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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Pizzo nel Salernitano: 14 anni di carcere per il boss Pierino ‘Maradona’ Desiderio. TUTTE LE CONDANNE

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La condanna più pesante è stata inflitta al boss Pierino “Maradona” Desiderio: 14 anni di carcere. Lui che da Pagani si era trasferito nella Valle dell?Irno in provincia di salerno e aveva imposto il pizzo a tutte le attività imprenditoriali e commerciali della zona oltre a trafficare droga e a compiere rapine.Il gup Ubaldo Perrotta ha emesso una sentenza durissima per lui e per i suoi 23 affiliati che hanno chiesto e ottenuto di essere processato con rito abbreviato ottenendo lo sconto di pena: 179 anni e 6 mesi di carcere complessivi. Le condanne sono arrivate per Michele Villani (12 anni),iGianbattista Coppola e Biagio Villani condannati a 10 anni. Tre anni e 8 mesi per Angela Bonazzola; quattro anni e sei mesi per Gianluca Bonazzola, cinque anni e sei mesi per Luigi Bove, sei anni per Luigi Coppola, due anni e sei mesi per Antonio Desiderio; sei anni per Sisto Ferrara; otto per Alessandro Iannone; quattro anni e sei mesi per Nicola Liguori; cinque per Francesco Mandile, tre per Giuseppe Picarella, quattro per Andrea Luigi Pisciotta; cinque per Luigi Romano; cinque anni e sei mesi per Alessio Ruggiero, otto per Rosario Scifo; sei per Vincenzo Senatore, uno per Giovanna Spista; sei per Salvatore Torino, sei anni e sei mesi per Ettore Vicedomini.
L’indagine partì nel 2014, con elementi riconducibili ad incendi, pestaggi, esplosioni di arma da fuoco e intimidazioni a danno di commercianti e imprenditori della zona. Il tutto aggravato dal metodo mafioso e dall’imposizione ad alcuni di loro, di assumere persone interne al clan. Il boss Desiderio , è stato accertato nel corso delle indagini, che nonostante fosse agli arresti domiciliari continuava a tenere summit e riunioni organizzativa con i suoi fedelissimi proprio nella sua abitazione. Inoltre, vi è l’accusa per alcuni indagati di aver favorito la latitanza di Vincenzo Senatore, figura di spicco dell’ex Nuova Famiglia dell’agro Nocerino.Pietro Desiderio, 38 anni, era stato arrestato a maggio dello scorso anno per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso una in un cantiere di Mercato San Severino, in quell’occasione Desiderio aveva agito con la complicità di Emanuele Filiberto Arena.
Le indagini dell’antimafia hanno permesso di scoprire la rete dei collegamenti di Desiderio anche nell’ambito del traffico di stupefacenti e nello spaccio. Il 38enne, di origini paganesi, secondo gli inquirenti, era a capo di una nascente organizzazione criminale che stava prendendo il predominio tra la Valle dell’Irno e l’Agro nocerino sarnese.

Cronache della Campania@2018


Tutti liberi quelli del branco di Pimonte solo il nipote del boss non ha superato la messa alla prova: due anni di carcere

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Pimonte. Lei, la vittima dello stupro di gruppo ora ha 17 anni, è in Germania da oltre un anno, loro invece i 12 baby orchi sono tornati al loro paese liberi e con la fedina penale pulita dopo aver partecipato a una brutale aggressione che ha tolto l’innocenza alla ragazzina. Sono quelli del branco di Pimonte che dopo ave trascorso un anno e mezzo di “messa alla prova” sono tornati a casa.

Il giudice ha disposto di non doversi procedere, per 10 degli 11 ragazzini (il dodicesimo all’epoca dei fatti aveva 13 anni e quindi non imputabile) estinguendo di fatto il reato e cancellandolo dalla fedina penale dei ragazzini. Hanno superato per diciotto mesi le prove, “con impegno e dedizione”. Tutti hanno studiato, si sono impegnati con attività di volontariato tra comunità di recupero e chiesa, e hanno anche iniziato a lavorare. C’è chi ha fatto il giardiniere presso una casa famiglia. Chi invece ha preparato panini in una rosticceria ambulante. Chi ha fatto l’aiuto cuoco e chi il pizzaiolo. Chi si è dedicato allo sport e adesso fa costantemente canottaggio, calcio, palestra. Chi ha trovato la sua strada, lasciando gli studi e, dopo sei mesi da apprendista, è stato assunto in una ditta specializzata in impianti idraulici:
Uno dei componenti del branco di Pimonte, imparentato con il boss del paese e che  aveva una posizione marginale perché aveva “solo” assistito alla violenza sessuale sulla ragazzina ha invece deciso di non seguire  il percorso riabilitativo e, al termine dei dodici mesi (a lui era più breve) di messa alla prova è stato “bocciato” e condannato a due anni di reclusione. È tuttora libero, in attesa del processo di Appello. E’ l’unico in caso di condanna che andrà in carcere, ma in quello minorile.

In dodici, tutti minorenni, due anni fa furono arrestati e finirono in comunità per avere stuprato e filmato ripetutamente una 15enne, costringendola a sottostare alle violenze del branco con la minaccia di diffondere i video hard realizzati in un bosco.  L’inchiesta nacque dalla denuncia della stessa vittima. La 15enne dichiarò di essere stata costretta, dopo aver avuto un rapporto sessuale con il suo fidanzato, ad averne anche con gli amici di questi, sotto la minaccia della pubblicazione sui social network di un filmato riguardante il rapporto. Minaccia poi ripetuta in successive occasioni, avendo il “branco” ripreso anche i successivi rapporti con gli altri.L’attività di indagine, svolta successivamente, consentì di ottenere il riscontro delle dichiarazioni della vittima, ascoltata dal pm minorile con l’ausilio di una psicologa, con quelle di alcuni testimoni ed altri esiti investigativi, consentendo di individuare compiutamente gli autori del fatto e le responsabilità di ciascuno nella commissione dei reati. Dei dodici indagati, undici furono sottoposti alla misura del collocamento in comunità. Per uno solo, con età inferiore ai 14 anni, si era proceduto separatamente.

Cronache della Campania@2018

Armi e droga a Catania: tra gli arrestati ci sono anche 2 poliziotti e un carabiniere

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Catania. La Polizia di Stato di Catania ha dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di numerose persone ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata alla coltivazione, produzione, trasporto, detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, reati in materia di armi, corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e favoreggiamento personale. Le indagini condotte dalla Squadra Mobile di Catania hanno permesso di disarticolare un gruppo criminale operante nella zona del calatino dedito alla coltivazione di marijuana i cui ingenti quantitativi raccolti venivano commercializzati a Catania ed in diverse parti della Sicilia.
I servizi di intercettazione hanno consentito di ricostruire l’intera filiera della produzione di cannabis, evidenziando la competenza degli indagati nelle tecniche della coltivazione su larga scala della marijuana ed il sistema di controllo delle piantagioni.
Tra i destinatari dell’ordinanza del Gip di Catania ci sono anche due poliziotti e un carabiniere. Uno degli agenti è ritenuto tra gli organizzatori e il carabiniere un complice. Per loro due il Gip ha previsto la detenzione cautelare in carcere. Il secondo poliziotto, indagato per favoreggiamento, è agli arresti domiciliari. I due agenti erano in servizio a Catania, il carabiniere in una stazione della provincia.
I particolari dell’operazione saranno illustrati dal procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, nel corso della conferenza stampa che si terrà presso gli uffici della Procura Distrettuale della Repubblica alle ore 10.30.

Cronache della Campania@2018

Omicidio del pedofilo nel Sannio: il Dna per incastrare l’assassino

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Avra’ 90 giorni di tempo per esaminare le cicche di sigaretta, un sasso e un rametto di legno ritrovati sul luogo del delitto dai carabinieri, il consulente nominato dal gip del tribunale di Benevento per far luce sull’omicidio di Giuseppe Matarazzo, il pastore 45enne ucciso il 19 luglio scorso vicino alla sua abitazione a Frasso Telesino. Sara’ il genetista Ciro Di Nunzio, docente di genetica forense presso l’universita’ della Magna Grecia di Catanzaro, a eseguire gli esami per estrarre il dna dai reperti catalogati dagli inquirenti e dove sarebbe state trovate tracce biologiche. Il gip del tribunale di Benevento, Flavio Cusani, gli ha conferito l’incarico questa mattina indicando quesiti precisi per l’esperto che dovra’ estrapolare il profilo di dna. Matarazzo fu freddato da tre colpi di pistola esplosi da due uomini a bordo di un Suv che lo avevano avvicinato con la scusa di chiedere un’informazione. Unico indagato nel delitto del 19 luglio scorso, il padre di una ragazzina di 15 anni morta suicida il 6 gennaio 2008, che si scopri’ aver avuto una relazione con l’allora 35enne Matarazzo. L’uomo fu processato e condannato per violenza sessuale su minore, ma non per istigazione al suicidio. Lucio Iorillo, 58 anni, di Frasso Telesino, si e’ sempre professato innocente, asserendo che la sera del delitto era stato in compagnia della moglie a casa di amici a Sant’Agata de’ goti, tornando a notte fonda e trovando i carabinieri ad attenderlo per interrogarlo. Inizialmente la Procura aveva deciso di effettuare gli stessi esami affidandoli ai carabinieri del Racis di Roma, ma il gip Flavio Cusani ha accolto un’istanza della difesa per procedere attraverso l’incidente probatorio, affidando cosi’ la consulenza sui reperti a un consulente.

Cronache della Campania@2018

Riciclavano i soldi dei Lo Russo, ai domiciliari e rinviati a giudizio i due fratelli medici

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Sono entrambi accusati di aver reimpiegato soldi di dubbia provenienza in attivita’ di ristorazione per conto del clan Lo Russo di Miano, quartiere a nord di Napoli. Luigi e Antonio D’Ari, entrambi medici, uno anestesista e l’altro chirurgo estetico in servizio in due cliniche private di Napoli, erano in carcere dal 9 maggio. Il giudice per le indagini preliminari, Marcello De Chiara, ha pero’ accolto le richieste degli avvocati Roberto Saccomanno e Michele Sarno e concesso a entrambi gli arresti domiciliari dopo averli rinviati a giudizio. Sono gli unici ad aver scelto di essere processati con il rito ordinario e per loro il dibattimento iniziera’ il 22 novembre davanti alla sesta sezione penale, collegio B, del Tribunale di Napoli. Gli altri imputati tra i quali, Domenico Mollica, cognato dell’ex capoclan Carlo Lo Russo, Mariano Torre e la moglie, ex killer del clan diventato testimone di giustizia, e Adriana Lo Russo, sorella dei boss di camorra, hanno scelto invece il rito abbreviato. Le indagini, della Dda di Napoli e dal centro operativo della Dia, hanno portato alla luce un sistema complesso di riciclaggio di denaro proveniente da droga ed estorsioni che giravano dietro una agenzia d’affari. Secondo l’accusa, i fratelli D’Ari si rendevano prima disponibili a proteggere gli interessi dei titolari di attivita’ di ristorazione detenuti e sotto processo, acquisendone i ristoranti e divenendo vittime di estorsione dei Lo Russo, per poi fare affari e investimenti con i fiduciari dell’organizzazione.

Cronache della Campania@2018

Colpo di scena al processo al clan Orlando: il boss Raffaele ‘Pepele’ non potrà essere giudicato per camorra

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All’esito delle pesanti condanne inflitte in data 10.11.17 dal giudice dell’udienza preliminare, dott. Tarallo, l’inchiesta afferente al clan Orlando è approdata innanzi alla Corte di Appello di Napoli, VI sezione penale.In primo grado fu esclusa la esistenza di un associazione di tipo mafioso, ma fu ritenuta sussistente la associazione dedita al narcotraffico, gruppo che avrebbe ereditato il potere dei Nuvoletta e dei Polverino.
I giudici di secondo grado sono chiamati a valutare sia gli atti di appello redatti dai difensori dei numerosi imputati, sia l’appello proposto dalla pubblica accusa nei confronti di coloro che furono assolti, in tutto o in parte, dalle imputazioni a suo tempo elevate dagli organi inquirenti. In esordio dell’udienza, l’Avv. Dario Vannetiello, difensore del ritenuto capoclan Orlando Raffaele, ha chiesto preliminarmente alla Corte di pronunciarsi su una particolare questione giuridica, eccependo la violazione delle norme del codice di procedura penale afferenti alla redazione ed al deposito dell’atto di impugnazione redatto dall’accusa nei confronti del proprio assistito.
Sulla questione devoluta, la quale ruotava intorno ad un cavillo giuridico, la Corte di Appello ha dovuto ritirarsi per ben due volte in camera di consiglio, onde valutare l’inusuale tema devoluto dal difensore di Orlando Raffaele. Alla fine la Corte di appello ha dovuto prendere atto della fondatezza della eccezione ed ha dichiarato la inammissibilità dell’atto di appello proposto dalla Pubblica Accusa nei confronti di Orlando Raffaele, facendo salvo comunque l’appello redatto dall’ organo inquirente nei confronti degli altri affiliati al clan .
Le conseguenze non sono di poco conto, atteso che non pare più giuridicamente possibile irrogare la condanna per il delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso nei confronti di Orlando Raffaele, anche se la Corte di appello, all’esito del giudizio di secondo grado, dovesse ritenere sussistente la associazione di stampo mafioso come invocato dalla Procura della Repubblica.
Nei confronti di costui rimane solo da stabilire se la condanna ad anni 12, inflitta in primo grado per i delitti di narcotraffico ed estorsione, debba essere o meno confermata dalla Corte di Appello in caso di rigetto dell’atto di appello proposto dall’altro difensore di Orlando Raffaele, l’avvocato Sabato Graziano. Dopo il clamoroso risultato ottenuto dalla difesa di Orlando Raffaele, il Procuratore Generale ha chiesto di acquisire in atti i verbali di interrogatorio resi da ben 4 nuovi collaboratori di giustizia : Giannuzzi, Del Prino, Noto e Lollo. Alla luce di tale richiesta tutti i difensori dei numerosi imputati coinvolti nell’inchiesta al clan Orlando, hanno chiesto ed ottenuto un termine a difesa onde interloquire sulla istanza di istruttoria formulata dal Procuratore Generale.
L’elenco degli imputati interessati al processo è numeroso ed è il seguente :
Aiello Salvatore, Amitrano Mario, Baiano Luigi, Carbone Celestino, Carputo Raffaele, Cincinnato Francesco, Di Lanno Antonio, Di Maro Angelo, Esposito Vincenzo, Gagliano Maria Rosaria, Lubrano Armando, Lubrano Raffaele, Lubrano Vincenzo, Lucci Pasquale Fabio, Nuvoletta Lorenzo, Orlando Angelo classe ’72 , Orlando Angelo classe ’79, Orlando Gaetano, Orlando Raffaele, Polverino Crescenzo, Ruggiero Salvatore, Sarappo Gennaro, Sarappo Mario, Schiattarella Aniello, Veccia Raffaele, Visconti Claudio.
La prossima udienza è stata fissata al giorno 30.10.18.

Cronache della Campania@2018

Appalti Romeo, la Cassazione esprime ‘dubbi’ sulla legalità delle intercettazioni

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Fioccano le bacchettate della Cassazione sul Tribunale del riesame di Napoli ‘colpevole’ di aver confermato, con l’ordinanza del quattro dicembre 2017, in presenza di intercettazioni con molti aspetti da chiarire sulla loro rispondenza a criteri di legalita’, gli arresti domiciliari nei confronti dell’imprenditore Alfredo Romeo nell’ambito dell’inchiesta nella quale e’ in corso a Napoli il processo per presunti episodi di corruzione. Questi fatti esulano dalla vicenda Consip di competenza, invece, della magistratura romana. Il processo in corso a Napoli e’ stato sospeso ad aprile proprio in attesa delle motivazioni della Suprema Corte depositate oggi e relative all’udienza svoltasi in Cassazione lo scorso otto marzo davanti alla Sesta sezione penale, che gia’ altre volte ha dato ragione ai legali di Romeo riconoscendo ‘sbagli’ nelle fasi di merito. Le intercettazioni sono centrali in questo procedimento e dalla loro utilizzabilita’ dipende tutto. Accogliendo il ricorso dei difensori di Romeo, la Cassazione – sentenza 45486 – ha disposto l’annullamento dell’ordinanza con rinvio al Tribunale del riesame affinche’ dia adeguata risposta alle obiezioni dei legali dell’imprenditore che, tra l’altro, hanno sostenuto che le intercettazioni con il virus trojan sono “inutilizzabili” dato che sono state disposte “senza una reale notizia di reato perche’ Romeo non era interessato dalle indagini di criminalita’ organizzata che si stavano compiendo in relazione all’appalto del servizio di pulizia dell’ospedale Cardarelli”. Il motivo della difesa ha fatto centro e gli ‘ermellini’ hanno convenuto sul fatto che parte delle intercettazioni sono state disposte nei confronti di Romeo “a prescindere dalla sussistenza di elementi indiziari nei confronti del soggetto intercettato”, e che “a fronte di eccezioni puntuali della difesa, il controllo del Tribunale non risulta essere stato adeguato e la motivazione e’ fortemente carente”. Per la Cassazione, occorre una rivalutazione “della effettiva consistenza della base indiziaria richiamata dalla pubblica accusa a sostegno della richiesta di autorizzazione” ad intercettare, e “sulla indispensabilita’” di tale mezzo di ricerca “in relazione alla specifica posizione che in quel momento doveva essere attribuita a Romeo”, che non si sa se venne intercettato come indagato o come persona informata dei fatti. La Cassazione inoltre parla di motivazione “viziata” anche con riferimento alla osservanza dei termini di durata delle indagini preliminari, e rileva che il riesame “non ha fatto corretta applicazione dei principi” che regolano la materia. Adesso il riesame, ordina la Suprema Corte, “verifichera’ se ed in che termini siano utilizzabili, rispetto ad ogni singolo reato, gli elementi indiziari derivanti da atti eventualmente compiuti dopo la scadenza dei termini di durata delle indagini preliminari”.

Cronache della Campania@2018

‘Facemmo un agguato al super killer ma la pistola si inceppò, da allora divenne una minaccia per i Sarno’. IL RACCONTO

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Napoli. Cercarono di uccidere il super killer Fabio Caruana (oggi pentito) ma l’agguato fallì e da quel momento diventò una minaccia continua per il clan Sarno. L’episodio inedito è raccontato dal pentito Carmine Esposito ed è contenuta nelle 184 pagine dell’ordinanza cautelare firmata dal gip Egle Pilla con la quale ieri sono finiti in carcere in 13 del clan dei fratelli Casella di Ponticelli. “…omissis Quando notammo il Caruana usciere dal palazzo e sistemare alcune valigie nel bagagliaio della su autovettura, un ‘Audi A3 di colore nero, uscimmo dall’appartamento e ci sistemammo in sella a uno un scooter, Nicola Sarno si pose alla guida indossando una casco integrale, mentre io mi accomodai dietro, indossando un berretto ed impugnando la pistola semiautomatica. All’atto in cui incrociammo la vettura del Caruana, alla distanza di un paio di metri, cominciai a fare fuoco contro di lui fino a quando, dopo 4-5 colpi l’arma non si inceppò. Nel mentre mi accingevo a scendere dallo scooter, notali che la vettura andava sbattere contro un muro. Pensando di aver ucciso, stavo facendo ritorno in sella del motociclo, quando all’improvviso mi sentii afferrare alle spalle e voltandomi mi accorsi che era il Caruana. Nella concitazione persi l’arma di mano. La recuperai subito ma non riuscii a sparare perché l’arma risultò ancora inceppata. Il Caruana scappò in direzione dell’abitazione della madre, mentre io corsi sul ciclomotore e andai via insieme a Nicola Sarno. Mi accorsi peraltro di aver perso nuovamente la mia arma, per cui fummo costretti a tornare dietro per recuperarla. Lungo il percorso, incrociai casualmente Salvatore Coppola “pepesce” all’altezza della strada che conduce a casa di “pachialone “, e a lui consegnai l’arma utilizzata per l’agguato. Il ciclomotore non ricordo che fine abbia fatto, ricordo solo che ci fu consegnato da Eduarddo Casella…. il revoiver caiibro 38 lo lasciammo nell’appartamento in cui c’eravamo appostati. Nei giorni successivi il Caruana, dopo essersi spostato ad abitare a Caravita, mandò dei messaggi di sfida ai Sarno, dicendo a Peppe Sarno che da quel giorno sarebbe diventato la nostra ombra. Il messaggio venne portalo da Antonio Visone, dello Tonino “tubo”, persona che insieme al Caruana frequentava quei personaggi di Volla. Ricordo che in questa occasione, Antonio Sarno, il padre di Peppe, Ciro, Luciano e degli altri, cacciò via a malo modo il Visone”.

 Renato Pagano

@riproduzione riservata

 

Cronache della Campania@2018


Mafia, scacco ai Santapaola: in carcere anche l’ex consigliere regionale Nicotra

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Catania. C’è anche l’ex deputato regionale, già sindaco di Aci Catena, tra i 18 arrestati nel blitz ‘Aquila’ che ha sgominato due ‘gruppi’ criminali storici che operano in provincia di Catania. Tra i destinatari del provvedimento anche l’ex deputato regionale siciliano Raffaele Pippo Nicotra, indagato per concorso esterno alla mafia e voto di scambio per un appoggio elettorale nel 2012. Al centro dell’inchiesta ‘Aquila’ della Procura distrettuale etnea indagini del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Catania e dichiarazioni di collaboratori di giustizia che hanno ricostruito l’organigramma di due “gruppi” storici della “famiglia” di Cosa nostra di Catania: quelli di Acireale e di Aci Catena, già riconducibili al boss Sebastiano Sciuto, detto “Nuccio Coscia”, recentemente scomparso per cause naturali. Un impulso alle indagini e’ arrivata dalla collaborazione, avviata nel luglio del 2015, da Gaetano Mario Vinciguerra, ex reggente del gruppo di Aci Catena, che ha ricostruito anche un elenco dettagliato delle imprese commerciali costrette, da anni, a pagare il “pizzo”. Scoperte estorsioni, consumate e tentate, nei confronti di otto imprenditori locali, alcune delle quali durate diversi anni, per agevolare il clan. Fatta luce anche sul tentato omicidio di Mario Giuseppe Tornabene, già responsabile del ‘gruppo’ di Giarre, avvenuto a Fiumefreddo di Sicilia il 28 agosto 2007. Secondo due ‘pentiti’ avrebbe “disatteso gli accordi economici intrapresi con il boss Sciuto”. E all’agguato avrebbe partecipato anche il figlio del capomafia, Stefano Sciuto, già detenuto ad Asti per altri reati, con complici ancora da identificare. Tornabene fu raggiunto da tre colpi di pistola all’addome, che, fortunatamente, non avevano seguito, a causa della pronta reazione della vittima, che riusciva a fuggire. Parallelamente carabinieri della compagnia di Acireale indagato su tre soggetti vicini agli stessi ‘gruppi’ indagati per furto, estorsione aggravata, e in particolare nel settore delle auto rubate, attraverso il cosiddetto “cavallo di ritorno”, spacco di droga e detenzione di armi. Complessivamente i carabinieri hanno arrestato 15 persone e notificato il provvedimento cautelare del Gip ad altri tre indagati, già detenuti per altra causa.
A Raffaele ‘Pippo’ Nicotra, la Procura distrettuale di Catania contesta i reati di concorso esterno all’associazione mafiosa, tentata estorsione aggravata e scambio elettorale politico mafioso. Secondo l’accusa, “attraverso l’elargizione di somme di denaro per le elezioni Regionali del 2012, avrebbe determinato esponenti del ‘Gruppo di Aci Catena’ a promettere di procurare voti in occasione delle elezioni per l’Assemblea regionale Siciliana tenutasi in quegli anni, attraverso la forza di intimidazione e la conseguente condizione di assoggettamento ed omertà derivanti dall’appartenenza al gruppo mafioso”.
Nicotra, politico di lungo corso, 62 anni, è stato al vertice del Consorzio di gestione dei beni confiscati alla mafia e di quello etneo per la legalità e lo sviluppo, nonché componente della Commissione Antimafia dell’Ars nel 2008. Imprenditore, è stato sindaco di Acicatena, quattro volte deputato regionale, con una dote media di circa 11 mila voti, impegnato un inarrestabile slalom tra bandiere e sigle: dal Psi all’Mpa di Raffaele Lombardo, virando sull’Udc e approdando nella precedente legislatura tra i supporter della candidatura a governatore di Rosario Crocetta e tra renziani del Pd. Quando era sindaco, nel maggio del ’93, si rifiutò di far coprire i manifesti a lutto per un affiliato, cognato di uno dei colonnelli dei Santapaola e tento’ vanamente di far annullare il divieto ai funerali. Poi corse al cimitero. In seguito fu rimosso e il Comune nel giugno di quell’anno fu sciolto per Mafia. Nel 2009 fu la Dda di Catania ad accusarlo di favoreggiamento aggravato di appartenenti alla Mafia; secondo la procura, l’imprenditore del settore alimentare negò di essere vittima di un’estorsione da parte di Cosa nostra e così avrebbe agevolato il clan Santapaola. Il Gip ha emesso nei suoi confronti un’ordinanza cautelare in carcere. L’ex deputato regionale è stato condotto nell’istituto penitenziario di Bicocca.
Questi i nomi degli arrestati nell’ambito dell’operazione antimafia Aquilia del Comando Provinciale di Catania: ARCIDIACONO Fabio, classe 1984 (tradotto carcere Catania Piazza Lanza) BELLA Fabrizio, classe 1964 (tradotto carcere Caltanissetta) BONFIGLIO Rodolfo, classe 1980, in atto detenuto nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto (ME).
CANNAVÒ Cirino, classe 1972 (tradotto arresti domiciliari) COSENTINO Fabio Vincenzo, classe 1978 (tradotto carcere Agrigento) COSENTINO Gianmaria Tiziano, classe 1981 (tradotto carcere Palermo) FAILLA Danilo Tommaso, classe 1979 (tradotto carcere Caltanissetta) FONTI Salvatore Nunzio, classe 1970 (tradotto carcere Caltanissetta) GRASSO Camillo, classe 1968 (tradotto carcere Caltanissetta) MANCA Antonino Francesco, classe 1978, in atto detenuto nel carcere di Noto (SR) MASSIMINO Mariano, classe 1986, (tradotto carcere Catania Piazza Lanza), NICOLOSI Mario, classe 1966 (tradotto carcere Caltanissetta) NICOTRA Raffaele Giuseppe, classe 1956 (tradotto carcere Catania Bicocca) PAPPALARDO Camillo, classe 1970 (tradotto carcere Palermo) PUGLISI Concetto, classe 1981 (tradotto carcere Agrigento) ROGAZIONE Giuseppe, classe 1974 (tradotto carcere Agrigento) SCALIA Santo Paolo, classe 1974 (tradotto carcere Palermo) SCIUTO Stefano, classe 1982, in atto detenuto nel carcere di Asti.

Cronache della Campania@2018

Uccise la moglie con 46 coltellate a Cava, il Gup: “Siani agì per un raptus di rabbia”

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Cava de’ Tirreni. Fu un raptus di rabbia quello che portò Salvatore Siani ad uccidere la moglie, Nunzia Maiorano, con 46 coltellate. E’ quanto scrive il Gup Gustavo Danise nelle motivazioni della sentenza che ha condannato il barbiere cavese a 30 anni di reclusione per omicidio volontario. La donna, il 22 gennaio scorso, fu trucidata con 46 fendenti davanti al figlioletto di 5 anni. Secondo il giudice l’azione dell’uomo fu “impulsiva, di fronte all’ennesimo atteggiamento sfuggente ed insofferente della moglie. In preda ad un raptus di rabbia ha preso un coltello da cucina ed ha iniziato a colpirla più volte per causarne la morte”. Il giudice esclude anche la premeditazione “Siani deteneva legalmente in casa un’arma da fuoco. Se avesse premeditato l’omicidio, l’avrebbe pianificato in altro modo. Avrebbe utilizzato la pistola o il coltello ma in circostanze diverse”. Il giudice, inoltre, non ha accolto la tesi sostenuta dalla difesa del raptus di gelosia per un messaggio scoperto un mese prima sul cellulare della donna, per il giudice l’omicidio sarebbe maturato nell’ambito della crisi del rapporto coniugale: “Il messaggio ‘ciao gioia’ era neutro ed irrilevante, né compromettente – scrive il Gup nella motivazione -. Che quel messaggio provenisse dall’amante della moglie è una conclusione plausibile, accolta da qualsiasi uomo il cui rapporto coniugale è in crisi. A prescindere da ciò, Siani lesse il messaggio un mese prima. E quando è sorta la discussione, non fu fatto alcun accenno ad un presunto amante. Il motivo del delitto va ricercato nella crisi del rapporto coniugale in sé e negli effetti che ne sarebbero derivati”.
Il rapporto in crisi, il timore di Siani di non vedere più i figli per una possibile separazione, le lagnanze della donna circa il poco tempo che il barbiere trascorreva in famiglia sarebbero stato il mix che portò Siani a uccidere la moglie. Nella motivazione, il giudice ripercorre le tappe di quella crisi coniugale così come emerse dalle indagini. Secondo il Gu, fu proprio Nunzia a cercare di creare le condizioni per un riavvicinamento e cita una riunione familiare del 30 dicembre 2017, durante la quale “la donna si era impegnata a tentare di recuperare il rapporto, per cui l’omicidio compiuto dal marito il 22 gennaio è del tutto sproporzionato ed insensato in relazione alla situazione coniugale sussistente in quel momento”. Alla luce di questi elementi, le dichiarazioni rese dall’uomo dopo l’arresto non erano rispondenti alla realtà. Siani raccontò, infatti, che prima di quel giorno non aveva mai usato violenza contro la moglie e la discussione era nata perchè, pur proponendole una riappacificazione, lei si mostrò infastidita e insofferente e gli chiese di “Lasciare la casa”.

Cronache della Campania@2018

Napoli, confermato l’arresto in carcere per l’assassino del giovane calciatore

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Il gip del Tribunale di Napoli Luca Battinieri, al termine dell’udienza di convalida, ha confermato l’arresto in carcere per Alfredo Galasso, il venditore ambulante di 31 anni reo confesso dell’omicidio di Raffaele Perinelli, il giovane calciatore 21enne ucciso con una coltellata al petto sabato scorso, a Napoli, davanti a un circolo ricreativo di Miano. A Galasso i pm titolari dell’indagine contestano il reato di omicidio volontario, aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti e futili. L’udienza di convalida di Galasso, assistito dall’avvocato Rocco Maria Spina, e’ iniziata alle 9,30 ed e’ durata circa un paio d’ore. Secondo quanto si e’ appreso il 31enne ha risposto a tutte le domande che gli sono state rivolte e confermato la versione resa agli inquirenti la notte tra sabato e domenica scorsi, nella caserma dei carabinieri di Casoria, dove si era costituito accompagnato dal suo legale, qualche ora dopo l’assassinio.

Cronache della Campania@2018

Processo per la strage del bus: malore in aula di una delle sopravvissute

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Lieve malore per una delle parti civili presenti al processo in corso ad Avellino per la strage del bus precipitato il 28 luglio del 2013 dal viadotto “Acqualonga” dell’A16 Napoli-Canosa nella quale morirono 40 persone. Partorina De Felice, sopravvissuta all’incidente nel quale perse il marito, ha avuto un mancamento fin quasi a perdere i sensi. Soccorsa dai carabinieri e’ stata portata fuori dall’aula ed e’ stata visitata dagli operatori del 118. La donna si e’ ripresa e ha rifiutato il trasferimento in ospedale per gli accertamenti del caso. Il malore e’ stato probabilmente determinato dalla folla che gremisce l’aula nell’udienza dedicata alle richieste del procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo, per i 12 imputati di omicidio colposo plurimo e disastro colposo, tra i quali Giovanni Castellucci e Riccardo Mollo, rispettivamente Ad e Dg di Autostrade per l’Italia spa.

Cronache della Campania@2018

Strage del bus: chiesti 10 anni di carcere per tutti i vertici di Autostrade

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L’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia e gli altri 11 dirigenti della societa’ rischiano una condanna a 10 anni di reclusione per i reati omissivi in ordine al mancato controllo e alla mancata manutenzione sulle barriere e per il concorso in omicidio colposo plurimo e disastro colposo. E’ questa la pena richiesta al termine di una lunga requisitoria dal pm Rosario Cantelmo nel processo per la strage del 28 luglio 2013, quando 40 persone morirono a bordo del bus precipitato dal viadotto autostradale Acqualonga dell’A16 Napoli-Canosa. Cantelmo ha sollecitato una sentenza “giusta” per una serie di comportamenti che per i dirigenti Michele Renzi, Nicola Spadavecchia, Paolo Berti, Michele Maietta, Antonio Sorrentino, Giovanni Castellucci, Riccardo Mollo, Giulio Massimo Fornaci, Marco Perna, Gianluca De Franceschi, Gianni Marrone, Bruno Gerardi. “Sciatteria”, “negligenza”, “omissione” sono le parole che ricorrono piu’ frequentemente nella requisitoria del pm, cominciata con una lunga premessa che ha ricostruito i momenti di grande tensione emotiva della notte del 28 luglio 2013. Una descrizione cruda dei corpi dilaniati, del dolore dei parenti, delle sofferenze dei sopravvissuti e degli anni che ne sono seguiti.

Il procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo ha ricordato vicende umane che hanno suscitato grande emozione, prima di concludere con la richiesta di 10 anni per i vertici di Autostrade, accusati di “sciatteria” e “negligenza”. Il magistrato si e’ soffermato in particolare su due storia. Quella di Clorinda Iaccarino, che porta ancora i segni fisici di quella notte in cui perse il marito e le figlie in quell’incidente. “Ho perso tutto, non ho piu’ nulla”, ha ripetuto tre volte il pm citando le parole della donna. E poi la storia di Annalisa Caiazzo, che ha davanti a se’, ogni giorno la testimonianza viva di quel che accadde,con una figlia di appena 5 anni all’epoca operata piu’ volte, “aperta come una scatoletta di tonno” dice Cantelmo, per la quale la madre ogni giorno si chiede “cosa sara’ di lei quando io non ci saro’ piu'”. Alcuni parenti in aula si commuovono, una dei superstiti perde anche i sensi per l’emozione. “Hanno sempre seguito tutte le udienze – ricorda Cantelmo – talvolta con intemperanze che non possono essere giustificate mai, ma forse in fondo comprese. E il dolore di queste persone non si compra”. La requisitoria torna poi sui binari dei tecnicismi, sull’analisi delle perizie, sulla valutazione delle testimonianze tecniche e della mole enorme di documentazione normativa raccolta in due anni di processo e altri 3 di indagini preliminari. Il perno di tutta la tesi accusatoria si fonda sull’insufficienza a reggere l’urto del pullman precipitato dal viadotto Acqualonga dei sistemi di ancoraggio. Su cosa si sarebbe potuto fare e non si e’ fatto per evitare che quella barriera cedesse e precipitasse assieme al bus da 30 metri di altezza. Tirafondi corrosi da una soluzione salina che si deposita in una sorta di sacca che si forma attorno al perno conficcato nel ponte.

Sul quel tratto neve e ghiaccio nei lunghi mesi invernali non mancano mai e la distribuzione del sale e’ sempre costante e abbondante. La pendenza del tratto fa si’ che il sale, tanto corrosivo, si infiltri sotto forma di soluzione, e si depositi fino a corrodere, sfaldare, sbriciolare i tirafondi, che dovrebbero tenere ben saldi i new jersey all’asfalto. Cosi’ non fu per quell’incidente e i tecnici di Autostrade per l’Italia hanno sempre sostenuto che il fenomeno corrosivo era imprevedibile e abnorme, rispetto alle caratteristiche dei tiranti, progettati per durare ben oltre la vita delle barriere stesse. E il pm cerca di smontare questa teoria sostenendo che sia da testimonianze in aula, sia da documentazione di organismi di controllo e’ emerso che il fenomeno corrosivo della bulloneria era ben conosciuto. Tornano quindi le parole “sciatteria”, “negligenza”, “omissione” per definire la politica aziendale di Aspi “che non pensa alla sicurezza, ma risponde alla logica del profitto”, sottolinea Cantelmo. Nella sua lunga requisitoria Cantelmo, che ha chiesto in precedenza la trasmissione di alcuni atti del processo per aprire una nuova inchiesta, attribuisce dunque ai dirigenti di Autostrade una scelta precisa nel non inserire nel piano triennale specifici interventi di manutenzione sulle barriere. “Una scelta fatta in base a un generico criterio temporale. Se Aspi avesse semplicemente aderito al vincolo contrattuale – conclude – senza nessuna richiesta straordinaria, ma solo il compimento delle attivita’ previste in concessione, tutto questo si sarebbe evitato”. Nella prima fase della requisitoria, il pm Cecilia Annecchini aveva chiesto la condanna a 12 anni di reclusione per il principale imputato, Gennaro Lametta, titolare dell’agenzia che noleggio’ il bus precipitato; 9 anni per Antonietta Ceriola, la funzionaria della Motorizzazione civile di Napoli che falsifico’ la revisione del bus, e 6 anni e 6 mesi per Vittorio Saulino, l’ingegnere della Motorizzazione Civile che nei giorni immediatamente successivi all’incidente avrebbe “aggiustato” la documentazione falsa della revisione.

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Cadute in casa risarcite come incidenti stradali: ecco come agiva la gang dell’Agro Vesuviano e Castellammare

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Torre Annunziata. Incidenti domestici fatti passare come investimenti stradali: la banda dei falsi incidenti aveva una vasta gamma di offerte per mettere a segno le truffe ai danni di compagnie assicurative. Sono i retroscena dell’inchiesta che ha portato all’arresto di 14 persone, tra le quali due finanzieri e l’avvocato Ivo Varcaccio Garofalo, già in carcere per corruzione, nei confronti del giudice di pace scafatese Antonio Iannello. E dunque, un braccio rotto per una scivolata in casa, un graffio all’auto parcheggiata nel garage, diventavano una mamma dal cielo per la banda. Certificati medici fasulli, carrozzieri e consulenti tecnici compiacenti e anche giudici di pace accondiscendenti pronti a chiudere un occhio in cambio di soldi: sono gli ingredienti dell’ennesimo raggiro scoperto dalla guardia di finanza di Torre Annunziata. I finanzieri, nel corso delle indagini, hanno individuato una quarantina di truffe, e quantificato rimborsi illeciti per diverse centinaia di migliaia di euro. Il gruppo di truffatori che organizzava i falsi incidenti era capeggiato da Salvatore Verde, già finito in carcere con l’accusa di avere corrotto il giudice di pace Antonio Iannello. Si era organizzato con diversi ‘agenti’ sparsi sul territorio che avevano il compito di procacciare gli ‘affari’. Erano loro che seguivano l’istruttoria per ottenere illecitamente i risarcimenti dalle assicurazioni e a reperire la clientela interessata a compiere la truffa, che metteva a disposizione le loro vetture, perfettamente integre, che venivano portate in tre carrozzerie, a Boscoreale (Napoli) e Scafati (Salerno), dove parafanghi, paraurti, fari e componenti vari ma integri venivano sostituiti con altri danneggiati. La sostituzione veniva eseguita poco prima della perizia. Una vettura è stata trovata già pronta per la sostituzione dei pezzi anche stamattina, durante le perquisizioni in una delle autocarrozzerie. Nel frattempo la compagnia assicurativa veniva informata della località dove la vettura ‘incidentata’ era in sosta. Le località venivano scelte in una zona di competenza di un perito compiacente a cui la compagnia assegnava l’incarico. I ricavi dell’affare prevedevano una ripartizione al 50% tra cliente e il gruppo, mentre al carrozziere venivano corrisposti dai 150 ai 200 euro, a secondo del danno. Se sulla vettura l’assicurazione aveva montato un localizzatore gps, la truffa si concretizzava con l’entrata in scena di testimoni fasulli che potevano raccontare di un incidente mai avvenuto. La banda di truffatori inoltre riusciva anche a farsi rimborsare danni fisici che i ‘clienti’ si erano procurati accidentalmente oppure danni alle vetture provocati per imperizia nella guida.

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Cuoco napoletano assassino e stupratore seriale: è stato incastrato da un video

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Modena. E’ un violentatore seriale il 34enne napoletano accusato dell’omicidio della prostituta rumena trovata bruciata il 30 agosto a San Donnino in provincia di Modena. Raffaele Esposito, 34 anni, di Napoli, cuoco a Savignano sul Panaro dove convive con una donna era già in carcere per un tentato sequestro di persona e violenza sessuale avvenuto il 2 settembre scorso. Ad incastrarlo per quell’episodio un video, diffuso stamane dai carabinieri, nel quale si vede l’uomo aggredire una donna di corporatura esile e di giovane età. Stamane gli è stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare per l’omicidio di Neata Basilica Nicoleta, 31 anni rumena, uccisa a Zocca il 24 agosto e ritrovata carbonizzata a San Donnino. La ragazza fu identificata grazie ad un chiodo endomidollare che le era stato applicato nel corso di un intervento chirurgico. Dopo l’arresto di Esposito a settembre scorso le indagini sull’omicidio di San Donnino hanno preso rapidamente una svolta permettendo ai carabinieri del comando provinciale di Modena di raccogliere prove che incastrano Esposito. Sul luogo del ritrovamento del cadavere della prostituta sono state rinvenute alcune pagine bruciate del libro della figlia della convivente di Esposito. Nel giro di pochi giorni tra fine agosto e inizio settembre ha preso di mira tre donne tutte simili tra loro. “Ha provato a sequestrare una giovane a Savignano sul Panaro – ha detto il comandante del nucleo operativo dei carabinieri Stefano Nencioni -. Ovvio che in posto coì piccolo, se mai la giovane fosse sfuggita al sequestro, lo avrebbe immediatamente identificato. Dunque a lui non sarebbe rimasta altra scelta. Insomma, non possiamo escludere che avrebbe potuto uccidere di nuovo”.
Raffaele Esposito, con piccoli precedenti per furto e con problemi di tossicodipendenza, è originario di Napoli e lavora come cuoco. Le indagini dei carabinieri, coordinate dai magistrati Claudia Natalini e Marco Imperato e il procuratore capo Lucia Musti sono cominciate proprio con il rinvenimento del corpo carbonizzato della 31enne.
Per collegare il delitto all’uomo poi finito in carcere sono stati determinanti i resti bruciati di un libro di scuola e i movimenti della sua auto, controllati attraverso il Gps. Inoltre, il 34enne è accusato anche di violenza sessuale ai danni di una donna di Zocca che conosceva. La 18enne che ha tentato di sequestrare il 2 settembre e che è riuscita a divincolarsi in strada, invece, era una passante e non c’era alcun tipo di conoscenza tra i due. Grazie alle immagini di videosorveglianza di una casa, i carabinieri erano riusciti a risalire alla sua identità e ad arrestarlo, stamane il nuovo arresto notificato in carcere per omicidio, violenza sessuale e vilipendio di cadavere.

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Carlo Aversano, l’ esorcista di Aversa, accusa in aula: ‘Quello che faceva don Barone non era esorcismo’

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Carlo Aversano, l’esorcista di Aversa, è salito ieri sul banco dei testimoni e ha dichiarato che certe pratiche violente non fanno assolutamente parte del manuale dell’esorcista. “Schiaffi, sputi, spintoni, immersioni in vasche piene d’acqua? Pestoni sulla testa? Carezze in parti intime? Utilizzo di collari e diete specifiche?” – le domande poste dal pm Alessandro Di Vico. “No, assolutamente no, nulla di tutto questo” – conferma Aversano che a suo dire, tutto ciò che Michele Barone avrebbe fatto non rientra nei riti canonici del sacramentale dell’esorcismo.
L’aspetto inqueitante di tutta la vicenda è che tutti sapevano della presunta vittima di appena tredici anni, incluso l’esorcista interrogato ieri. Il vescovo Spinillo, il poliziotto Luigi Schettino: entrambi furono informati dalla sorella della vittima circa le condotte violente di Barone. Il prelato non è indagato, il commissario è alla sbarra. E, ha ammesso, Aversano, la sorella della vittima disse anche a lui che era preoccupata e che gli parlò di “omessa assunzione dei farmaci” disse che “don Michele non le faceva prendere i medicinali e mi chiese di intervenire”. L’esorcista incontrò una sola volta la ragazzina, si unirono in preghiera. Lei gli graffiò il viso e gli ruppe gli occhiali, lo dicono alcuni testimoni. Aversano ha riferito di non ricordarlo. “Secondo me non era indemoniata”, ha sentenziato. Ma tanti sono stati i “non so”, i “non ricordo” rispetto alle domande mirate a scandagliare i lunghi anni in cui don Michele Barone avrebbe incontrato e liberato decine di indemoniati nella cappellina di Casapesenna. “Qualcuno ha mai ammonito i fedeli della forania dal frequentare la cappellina di Casapesenna?”, gli hanno chiesto gli avvocati. “Non so, ancora adesso non so cosa accadeva lì dentro e cosa si poteva fare”. 
Nel corso delle indagini è emerso che una ragazzina inizialmente ritenuta indemoniata fu poi udita dai fedeli parlare con la voce della Madonna. In tanti hanno riferito del prodigio. La stessa ragazza, è emerso ieri, fu sottoposta a esorcismo anche da Aversano. “Poi lei e altre preferirono andare via, – ha ricordato Aversano – hanno scelto don Michele e io non potevo far nulla”. Gli avvocati hanno parlato di “competizione tra preti” che avrebbe “compromesso la tutela delle presunte indemoniate-vittime”.

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Torre Annunziata, evasione fiscale: chiesta una condanna minima per Matachione

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Torre Annunziata. Stamattina si è’ tenuta l’udienza conclusiva del processo a carico del dottor Nazario Matachione per evasione fiscale. Dopo circa 18 udienze e una serrata istruttoria dibattimentale, i pm Sergio Raimondi e Silvio Pavia della Procura di Torre Annunziata oggi hanno richiesto una pena di anni 3 di reclusione. Tra l’altro gli stessi pm a fronte di una stima di circa 12 milioni di euro di imponibile evaso contestato originariamente all’ex “re delle farmacie” di Napoli e provincia ha ridimensionato la portata dell’accusa riducendo la somma a 2milioni di euro. In tale ottica le consulenze del perito di parte dottor Andolfo hanno avuto un peso determinante nella rivalutazione degli importi. Durante l’udienza non è’ passata inosservata la dichiarazione spontanea dello stesso Nazario Matachione che ha gridato la sua innocenza e ha detto con forza di essere vittima di una ingiustizia. Chiesta invece l’assoluzione per Di Martino e Coppola , difesi dagli avvocati Morello e Imbimbo. L’arringa dell’avvocato Elio D Aquino, difensore del Matachione, che in circa due ore ha tentato di smontare le accuse, hanno concluso l’udienza di oggi. Tutto rinviato al 24 ottobre per il verdetto.

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Omicidio della piccola Fortuna, le motivazioni della condanna di Caputo, per i giudici ‘E’ inequivocabilmente colpevole’

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“Il complesso probatorio costituito dalle dichiarazioni rese nell’incidente probatorio dalle minori risulta coerente e convergente” e sfocia in modo lineare “nell’inequivocabile colpevolezza” di Raimondo Caputo in relazione agli abusi sessuali e all’omicidio della piccola Fortuna Loffredo. E’ uno dei passaggi chiave delle 17 pagine di motivazioni con le quali i giudici della terza sezione della Corte d’Assise d’Appello di NapoliI (presidente Vincenzo Mastursi) spiegano perche’ hanno confermato la condanna all’ergastolo di Raimondo Caputo per la morte di Chicca, scaraventata giù dall’ottavo piano di uno dei palazzoni del Parco Verde di Caivano il 24 giugno del 2015. Le minori a cui i giudici fanno riferimento sono le figlie della ex compagna di Caputo, Marianna Fabozzi, che seppur tra mille difficolta’ e intoppi iniziali hanno poi consegnato alla magistratura la devastante verità che ha scandito la drammatica infanzia di Chicca ed anche l’infanzia di una delle tre bimbe che hanno poi testimoniato, pure lei vittima di irripetibili abusi sessuali da parte di Caputo. “Io sono andata appresso a loro (Raimondo Caputo e Chicca, ndr) a fare la spia e ho visto che lui la metteva su un terrazzo e la violentava… ho visto che Raimondo la violentava, l’ha stesa e lui si buttava addosso e si muoveva…Chicca dormiva (forse era svenuta, ndr), stava senza mutandina… e poi sono scesa e non ho detto niente a mamma perché c’avevo paura…quando lui mi violentava mi diceva ‘l’ho uccisa io Chicca?'”, é stato uno dei dolorosi passaggi del racconto che la bimba ha affidato ai pm durante l’incidente probatorio. Un racconto che i giudici definiscono caratterizzato da “sincerità e genuinità”, a dispetto delle insinuazioni di inattendibilità pure mosse dai difensori dello stesso Caputo. E invece per la Corte dalle parole di “drammatica pregnanza” pronunciate soprattutto dalla bimba vittima di abusi emerge l’ ‘inequivocabile colpevolezza dell’imputato” e la sua “personale insondabile malvagità”.

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‘Vi devo mettere il fucile in bocca come a quello str…?’, così Lorenzo Puca minacciò un imprenditore che non voleva pagare

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Sant’Antimo. Per i pentiti era il “fidatissimo” di Lorenzo Puca il figlio del boss Pasqualino o’ minorenne e che aveva preso le redini e il controllo del clan con la detenzione del padre. Per l’anagrafe era solo, fino a ieri, Vincenzo D’Aponte, 45 anni, incensurato e apprezzato imprenditore di Sant’Antimo. Ma dall’inchiesta che li ha portati in carcere emerge un quadro sconcertante del comportamento dei due che in pratica avevano messo sotto estorsione tutti quelli che a Sant’Antimo avevano un’attività commerciale e imprenditoriale. Erano diventati un vero incubo. D’Aponte forte delle sue “entrature” nel mondo imprenditoriale contattatva i ” colleghi” e li portava al cospetto del giovane boss Lorenzo Puca. E qui parivano le minacce senza giri di parole soprattutto per chi cercava di perdere tempo oppure spiegare che non aveva la possibilità di pagare la cifra richiesta. “Voi mi date nove appartamenti, altrimenti finisce che vi sparo in bocca. Voi non sapete con chi avete a che fare e chi sono i Puca”. Oppure : “Ma i figli piccoli a casa, li ho soltanto io?O devo fare come quella volta che ha infilato un fucile in bocca ad uno s..o che non voleva fare quello che gli avevo ordinato?”.  Si rivolgeva con questi toni Lorenzo Puca alle sue vittime. Una però ha trovato il coraggio di denunciare e far scattare l’indagine lo scorso anno. I carabinieri sotto il coordinamento della Dda di Napoli, hanno accertato che fino a pochi giorni fa i due continuavano a chiedere il pizzo. I due stamane, nel carcere di Secondigliano dove sono rinchiusi, sono stati sottoposti all’interrogatorio di garanzia rispondendo alle domande dei giudici.

 

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Alla guida ubriaco uccise 2 persone, per giudici Nello Mormile ebbe una ‘condotta sciagurata’

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“Era ben consapevole di dover fare uso dell’auto per accompagnare la fidanzata e ritornare a casa, ne’ ignorava che eccedere nel bere poteva incidere sul suo comportamento, ciononostante non ha esitato ad assumere non meno di 6 birre di elevata gradazione alcolica e 3 cicchetti di bevanda super alcolica. Il suo comportamento riveste livelli di sconsideratezza inimmaginabile”. Si legge nelle motivazioni della terza sezione di Corte d’Assise d’Appello che ha inflitto una condanna di 10 anni per omicidio colposo di Nello Mormile, per essersi messo alla guida ubriaco, il 25 luglio del 2015, aver fatto inversione a U in Tangenziale a Napoli e aver percorso contromano per sei minuti la strada a fari spenti fino allo schianto frontale e alla morte della sua fidanzata Livia Barbato e di Aniello Miranda, alla guida della vettura che arrivava nella giusta direzione. “La sciagurata condotta di guida che ne e’ conseguita ha comportato la morte di due persone e gettato nello sconforto due famiglie, il cui dolore e’ reso ancora piu’ lancinante dell’inaccettabile ed assurda causa dell’immane tragedia. Una qualsiasi benevola considerazione in termini di pena di fronte a un cosi’ elevato livello di colpa sarebbe del tutto ingiustificata, quasi un affronto a coloro che piangono i loro cari”, ha scritto la Corte. La sentenza d’Appello ha derubricato l’omicidio da volontario, per il quale era stato condannato a 20 anni con il rito abbreviato, a colposo per il quale ha invece preso una condanna a 10 anni. “La Suprema Corte ha stabilito che in tutte le situazione probatorie irrisolte bisogna attenersi al principio del favor rei e rinunciare all’imputazione soggettiva piu’ grave a favore di quella colposa”. Nel dubbio, dunque, non si poteva condannarlo per duplice omicidio volontario.

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