sono state individuate delle perdite di percolato, ovverosia il residuo dello smaltimento dei rifiuti umidi, che rischiavano di infiltrarsi all’interno del sottosuolo. Inoltre, ulteriori perdite di percolato sono state riscontrate durante alcuni trasporti da parte dei camion della società che sono stati intercettati e sequestrati.
Poiché la società non ha provveduto a eliminare le irregolarità riscontrate e a smaltire gli enormi cumuli di rifiuti presenti, quest’ufficio ha ottenuto il vincolo cautelare all’intero capannone, con conseguente blocco dell’attività.
Il provvedimento di sequestro si è reso necessario poiché la situazione attuale dell’impianto risulta essere di estremo pericolo atteso che il materiale accumulato all’interno del sito, non adeguatamente differenziato e smaltito, sarebbe potuto risultare altamente nocivo per l’atmosfera, per le falde acquifere e, di conseguenza, per la salute dei cittadini.

Cronache della Campania@2018

Camorra, respinto l’arresto del boss La Torre: la lettera di raccomandazione per il figlio non fu una estorsione

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Augusto La Torre, il boss psicologo auto accusatosi di decine di omicidi commessi quando comandava l’omonimo clan a Mondragone “non ha commesso alcun reato di estorsione quando invio’ una lettera all’amministratore di un condominio per chiedergli l’assunzione del figlio”; al massimo si tratta di “una raccomandazione”. Lo scrivono i giudici del tribunale del Riesame di Napoli nell’ordinanza con cui hanno rigettato l’appello della Dda di Napoli che chiedeva l’arresto di La Torre, peraltro gia’ detenuto da oltre 20 anni. Le motivazioni della decisione, depositate a fine settembre, sono state rese note dal legale di La Torre, Filippo Barbagiovanni. L’indagine antimafia aveva portato agli arresti nei mesi scorsi del figlio e del fratello del boss, Francesco Tiberio e Antonio La Torre, accusati di aver acquisito armi per riorganizzare il clan La Torre, mentre per Augusto il gip respinse la richiesta di custodia cautelare. La Dda ha fatto ricorso ma il Riesame ha confermato che non vi fu alcuna estorsione, perche’ la lettera appare “piuttosto come un tentativo da parte di un padre, detenuto e privo di risorse, di garantire al figlio un reddito sicuro; il tono remissivo e il riferimento a situazione personali unitamente alla richiesta di aiuto depongono per l’insussistenza dell’elemento oggettivo del reato”. Sulla seconda contestazione relativa ad una richiesta di 25mila euro che La Torre avrebbe fatto ad un imprenditore di Mondragone sempre attraverso una lettera, i giudici sottolineano che la missiva non e’ mai stata trovata e che la stessa vittima ha negato di averla mai ricevuta.

Cronache della Campania@2018

Caso Cucchi: indagati altri due carabinieri. Si cercano le coperture dei vertici dell’Arma

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Roma. Caso Cucchi: altri due carabinieri finiscono nel registro degli indagati per la falsificazione degli atti dopo la morte di Stefano Cucchi. Si squarcia il muro di silenzio che fino ad oggi ha caratterizzato le inchieste sul decesso del giovane arrestato e pestato a morte. Nel registro degli indagati sono finiti Francesco Di Sano, carabiniere della stazione di Tor Sapienza che ebbe in custodia Cucchi, e il luogotenente Massimiliano Colombo, comandante della stessa caserma dove venne portato il giovane dopo l’arresto per droga e il pestaggio subito alla stazione Casilina la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Il nuovo filone di indagine è stato avviato dopo l’audizione di Di Sano nel processo a carico di cinque carabinieri. Rispondendo alle domande del pm Giovanni Musarò, il militare dell’arma il 17 aprile scorso ammise di avere modificato l’annotazione di salute di Cucchi. “Mi chiesero di farlo – racconto davanti alla prima corte d’assise – perchè la prima era troppo dettagliata. Non ricordo per certo chi è stato; certo il nostro primo rapporto è con il Comandante della Stazione, ma posso dire che si è trattato di un ordine gerarchico”. La nuova indagine è stata aperta dopo le ammissioni di Francesco Tedesco, il carabiniere imputato che ha denunciato le responsabilità di colleghi e superiori coinvolti nella vicenda. Il luogotenente Colombo verrà presto interrogato in Procura a Roma è indagato per falso ideologico e è stato perquisito nei giorni scorsi. Francesco Di Sano, il militare sentito il 17 aprile scorso in relazione a due false annotazioni di servizio sullo stato di salute del geometra, ha ammesso di aver dovuto ritoccare il verbale senza precisare da chi gli fu sollecitata la modifica. E in quella stessa udienza anche il piantone Gianluca Colicchio, che subentrò a Di Sano nella custodia di Cucchi, ha parlato di anomalie in una relazione di servizio (“è strana, porta la mia firma ma io non la ricordo e contiene termini che io non uso”). E così la prossima settimana toccherà proprio a Colombo dare la sua versione dei fatti al pm Giovanni Musarò che lo ha sottoposto a una perquisizione finalizzata a individuare eventuali contatti e mail con i diretti superiori. Dalle parole di Colombo potrebbe dipendere il destino degli ufficiali più alti in grado che all’epoca acquisirono informazioni sul caso Cucchi senza adottare poi alcun provvedimento. Dall’istruttoria dibattimentale, infatti, è già emerso che i vertici dell’Arma erano a conoscenza del pestaggio subito da Cucchi ben prima che il caso finisse all’attenzione della magistratura e della stampa. Chi indaga vuole capire se gli stessi vertici si siano adoperati in qualche modo per far sì che della vicenda venisse veicolata una versione soft nelle varie informative destinate all’autorità giudiziaria.

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Fidanzati uccisi a Pordenone: al via il processo bis per l’ex militare di Somma Vesuviana

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Trieste. Fidanzati uccisi a Pordenone, al via il processo d’appello. La difesa chiede la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale dopo l’ergastolo inflitto, in primo grado, a Giosuè Ruotolo, l’ex caporale maggiore dell’esercito ritenuto colpevole della morte di Trifone Ragone e della fidanzata Teresa Costanza. La prossima udienza si terrà il 23 novembre prossimo, quando i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Trieste dovranno sciogliere la riserva sulla richiesta della difesa di Ruotolo. Nel pomeriggio sono state ascoltate le argomentazioni di difesa, pm e parti civili. La difesa ha chiesto una nuova perizia tecnica riguardo alla presenza dell’imputato sul luogo del delitto – il parcheggio di una palestra a Pordenone – anche dopo l’esplosione dei colpi di pistola. “Abbiamo chiesto la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per quanto attiene il contenuto della consulenza tecnica della procura – ha spiegato il legale della difesa, Roberto Rigoni Stern – riteniamo che non siano emerse delle convergenze rispetto a molte testimonianze e questo fa si che l’istruttoria dibattimentale sia determinante affinché la Corte possa farsi un quadro più ampio e che superi tutte le contraddizioni che emergono nel corso dell’impianto della sentenza nella sua complessita’”. “Come parte civile – ha replicato l’avvocato di parte civile Nicodemo Gentile – non ci opponiamo a prescindere, ma in modo motivato perchè è assolutamente irrilevante. La valutazione globale di tutti gli indizi ci dice che in realtà la cosa più importante in questo processo sono le sue bugie. E’ un dispendio di tempo che va contro l’economia del processo”.

Cronache della Campania@2018

Napoli, duplice omicidio Cepparulo-Colonna: la Dda ha chiesto di nuovo l’arresto per il boss Ciro Rinaldi

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La Dda di Napoli, attraverso la pm Antonella Fratello ha chiesto di nuovo l’arresto del boss Ciro Rinaldi detto mauè in relazione al duplice omicidio di Raffaele “Ultimo” Cepparulo e dell’innocente Ciro Colonna. L’agguato nei confronti del reggente dei “Barbudos” del rione Sanità in fuga dai Vastarella e confinato a Ponticelli avvenne il pomeriggio del del 7 giugno del 2016. Per quel duplice omicidio nell’aprile scorso erano stati arrestati il boss del rione Villa, Ciro Rinaldi (ritenuto il mandante) i due presunti killer Michele Minichini  (per Cepparulo) e Antonio Riviecco detto cocò (per Ciro Colonna). Con loro erano finite in carcere anche Anna De Luca Bossa, matrigna di Minichini (pure lei come mandante), Luisa De Stefano, moglie del boss Schisa, la sua nipote Vincenza Maione, Giulio Ceglie e Cira Cepollaro, madre di Minichini ed ex compagna del boss detenuto Ciro Minichini. La donna  poi è stata scarcerata dal Riesame.  Ciro Rinaldi era stato scarcerato dopo 15 giorni dal Riesame perché i suoi avvocati difensori, Raffaele Chiummariello e Salvatore Impradice avevano convinto i giudici sulla mancanza dei gravi indizi di colpevolezza. La Cassazione sulla scorta della richiesta del nuovo arresto da parte della Dda di Napoli, ha accolto il ricorso rimandando gli atti al Riesame, che ora dovr° rivedere la posizione di mandante di Rinaldi in relazione al duplice omicidio, sulla scorta delle indicazioni della Cassazione. e quindi sei mesi dopo la sua ultima scarcerazione  e nel pieno della faida con i Mazzarella-D’Amico rischia di tornare di nuovo in carcere. Secondo le accuse era stato lui insieme ad Anna De Luca Bossa a decretare la morte di Cepparulo, che confinato a Ponticelli aveva cercato alleanze con i De Micco e andava in giro armato perché avrebbe voluto uccidere il figliastro della De Luca Bossa,  Michele Minichini (invece è stato lui ad ucciderlo) e poi avrebbe fatto una stesa sotto casa di Rinaldi.

 

 

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Scafati, ricorso contro la richiesta di arresto del boss Matteo Albano

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Scafati – È giunto a conclusione l’iter processuale del narcotrafficante Matteo Albano, appartenente alla famiglia dei “Cavallaro/Benedetti”, figura apicale del rifornimento di cocaina del vesuviano e dell’Agro nocerino sarnese nonché del complice Sorrentino Angelo, giovane pluripregiudicato scafatese. Quest’ultimo semplice manovale del boss come lui stesso aveva confessato al giudice all’atto dell’interrogatorio aveva indicato il suo diretto superiore quale responsabile di tutta l’organizzazione e detenzione di quell’ingente quantitativo. Tale confessione non aveva lasciato scampo al boss Matteo Albano.
I due soggetti furono arrestati in flagranza di reato dai carabinieri di Scafati, coordinati dal tenente Gennaro Vitolo che attuarono un lungo servizio di osservazione, culminato nel ritrovamento ai primi di ottobre 2017 di oltre 200 g di cocaina purissima e di crack pari a 666 dosi singole, nascoste sotto le tegole di una casa abbandonata adiacente alla roccaforte degli Albano.I due narcos difesi dall’avvocato Gennaro De Gennaro avevano riportato una condanna minima col GIP, dott. Alfonso Scermino di 5 anni di reclusione rispetto alla gravità delle accuse ed al quantitativo sequestrato, ottenendo l’esclusione di tutte le aggravanti contestate sebbene l’Albano annoverasse un lungo ventennio di carcere alle spalle per reati della stessa specie.
Dopo un anno di arresti domiciliari concessi nell’immediatezza dell’arresto sebbene la Procura aveva chiesto inizialmente il carcere per entrambi, per la loro indiscussa pericolosità, visto che l’Albano Matteo era stato condannato più volte per associazione dedita al narcotraffico ora la partita si sposta al tribunale di Sorveglianza chiamato a decidere se i due pericolosi pregiudicati meritano i benefici di legge o se dovranno espiare la residua pena in carcere.

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Camorra, il pentito del clan Mele: ‘Volevamo uccidere Vanacore perché inaffidabile’. IL RACCONTO

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Si sono pentiti in rapida successione uno dietro l’altro tranne uno i quattro componenti del gruppo di fuoco del clan Mele di Pianura. E ora si scopre che lo stesso gruppo ovvero due dei tre con il consenso del boss Vincenzo Mele detto Enzo e’ bianchina aveva deciso di uccidere uno del gruppo perchè ritenuto non affidabile. La vittima in questione doveva essere Antonio Vanacore pentito dallo scorso anno. E la decisione di ucciderlo l’avevano presa l’allora co-reggente del clan Salvatore Romano detto muoll muoll e Pasquale Esposito junior (anche loro pentiti). Erano stati arrestati nel febbraio del 2017 dai carabinieri insieme con Marco Battipaglia (l’unico del gruppo a non essersi pentito) perché trovati in possesso di un arsenale con il quale erano pronti a compiere una serie di rapine e omicidi nella zona di Pianura e nell’area flegrea. E’ stato il collaboratore di giustizia a raccontare alla Dda l’inedito retroscena dei contrasti interni al gruppo in un verbale del 17 novembre del 2017 e contenuto nelle  60 pagine dell’ordinanza cautelare che tre settimane fa ha portato in carcere il boss Vincenzo Mele e i suoi fedelissimi Vincenzo Morra detto pallina e Fabio Orefice o’ leone accusati di estorsione. Ha raccontato Esposito:

“La decisione di uccidere Antonio Vanacore era stata concordata tra me e Salvatore Romano con l’autorizzazione di Vincenzo Mele che noi avevamo informato della nostra intenzione. La decisione era dovuta aduna duplice ordine di motivi: innanzitutto in quanto Vanacore in una occasione non volle accollarsi la responsabilità della detenzione di un’arma per la quale fu arrestato Salvatore Romano. In particolare i due subirono un controllo dalle forze dell’ordine nel viale dove abita Romano che in q ella occasione era armato e gettò l’arma a terra sotto un’auto parcheggiata. Quando le forze dell’ordine li portarono in ufficio il Vanacore non volle accollarsi la responsabilità sicchè il Romano fu costretto ad assumersela e fu arrestato. La cosa ovviamente non fu gradita. Se non ricordo male Romano è stato arrestato per questo fatto tra il 2014 e il 2015. Inoltre il Vanacore aveva anche dimostrato di essere diffidente nei nostri confronti…omissis…Per tali ragioni Romano ed io decidemmo che Vanacore doveva essere fatto fuori perché era poco affidabile e quando lo comunicammo a Vincenzo Mele lui stesso ci disse che era opportuno ucciderlo”.

 Renato Pagano

@riproduzione riservata

(nella foto da sinistra Alfredo Romano, Marco Battipaglia, Antonio Vanacore, Pasquale Esposito junior)

Cronache della Campania@2018

Rubava i soldi della mensa dell’università di Fisciano: sospeso dipendente infedele. IL VIDEO

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Fisciano. Rubava i soldi delle macchinette della mensa universitaria: scoperto il dipendente di Adisurc è stato sospeso dal servizio. Un furto sistematico che gli avrebbe frttato circa 22mila euro in pochi mesi, quello scoperto dai carabinieri della Compagnia di Mercato San Severino che stamane hanno eseguito una misura cautelare interdittiva di sospensione dall’esercizio del pubblico servizio, emesso dal Gip del tribunale di Nocera inferiore su richiesta del pm Anna Chiara Fasano. L’indagato per furto aggravato è un impiegato dell’ADISURC (Azienda per il diritto allo studio universitario della Regione Campania) in servizio presso l’Università degli Studi di Salerno (Sede di Fisciano). Le indagini, condotte dal Nucleo Operativo della Compagnia di Mercato San Severino e coordinate dal Pubblico Ministero Fasano, hanno fatto emergere, attraverso telecamere nascoste, che l’indagato asportava sistematicamente denaro contante dall’interno delle monetiche ubicate nella mensa universitaria di Fisciano. In particolare, dalla visione delle immagini si evince con chiarezza che il soggetto, negli orari mattutini e lontano da occhi indiscreti, dopo aver aperto le monetiche utilizzando le chiavi custodite negli uffici dell’azienda, asporta il denaro e digitava un codice che azzera il sistema informatico di contabilizzazione e rilascia apposita ricevuta, ovviamente poi fatta sparire. L’attività investigativa ha consentito di quantificare, dall’inizio del 2018, l’ammanco di circa 22.000 euro, dall’interno delle monetiche utilizzate dagli studenti per ricaricare i badge che consentono di usufruire dei servizi mensa. L’uomo è stato sospeso dal servizio per la durata di un anno.

Cronache della Campania@2018

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