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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Ex carabiniere a capo del clan che comandava in Basilicata: 25 arresti. TUTTI I NOMI

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In Basilicata la mafia esiste e opera in particolare nel Metapontino, dove ha creato un clima di “omerta’ e assoggettamento” che – neanche al verificarsi di gravi episodi estorsivi e di intimidazione – permette agli investigatori di ricevere dalle vittime elementi utili alle indagini. E’ quanto e’ emerso da un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza che stamani ha portato all’arresto di 25 persone (12 in carcere e 13 ai domiciliari) componenti di tre clan, uno dei quali caratterizzato da una “mafiosita’ emersa in tutta la sua evidenza”. Si tratta del clan “Schettino”, con base a Scanzano Jonico (Matera), capeggiato proprio da Gerardo Schettino, di 53 anni, un ex carabiniere finito agli arresti per la prima volta nel 2004 e da quel momento figura di spicco della criminalita’ della fascia jonica lucana. Il clan Schettino, l’unico riconosciuto dal gip di Potenza come un’associazione di stampo mafioso, dal 2012, quando si e’ rotta la collaborazione, si contende con il clan dei “Russo”, con base a Tursi in provincia di Matera nella stessa zona jonica, il controllo di estorsioni ai danni di imprenditori (per lo piu’ agricoli) e traffico di droga (soprattutto hascisc e cocaina). E’ da notare che i dissidi tra i due clan hanno portato a diversi tentativi di omicidio. Di spessore criminale inferiore, invece – hanno ricostruito gli investigatori di Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza – gli appartenenti ai “Donadio”, operanti a Montalbano Jonico (Matera) e dediti solo al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, di cui si rifornivano anche dai piu’ “strutturati” Schettino e Russo. Le tre organizzazioni hanno trasformato il Metapontino, al confine con la Calabria da una parte e con la Puglia dall’altra, in una “realta’ criminale di eccezione pericolosita’”, con un “costante collegamento con i sodalizi operanti nelle regioni limitrofe”, in particolare con la ‘ndrangheta, che – secondo la Dda – “riconosce lo status mafioso” agli Schettino e ai Russo. Un elemento basato – hanno accertato le indagini – su vere e proprie cerimonie di affiliazione, disponibilita’ di armi da guerra, “repressione violenta dei dissidi interni” e “assistenza agli affiliati in difficolta’ o detenuti”. Intanto con l’operazione della notte scorsa – a cui hanno partecipato centinaia di uomini delle forze dell’ordine – “e’ stato inferto – ha evidenziato in conferenza stampa il Procuratore distrettuale antimafia di Potenza, Francesco Curcio – un colpo importante: questa e’ una buona giornata per lo Stato che, in una terra non piu’ isola felice, ha dato quelle risposte che in precedenza non era riuscito a fornire ai cittadini”. Il riferimento e’ alle “tensioni” di alcuni anni fa tra la Dda potentina e la Procura materana, evidenziate anche in alcune relazioni annuali della Direzione nazionale antimafia: “Adesso pero’, finalmente, – ha concluso Curcio, a capo della Dda lucana da alcuni mesi – la collaborazione e’ delle migliori: questo e’ solo un punto di partenza”.

Cronache della Campania@2018


Camorra, omicidio dell’innocente Landieri: altri tre ergastoli. Clamorosa assoluzione per il boss Cesarino Pagano

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Il gip del tribunale di Napoli, Giovanna Cervo ha condannato all’ergastolo Giovanni Esposito,  detto o’ muort, Davide Francescone e Ciro Caiazza, detto o’ fraulese ritenuti responsabili dell’omicidio del disabile 25enne Antonio Landieri assassinato a Scampia il 6 novembre del 2004 durante un raid a colpi di mitraglietta Uzi. Per i tre e’ stata disposta anche la revoca della potesta’ genitoriale. Il gip ha anche condannato a 17 anni e 4 mesi di reclusione i pentiti Gennaro Notturno, detto o’ sarracino elemento apicale dell’omonima cosca degli “scissionisti”, e Pasquale Riccio, ex ras della cosca degli Abete-Abbinante-Notturno.
Ma c’è anche una assoluzione di peso per il boss Cesare Pagano, ritenuto il mandante di quell’efferato omicidio perche’ all’epoca era il capo della consorteria criminale staccatasi e divenuta rivale del clan Di Lauro in una ‘guerra’ che porto’ a 84 morti in meno di sei mesi. E proprio sul ruolo del mandante e sulla ricostruzione dei pentiti che l’avvocato Domenico Dello Iacono e’ riuscito a spuntarla. Infatti i due collaboratori sono entrati in contrasto tra loro proprio sul chi avesse dato l’ordine e questo non ha convinto i giudici.
L’omicidio avvenne  durante la prima faida di camorra che sconvolse Napoli tra il clan Di Lauro e le famiglie ‘scissioniste’ degli Amato-Pagano. Dopo un duplice omicidio gli Amato Pagano organizzarono una spedizione punitiva contro il clan Di Lauro: il gruppo di fuoco armato di mitragliette sparo’ all’impazzata nei cosiddetti “Sette Palazzi” del rione. Antonio Landieri, a causa dei suoi problemi di salute, non riusci’ a scappare e venne raggiunto – e ucciso – da due colpi alla schiena. Gli scissionisti si misero in contatto con la famiglia a cui furono offerti 150mila euro di risarcimento. La famiglia, pero’, rifiuto’ i soldi della camorra.

Cronache della Campania@2018

Camorra, il pentito: ‘Carmine Amato a’ vicchiarella ci disse di eliminare Mariano Riccio e tutti i suoi fedelissimi…’. IL RACCONTO

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Lo scontro che ci fu nel 2011 all’interno del clan Amato-Pagano, culminato con la “presa di potere” dei Mugnanesi di Mariano Ricco, genero di Cesare  Pagano ai danni dei Melitesi legati invece alla famiglia Amato, scontro passato attraverso l’eliminazione di Antonino D’Andò ‘o russo, capo piazza a Melito e uomo fidato degli Amato è raccontato dal pentito  Giovanni Illiano, una delle tante voci di dentro che hanno contribuito  all’arresto di sette tra esecutori materiali e mandati dell’omicidio. Il suo verbale del 17 aprile 2013 e contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare emessa trae giorni fa  traccia uno spaccato inedito di quello che fu lo scontro. e spiega di come l’omicidio di D”andò la famiglia Amata avesse deciso du uccidere Mariano Riccio e tutti i suoi fedelissimi: D’Andò Antonino è morto ma non so dove si trovi il cadavere. Dopo che io avevo commesso l’omicidio di Feldi, di cui ho riferito in altri verbali, mi dovevo incontrare con D’andò Antonino e con Teatro Raffaele perchè era stato commissionato a me e a Mirko Romano, un altro omicidio, anche se non sapevo chi era la vittima, dallo stesso D’andò Antonino che ci disse che avremmo dovuto parlare con Teatro nel lotto G. Noi stavamo alloggiati in una casa a Casoria, poi Liguori Attanasio ci spostò, io mi recai nella casa della nonna di mia moglie, a Milano. Dopo tre o quattro giorni scesi al Lotto G e mi recai da Barbato Salvatore, a casa della madre, che era un nostro appoggio. C’erano un sacco di affiliati, tra cui Teatro Raffaele che mi prese in disparte e mi disse: “Non si trova più Tonino ‘o russo intendendo D’Andò Antonino. Dissi “me ne vado a Mugnano e fatemi sapere”. Dopo dieci o quindici giorni venne Teatro Raffaele e mi disse: “Domani vieni con me ma non lo devi dire a nessuno”; io mi preoccupai un po’ e chiamai Sabatino Palumbo e gli raccontai la circostanza, consigliandolo di spostarsi se mi fosse accaduto qualcosa. Quindi Teatro Raffaele mi venne a prendere con la macchina, nel senso che Teatro guidava una Toyota Yaris del tipo vecchio, grigia, ed io dietro con una Toyota Yaaris grigia tipo nuovo. Andammo ad Aversa sostammo davanti ad un bar e mi misi in macchina di Teatro, posando la mia. Teatro disse: “Hai capito dove dobbiamo andare?” ed io: “No” e lui “Andiamo a trovare Carminiello” intendendo Amato Carmine la vecchierella che in quel momento era il capo assoluto del clan essendo latitante. Teatro va fuori l’ospedale di Giugliano e sostammo lì davanti in attesa di Giovanni, il cognato di zio Eliuccio, intendendo Elio Amato: Giovanni venne con una vecchia Panda verde, ci preleva tutti e due e ci porta in giro per disorientarci e per seminare le guardie. Dopo un sacco di giri ci porta in una casa credo dal lato di Quarto o Pozzuoli, o Monteruscello, una villetta; in questa casa c’erano un certo Lelluccio, Marittiello ed un altro. Lelluccio e Marittiello presero me e Teatro e ci condussero da Carmine Amato ‘a vecchierella, ai Camaldoli dove poi ‘a vecchierella venne arrestato. In questo appartamento c’erano Carmine Amato ‘a vecchierella, Daniele D’Agnese, ed uno che controllava le telecamere. Cominciò a parlare Carminiello e disse: “Perchè Mariano (intendendo Mariano Riccio) non è venuto? E Teatro rispose: “Ha mandato a dire che non può venire perchè tiene le guardie con il fiato addosso”; al che Carmine Amato: “Perchè, quello scornacchiato ha il mariolo in corpo per il fatto di ‘o russ intendendo che Mariano aveva fatto uccidere D’Andò Antonino. La cosa non mi sorprese più di tanto, perchè nei giorni precedenti avevo sentito che Biagio Biancolella e Attanasio Liguori, fedeli di Amato Carmine, parlavano male di D’Andò Antonio e quindi mi aspettavo che l’omicidio fosse un fatto interno. Quello che mi sorprese fu che Amato Carmine ‘a vecchierella fosse estraneo e che Mariano Riccio avesse agito senza consultarlo. A quel tavolo si cominciò anche a discutere dell’opportunità di uccidere lo stesso Mariano Riccio e tutti i suoi fedelissimi: tra cui Belgiorno Giosuè il grande ed il piccolo, Marittiello Quattrosoldi, Scognamiglio Ciro Bambulella, Pinuccio Parisi, Andrea Severino, Nappi Vincenzo, Pellecchia Giuseppe, Migliaccio Giacomo. Teatro insisteva di far uccidere per forza Cerrato Carmine Takendò, vicinissimo a Mariano Riccio. Fu deciso di uccidere come primo Nappi Vincenzo ed Amato Carmine affidò a me l’incarico dicendomi che mi sarei dovuto organizzare con Sabatino Palumbo, che mi avrebbe dovuto portare il motorino e Teatro fare da specchiettista. Nappi ‘o pittore si doveva colpire perchè teneva tutto il giro di soldi di Mariano Riccio. Si commentò anche che Mariano Riccio aveva chiesto ad Amato Carmine l’autorizzazione ad uccidere Marino Gaetano, per motivi sconosciuti; che aveva inoltre richiesto un quantitativo di cocaina per le piazze di spaccio. Carmine Amato commentò che Giovanni poteva mandargli una macchina, 100-150 chilogrammi di cocaina e che avrebbe potuto uccidere Marino Gaetano. Per quanto riguarda l’omicidio di Nappi, si prorogò un po’ e poi non se ne fece più nulla. So per certo che Mariano si incontrò con Amato Carmine ed, in un’altra circostanza, con Pagano Cesare,  Baiano Emanuele, a Mugnano…omissis…
Quando poi sono sceso con Teatro dai Camaldoli, l’intesa era che la domenica successiva doveva uccidere Nappi Vincenzo. si rimandò alla domenica successiva. Poi Teatro venne da me e mi disse che Amato Carmine aveva fatto sapere che si doveva aspettare un poco. Poi vi fu un incontro a Mugnano, un venti giorni dopo, io, Carmine Amato ‘a vecchierella, Palumbo Sabatino, Marittiello, Daniele D’Agnese, Linuccio ‘o barbiere, che aveva curato la latitanza della vecchierella, un nostro affiliato, Giovanni cognato di Eliuccio; dovevano venire Cesare Pagano figlio di Enzuccio sce sce e Baiano Emanuele ed anche Mariano Riccio ‘a vecchierella disse a me e Sabatino: “Adesso vengono non vi fare vedere”. Mariano Riccio però non venne. Si misero a parlare da parte e quando finirono la discussione, Amato Carmine venne dove stavamo nascosti, nella casa sullo stesso pianerottolo, nel bagno ed entrarono anche Cesarino e Baiano e la vecchierella disse loro che noi eravamo come di famiglia. Successivamente ci fu un incontro tra Mariano Riccio, Amato Carmine, a cui io non partecipai e le cose si sistemarono. L’intesa era che Mariano doveva mettere in disparte, mentre chi comandava era Carmine. Poi arrestarono Carmine Amato e si disse che Mariano lo avesse fatto arrestare. In seguito Mariano assunse il controllo del clan, mandò a chiamare me e Romano Mirko che stavamo in una casa in via Cicerone ed andammo da lui che era latitante, tutti armati. Ci comunicò che comandava lui, che le cinque famiglie di Secondigliano non avevano dato nulla a loro, a seguito della spaccatura dell’aprile-maggio 2011, e Mugnano quindi era rimasta agli Abete Abbinante”.

 Rosaria Federico

 2. continua

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Cronache della Campania@2018

Torre Annunziata, 53 condanne per il mancato sgombero di Palazzo Fienga, il ‘Fortino dei Gionta’

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Torre Annunziata. Si chiude con 53 condanne, 11 assoluzioni e cinque estinzioni del reato per oblazione, il processo ai proprietari di Palazzo Fienga per il mancato sgombero. L’edificio simbolo nonché base operativa per il Clan Gionta è stato per circa trent’anni il simbolo del potere criminale in città. Il palazzo attualmente è confiscato, è stato affidato al comune di Torre Annunziata che due strade da perseguire: ristrutturarlo o demolirlo per fare spazio ad una piazza. I veri proprietari degli appartamenti non erano i camorristi ma persone normali che avevano abbandonato quell’edificio alla criminalità organizzata, senza chiedere affitto e senza metterci più piede. Per oltre trent’anni l’edificio ha vissuto una condizione di totale degrado. “Erano loro ad aver deciso di non voler fare i lavori” è per la maggiore la tesi difensiva degli imputati. Inizialmente a processo erano finiti in 72, tre degli imputati sono morti, cinque invece hanno pagato per estinguere i reati di omissione di lavori in edifici che minacciano rovina e inosservanza dei provvedimenti delle autorità. Dieci le assoluzioni perché il fatto non sussiste, una persona per non aver commesso il fatto per un totale di undici. Dei 53 imputati, 29 sono stati condannati a sei mesi di reclusione, 24 a quattro mesi di carcere. Tra le varie condanne spiccano alcuni nomi del clan Gionta. Ci sono Giovanni Iapicca «’o rangetiello», Liberato Guarro «balduccio», che è stato definito dall’Antimafia uno degli estorsioni più spietati, Andrea Cirillo «’o sciacallo», Antonino Paduano (fratello di «Ciruzzo a bucatura» e zio di Sasà il baby boss). Ci sono anche la suocera del boss Aldo Gionta, Pasqualina Apuzzo e tante mogli di detenuti che non avevano sgomberato l’edificio in barba alle ordinanze del comune negli ultimi trent’anni.

Cronache della Campania@2018

Incendio sul Monte Solaro a Capri, confessa un 15enne: il giovane è indagato

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Capri. Incendio sul monte Solaro: indagato un 15enne per incendio boschivo. Ha confessato il minore che con un accendino aveva dato fuoco a un cumulo di foglie secche causando l’incendio di circa un ettaro di vegetazione del Monte Solaro, il punto più alto dell’isola di Capri. Per estinguere il rogo del 30 settembre scorso è stato necessario l’intervento di squadre dei Vigili del Fuoco, di 2 elicotteri antincendio, della protezione civile e di volontari. Il giovane, ora individuato dai carabinieri, ha ammesso di averlo fatto senza alcun motivo ma con il suo comportamento ha rovinato uno dei punti più belli e panoramici dell’isola. Subito dopo l’estinzione del fuoco i Carabinieri della Stazione di Anacapri hanno avviato le indagini e individuato il punto di innesco principale. Subito dopo, analizzando le immagini di sistemi di videosorveglianza e ricostruite le presenze in zona delle ultime ore, anche sono riusciti ad accertare che poco prima 7 giovani erano saliti verso la cima per poi ridiscenderne a distanza di tempo con l’aria inequivocabilmente spaventata. I giovani sono stati sentiti tutti con le modalità e le garanzie previste per i minorenni. Il 15enne ha confessato ed ora è indagato del reato di incendio boschivo.

Cronache della Campania@2018

Strage del bus ad Avellino, inchiesta bis sulla sicurezza di Autostrade. Oggi le richieste dei pm

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Avellino. Potrebbe esserci un’inchiesta bis su Autostrade e sulla gestione del sistema di sicurezza: è quanto è emerso stamane nel processo per la strage del bus in corso ad Avellino per la tragedia avvenuta sulla A16 Napoli- Canosa, dove il 28 luglio 2013 un pullman di pellegrini di ritorno da una gita tra Telese Terme e Pietrelcina abbattè le barriere del viadotto Acqualonga, nei pressi di Monteforte Irpino e precipitò da un’altezza di circa 25 metri. Il giudice del tribunale di Avellino Luigi Buono ha accolto la richiesta del pm Rosario Cantelmo di trasmissione di alcuni atti del processo. In particolare, secondo il procuratore della Repubblica di Avellino Cantelmo la perizia disposta dal giudice Buono ed esaminata nella precedente udienza conterrebbe una “notizia di reato”, soprattutto se messa in relazione ad alcuni verbali del consiglio di amministrazione di Autostrade per l’Italia (Aspi) acquisiti durante le indagini e di alcune testimonianze rese durante il processo. Gli atti richiesti da Cantelmo saranno estratti e consegnati alla procura per le indagini, che potrebbero riguardare la progettazione, lo stato e la manutenzione delle barriere new jersey, che nell’incidente di Acqualonga avevano gli elementi di ancoraggio gravemente compromessi dalla ruggine. Oggi si è conclusa l’istruttoria dibattimentale, con le dichiarazioni spontanee di alcuni degli imputati, tutti dirigenti di Aspi. “Per il mio operato sono serenamente convinto di poter affrontare quello che il tribunale deciderà”, conclude le sue dichiarazioni spontanee il direttore Operation and Maintenance di Aspi, Paolo Berti, imputato come ex direttore del tronco dove si verificò l’incidente nel quale persero la vita 40 persone. Berti, imputato assieme all’amministratore delegato Giovanni Castellucci e ad altri 10 dirigenti di Autostrade, riferisce al giudice di aver considerato il tema della manutenzione anche sotto il profilo dell’organizzazione del personale. “C’è la possibilità di assuefazione al ruolo – spiega – e per questo operai un corposo turn over del personale per alternare i ruoli di controllo”. Anche per le verifiche sulle barriere, Berti ricorda che fino al 2012 non ci furono segnalazioni di problemi da parte delle ditte che avrebbero avuto tutto l’interesse a sostituire i new jersey in caso di anomalie. Una tesi sostenuta anche dal responsabile della struttura Barriere e Sicurezza di Aspi Marco Perna, che riferisce come nel solo 2011 sulle tratte di sue competenza furono sostituiti circa mille chilometri di barriere. Intervento di sostituzione che non avvenne per il viadotto Acqualonga, come chiarisce il responsabile della progettazione Massimo Fornaci. “Fu esclusa dalla riqualifica – dice – perchè giudicata di prestazione adeguata”. Alla luce delle nuove dichiarazioni spontanee, i pm Cantelmo e Cecilia Annecchini in giornata formuleranno le richieste solo per gli imputati Gennaro Lametta, proprietario del bus precipitato, e dei funzionari della Motorizzazione Civile di Napoli Antonietta Ceriola e Vittorio Saulino accusati di aver falsificato la revisione del bus Volvo, che non rispettava i requisiti minimi per circolare e trasportare passeggeri.Il procuratore potra’ estrarre gli atti per procedere con una nuova inchiesta, e non sara’ necessario che il tribunale li trasmetta. Cosi’ nel dettaglio quanto disposto dal giudice del tribunale di Avellino rispetto alla richiesta del pm Rosario Cantelmo, per il quale alcuni atti del processo nei confronti dei vertici di Autostrade per l’Italia, due funzionari della Motorizzazione Civile di Napoli e il proprietario del bus precipitato dal viadotto Acqualonga dell’A16 Napoli-Canosa, contengono una notizia di reato. Non saranno quindi trasmessi gli atti, ma il pm potra’ procedere autonomamente. In particolare, la procura di Avellino intende ora verificare se le condizioni delle barriere autostradali riscontrate sul tratto irpino dove si verifico’ l’incidente in cui persero la vita 40 persone e altre 26 rimasero ferite, siano pressoche’ identiche per una carenza di manutenzione. Nella requisitoria appena avviata il pm Cecilia Annecchini, che sta ricostruendo le varie fasi dell’incidente e il grave stato di usura del bus precipitato dal viadotto il 28 luglio 2013, ricorda come uno dei consulenti di Aspi difendesse la scelta di non ispezionare i sistemi di ancoraggio delle barriere, i cosiddetti tirafondi, e di non procedere alla sostituzione poiche’ proprio i tirafondi sarebbero progettati per durare 80 anni. “Li metti e te li scordi”, riferisce il pm per sostenere come possano esserci state valutazioni superficiali proprio nella gestione della manutenzione. Elementi che potranno essere approfonditi in un’inchiesta specifica.

Cronache della Campania@2018

Strage del bus in autostrada: la Procura chiede 27 anni di carcere

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Arrivano le prime richieste di condanna nel processo per la morte delle 40 persone precipitate a bordo di un bus il 28 luglio del 2013 dal viadotto “Acqualonga” dell’A16 Napoli-Canosa. Nell’udienza di oggi presieduta dal giudice monocratico del Tribunale di Avellino, Luigi Buono, il pm Cecilia Annecchini ha chiesto 12 anni di reclusione per Gennaro Lametta, il titolare della “Mondo Travel” e proprietario del bus, che nell’incidente ha perso il fratello Ciro che era alla guida del mezzo; 9 anni per Antonietta Ceriola, dipendente della Motorizzazione Civile di Napoli e 6 anni per Vittorio Saulino, anch’egli dipendente della Motorizzazione. Secondo la Procura, Lametta, accusato di concorso in omicidio, lesioni e disastro colposo, e’ responsabile non soltanto delle pessime condizioni del bus, immatricolato nel 1985 e con 800 mila chilometri percorsi, ma in primo luogo per non aver sottoposto l’automezzo a revisione: se questo fosse avvenuto, ha sostenuto la pubblica accusa, l’automezzo non avrebbe ottenuto l’autorizzazione a circolare. I due funzionari della Motorizzazione Civile sono invece accusati di non aver assolto alle loro funzioni di controllo che avrebbero impedito la circolazione del bus. La differente richiesta di condanna, 9 anni per la Ceriola e 6 per Saulino, si spiega con le attenuanti generiche non concesse alla prima perche’ recidiva. La requisitoria dell’accusa continuera’ con il procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo, nelle udienze fissate il 10 e il 19 di ottobre e il 2 novembre. Nell’udienza fissata per il 16 novembre, cominceranno le arringhe della difesa dei quindici imputati. Richieste che non hanno soddisfatto i parenti delle vittime, presenti in aula, che manifestano il loro dissenso spingendosi addirittura a chiedere “la sedia elettrica. Cosa sono 12 anni? La galera la facciamo noi”, dicono accompagnando all’uscita alcuni degli avvocati difensori. “Mi aspettavo una richiesta simile – dice al contrario il legale di Gennaro Lametta, l’avvocato Sergio Pisani – anche considerando come sono andati processi simili, come il caso Costa Concordia. Sono convinto pero’ che Lametta vada assolto per le ragioni che esporro'”. Nella prossima udienza del 10 ottobre, il pm Rosario Cantelmo passera’ in rassegna le posizioni dei 12 dirigenti di Autostrade per l’Italia, imputati nel processo per una serie di omissioni. E sara’ una requisitoria incentrata essenzialmente sullo stato delle barriere che non impedirono al pullman di precipitare dal viadotto Acqualonga. In particolare sulle condizioni dei sistemi di ancoraggio, dei tirafondi, risultati gravemente compromessi dalla ruggine in alcuni punti. Una situazione, secondo la difesa e secondo anche il perito del tribunale Felice Giuliani, “anomala e quindi imprevedibile evoluzione del fenomeno corrosivo” quella dei tirafondi recuperati dalle barriere, progettati per durare anche oltre i new jersay stessi. Nella requisitoria di oggi, il pm Annecchini definisce quella condizione una “concausa” dell’incidente, dove le gravi condizioni del pullman sono state sicuramente determinanti. A conclusione della requisitoria il pm ha chiesto anche il dissequestro della carcassa del bus e delle barriere che ancora si trovano nella scarpata di Acqualonga.

Cronache della Campania@2018

La Procura di Avellino vuole aprire un’indagine sulla sicurezza delle barriere autostradali

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La procura di Avellino potrebbe aprire un’inchiesta sulla sicurezza delle barriere protettive lungo tutta la rete autostradale italiana. Lo si apprende da fonti giudiziarie. La procura irpina intenderebbe verificare le condizioni di sicurezza garantite in particolare nei tratti autostradali simili a quello in cui si verifico’ l’incidente che causo’ la morte di 40 persone, i passeggeri del bus precipitato il 28 luglio del 2013 dal viadotto “Acqualonga” dell’A16 Napoli-Canosa.  Partendo dall’inchiesta sulle cause della sciagura del bus caduto in una scarpata, che causo’ la morte di 40 persone il 28 luglio 2013 su un viadotto della A16 Napoli-Canosa, la procura di Avellino potrebbe aprire quindi un’indagine a livello nazionale. sulla sicurezza delle barriere protettive lungo la rete autostradale italiana. La notizia nel giorno in cui ha avuto inizio la requisitoria dell’accusa nel processo contro 16 imputati accusati a vario titolo di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e lesioni per la tragedia del bus. Secondo la ricostruzione dei pm, diverse furono le cause all’origine di quel disastro. In primis, le condizioni di vetusta’ del bus, immatricolato nel 1985 e con ben 800mila chilometri percorsi, non sottoposto a regolare revisione. Ma se le barriere autostradali fossero state soggette a un’efficace manutenzione, avrebbero potuto reggere l’impatto senza far precipitare il veicolo nella scarpata: e’ questo, sulla base delle perizie depositate, l’addebito che la procura irpina muove a tredici tra vertici e funzionari di Autostrade per l’Italia, imputati nel processo. Ad ampliare il raggio d’azione della procura di Avellino, guidata da Rosario Cantelmo, potrebbe essere in particolare la perizia del professor Felice Giuliani, docente di ingegneria presso l’universita’ di Parma, incaricato dal Tribunale di esprimersi sulle cause che determinarono l’incidente. In particolare, Giuliani ha messo sotto accusa la scarsa manutenzione delle barriere e dei “tirafondi” (i bulloni che bloccano i “New Jersey” alla sede stradale, ndr) che se non fossero risultati usurati avrebbero “derubricato al rango di grave incidente stradale” quello che ha invece causato la morte di 40 persone. Una analisi contestata in aula dai legali di Autostrade per l’Italia, secondo i quali la perizia “e’ basata su modelli, criteri e tecniche superati”. Oggi, durante l’udienza, Cantelmo ha chiesto l’acquisizione della perizia al fine di valutare la sussistenza di ulteriori ipotesi di reato: un gesto che preluderebbe appunto all’apertura di una piu’ ampia inchiesta a livello nazionale. Intanto il processo per la strage del 2013 prosegue a ritmo spedito: il 10 ottobre riprendera’ la requisitoria dell’accusa, la sentenza del giudice monocratico Luigi Buono dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno.

Cronache della Campania@2018


Giudici di pace corrotti, il racconto del Ctu infedele: “Mio cugino sparò a un uomo che lo aveva denunciato”

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Castellammare. Erano una vera e propria cricca Ctu. Giudici di pace e avvocati, insieme per truffare le compagnie assicurative: da questo è partita l’inchiesta che ha portato all’arresto di tre giudici di pace in servizio al Tribunale di Torre Annunziata. Tra le pieghe dell’inchiesta per corruzione in atti giudiziari ci sono numerosi episodi, oggetto di altre indagini, in corso. Ma anche casi clamorosi avvenuti all’inizio dello scorso anno. A parlarne sono Francesco Afeltra, un consulente tecnico di Castellammare di Stabia, e Antonio Iannello, il giudice di pace di Scafati, che pretendeva soldi per le nomine di Ctu e per aggiustare sentenze di falsi sinistri stradali. In una delle conversazioni video-registrate nello studio dell’avvocato-giudice è emerso anche un episodio che ha fatto molto scalpore, avvenuto a Castellammare il 15 gennaio scorso. E’ Afeltra a raccontare al giudice che suo cugino, Lorenzo Buonocore, soprannominato ‘o nimale, ha ferito Roberto Barbato, perchè dopo aver organizzato un falso sinistro stradale lo aveva denunciato. “Una complicazione” sorta nell’ambito dell’istruzione dell’incidente fasullo. E parlando di un giudice che – secondo i due sarebbe corrotto – Afeltra dice “Chissà se mio cugino, ha la sua pratica in mano? quando si spararono a Castellammare”. Il giudice Iannello non conosce l’episodio e chiede: “Chi sparò?”. E Afeltra spiega: “E’ successo, adesso la settimana scorsa, hanno sparato a questo Barbato per una pratica”. Afeltra spiega che a sparare è stato suo cugino Lorenzo Buonocore per una pratica infortunistica: “Allora è successa questa cosa, glielo feci firmare io il Cid a questo, gli chiesi se sicuramente non avesse la scatoletta Gps e lui mi disse che tranquillamente non ce l’aveva. Il figlio di questo si era preso i documenti dell’auto della zia, io avevo fatto solo il conducente ma il contraente era un altro, pagato e ringraziato… si fa un accertamento e questa la zia scomunica il sinistro, scende e va direttamente dai carabinieri e fa la denuncia. Mio cugino lo venne a sapere e lo chiamò”. Il 15 gennaio scorso, Lorenzo Buonocre, 31enne, figlio di Giovanni ‘a animale’ pregiudicato stabiese dell’Acqua della Madonna si arma e spara a Roberto Barbato, 53enne stabiese, in via Gesù, nel cuore del centro antico. Afeltra spiega cosa ci fu alla base del violento litigio e del tentativo di omicidio – la vittima fu colpita al gluteo – per il quale Buonocore ha patteggiato la pena di quattro anni e mezzo di reclusione nei mesi scorsi, ottenendo gli arresti domiciliari fuori da Castellammare. Dopo il ferimento Buonocore scappò, si consegnò tre giorni dopo alla polizia e fu trasferito in carcere.

 Rosaria Federico

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Cronache della Campania@2018

Il pentito: ‘Mariano Riccio venne a trovarmi e mi disse ‘noi siamo una famiglia ma ho dovuto uccidere tuo zio’. IL RACCONTO

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Mariano Riccio, ex reggente del clan Amato Pagano dopo aver deciso, commissionato, organizzato e definito l’omicidio di Antonio D’Andò o’ russo per dare un segnale alla fazione degli Amato volle andare di persona a dare la notizia ai parenti della vittima di quello che era accaduto. Lo fece perché li considerava “la sua famiglia” Erano i fratelli Caiazza, figli di Ciro o’ fraulese(all’epoca in carcere) armiere e uomo fidato del suocero Cesare Pagano. La vittima aveva sposato Carmela Caiazza, sorella del fraulese e quindi zia dei ragazzi. I tre fratelli Antonio, Michele e Paolo da alcuni anni sono diventati collaboratori di giustizia e il 24 febbraio del 2016 Michele Caiazza ha spiegato agli investigatori nei dettagli l’incontro con Mariano Riccio:

“Si. Voglio dire che è stato Mariano, mandante dell’omicidio a dirmi personalmente di aver deciso la morte di mio zio. Il giorno della scomparsa di mio zio io sono andato a colloqui in carcere da mio padre, poi sono andato a Melito ci siamo incontrati con Mariano al garage di Andrea il chiattone che era il covo preferito di Mariano. Dopo aver mangiato Mariano prese me Giosuè Belgiorno il piccolo, Baiano Emanuele Mario Ferraiuolo e Scognamiglio Ciro a bordo di una C3 yaris nera e siamo andati a casa di Mariano.
In casa c’erano il padre e il fratello Alfonso Riccio. Io vedevo Mariano un po’ agitato, ad un certo punto Mariano mi disse di uscire fuori con lui e ci avviammo lungo la campagna, Mariano mi disse che già dalla mattina voleva parlarmi ma non era stato possibile perché io ero al colloquio in carcere con mio padre. Mariano preciso’ che voleva parlare con me prima dei fatti che erano successi perché noi Caiazza eravamo la sua famiglia, a quel punto mi disse che mio zio D ‘Ando ‘ Antonino era morto. Mariano mi disse di fissare un appuntamento ad Aversa con mio fratello Antonio. Effettivamente il giorno dopo andai a prendere Mariano al garage e andammo ad Aversa da mio fratello che era latitante. Giunti a casa Mariano disse di aver fatto uccidere D ‘Ando’ perché quest’ultimo si era appropriato di soldi della famiglia precisando che di questa questione ne aveva parlato con zio Mimì che era latitante, con Enzuccio Scescè probabilmente utilizzando il figlio Cesare come ambasciatore, nonché con Carmine Amato ma nessuno gli aveva dato soddisfazione perché nessuno di loro lo voleva morto perché era bravo nel suo lavoro ed era parente, quindi Mariano aveva deciso la morte di D ‘Andò per gli interessi di famiglia. In realtà lui ha aspettato che zio 1vlimi andasse in carcere, della debolezza di Amato Carmine latitante ed ha ucciso mio zio, invero Mariano odiava mio zio perché qualche tempo prima mio zio aveva duramente richiamato il padre di Mariano perché durante una estorsione presso un cantiere a Mugnano si era comportalo male.
D’ ‘Andò inoltre aveva raccontato questo episodio a zio Cesare che aveva richiamato Mariano e il padre. Nell’occasione non mi disse chi aveva ucciso mio zio. Ho avuto certezza sugli esecutori materiali, pur avendo già dei sospetti, in quanto Amato Carmine aveva mandato l’imbasciata tramite Gennaro Liguori a noi più vicino alla famiglia Amato come Illiano Giovanni di uccidere il gruppo dei ragazzi di Arzano legati a Mariano Riccio.
Comunque la certezza l’ho avuta in carcere da Baiano Emanuele, detenuti insieme a Secondigliano, il quale ammise di aver sparato lui personalmente a mio zio nel garage di Severino. Baiano mi disse che all’omicidio avevano partecipato, Giosué Belgiomo il piccolo precisando che Baiano spara il primo colpo quando mio zio scendeva dall’autovettura, anzi preciso Baiano disse di aver sparato due-tre colpi e difronte alla ripetuta domanda di mio zio ”perché?” Perché?” gli si avvicinò Belgiorno il piccolo che gli sparò altri tre-quattro colpi. In quel breve lasso di tempo mio zio aveva anche tentato una disperata fuga ma l’autovettura era a folle e quindi non si mosse. Come dettomi da Baiano mio zio il giorno dell’omicidio era al lotto G, e Pinuccio Parisi lo andò a chiamare dicendogli che Mariano gli doveva parlare al garage di Melito ossia al garage di Severino il chiattone. Baiano non mi ha detto se Pinuccio sapesse o meno dell’omicidio. Giunto sul posto nel garage oltre ai due esecutori materiali come detto dal Baiano c’era Scognamiglio Ciro e Ferraiuolo Mario ben consapevoli che si doveva uccidere mio zio e per quanto io sappia perché dettomi da Baiano loro due sono andasti a buttare il corpo di mio zio con l’aiuto di Peppe Riccio.
Baiano quando ha parlato con me al carcere di Secondigliano era molto spaventato dal!’idea che Ferraiuolo e Scognamiglio potessero parlare…”.

Renato Pagano

3.continua

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Estorsioni agli imprenditori del Vallo di Lauro: chieste le condanne per il clan Graziano

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Estorsioni per lavori nel Vallo di Lauro, chieste le condanne per il clan Graziano. Nella giornata di ieri il pubblico ministero della Dda ha chiesto cinque anni di reclusione ed una multa di 5mila euro per Felice Graziano, oltre all’assoluzione per un episodio estorsivo ed ha chiesto inoltre la concessione delle attenuanti per la collaborazione con la giustizia. Chiesti 7 anni di carcere e 7mila euro di multa per Fiore Graziano, Salvatore Graziano e per Ferdinando Damato. Per il cugino del boss pentito, anche lui Felice Graziano, sono stati chiesti 10 anni di reclusione e 9mila euro di multa. Per Giovanni Scibelli, al quale è stata contestata anche la recidiva, sono stati chiesti 9 anni di reclusione e 9 mila di multa. Sono tutti accusati di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Per il 30 novembre è fissata la prossima udienza, la difesa dovrà cercare di smontare l’impianto accusatorio degli inquirenti.

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Castellammare, definitiva la condanna a 9 anni per il dottore Emanuele Spera: ubriaco e con la patente sospesa causò la morte di un 24enne

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Castellammare. Stanno per aprirsi di nuovo le porte del carcere per il dottor Emanuele Spera, figlio del noto medico stabiese Catello, che è stato condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione a nove anni e quattro mesi di reclusione, interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e interdizione dagli uffici legali per la durata della pena, per aver cagionato con la sua condotta un grave incidente stradale, in cui morì un giovane di 24 anni e altri due rimasero feriti di cui uno in maniera grave. Spera aveva la patente sospesa e guidava in stato di ebbrezza. L’incidente si verificò  lungo il raccordo autostradale di Castellammare la notte del 20 marzo del 2011. La Toyota RAV4 guidata da Spera piombò sulla corsia opposta scontrandosi frontalmente con una Fiat 500 al cui interno vi erano tre amici napoletani di ritorno da una serata trascorsa in una discoteca di Sorrento. nello scontro morì sul colpo il giovanissimo avvocato, il 24enne Andrea Chiappetta, figlio del giudice Stefano Chiappetta. Al ragazzo prematuramente scomparso venne intitolata anche un’aula del Tribunale di Torre Annunziata, dove si stava formando e dove il padre lavorava. Un altro giovane avvocato, Claudio Mazza, rimase gravemente ferito e ha lottato tra la vita e la morte per alcuni mesi prima di riprendersi. Rimase miracolosamente illeso il guidatore della Fiat 500. Spera fu arrestato e poi posto ai domiciliari. E’ stato condannato nei due gradi di giudizio e ora la pena è diventata definitiva. Particolare curioso: Spera di recente ha vinto una causa al Tribunale di torre Annunziata contro l’assicurazione Axa che era stata costretta a risarcire per oltre un milione di euro la famiglia Chiappetta per la morte del giovane. Ebbene l’assicurazione aveva intentato una procedimento contro Spera per rivalersi visto che guidava in stato di ebbrezza e con la patente sospesa.  Spera però nel frattempo si era spogliato di tutti i suoi beni e il patrimonio immobiliare è finito nelle mani di Antonio Somma, famoso per essere il patron della Bivans, la maggiore scuderia italiana di cavalli da trotto ex presidente della società che gestisce l’ippodromo di Agnano e noto broker stabiese, condannato di recente a un anno di carcere (pena sospesa) per appropriazione indebita nei confronti della Trust Risk Group Italia, distributore  dei prodotti assicurativi dell’azienda statunitense AmGroup.

 

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Castellammare, traffico internazionale di droga: 15 anni di carcere per il naturopata Sebastiano Lauritano

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Castellammare. Una mazzata incredibile per il naturopata stabiese Sebastiano Lauritano di 52 anni. E’ stato condannato a 15 anni di carcere per traffico internazionale di droga. Il professionista appartenente  a una nota famiglia di medici e professionisti con diramazioni familiari anche a Gragnano era stato arrestato nel febbraio dello scorso anno dalla Guardia di Finanza.I militari, nel corso di un normale controllo lo avevano fermato ai caselli di Napoli. Lauritano era a bordo della sua Audi A6. Insospettiti dal nervosismo dell’uomo durante il controllo di routine, ed ancor di più dal forte odore che veniva fuori dal bagagliaio dell’auto. I cani avevano iniziato ad abbaiare, e avevano ragione perché nel cofano della suo nuovissima Audi A6 aveva un carico di oltre 50 chili tra hashish e amnesia, l’erba ‘caricata’ con l’eroina che ha effetti devastanti. Il carico di droga, che sul mercato avrebbe fruttato oltre 1 milione di euro, era stipato dietro al cofano in bustoni di plastica. L’uomo non si era neanche preoccupato di nasconderla, convinto do farla franca. Da anni si era trasferito a Castel Volturno. Personaggio eclettico, Lauritano sul suo profilo facebook si vantava di essere amico e di essere coordinatore della segreteria di un diplomatico presso l’Onu, ovvero il salernitano “Sua Eccellenza” Antonio Toriello, altro personaggio discusso, capace di inventarsi tutti i mestieri da cantante e showman in tv, a prete francescano, a buddista, a giornalista-criminologo, a gestore di bar e poi ambasciatore presso la Missione permanente della repubblica di Sao Tomè e Principe.

 

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Traffico di droga a Cava de’ Tirreni, la Dia sequestra altre due società a Di Marino

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Cava de Tirreni. Sequestro bis per Antonio Di Marino, l’imprenditore arrestato il 13 settembre scorso, nell’ambito di un’indagine della Dda di Salerno. Stamane gli uomini della sezione operativa della Dia di Salerno, coordinati dal colonnello Giulio Pini, hanno eseguito un nuovo decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Salerno. Nello specifico sono state messe sotto sequestro due società che operano nel settore della panificazione “Fresco Pane S.r.l.” e “Italy Food S.r.l.”, con oggetto sociale la produzione di pane e prodotti da forno, con sede legale e operativa a Cava de’ Tirreni, per un valore di circa un milione di euro. Nei confronti di Di Marino era stato emesso, il 27 settembre scorso, un altro decreto di sequestro preventivo che aveva consentito di bloccare gran parte del patrimonio dell’imprenditore cavese. Nel corso delle indagini è emerso che Marino aveva accumulato un patrimonio sproporzionato rispetto ai redditi denunciati con la sua attività lavorativa. Antonio Di Marino è tra i 14 indagati destinatari di una misura cautelare per associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione e usura, e associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, insieme a Dante Zullo, ritenuto il capo dell’organizzazione criminale cavese.

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Rissa allo stadio Arechi di Salerno: daspo per undici tifosi del Palermo

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Salerno. Tifo violento: undici tifosi del Palermo destinatario del divieto di partecipazione a manifestazioni sportive. Il Questore di Salerno ha emesso i provvedimenti di Daspo, a carico di 11 tifosi del Palermo, denunciati lo scorso 24 novembre dalla Digos in occasione della partita Salernitana-Palermo di serie B del 25 agosto, per una rissa tra i gruppi ultras della squadra rosanero “Curva Nord 12” e “Borgo Vecchio Sisma” all’interno del settore curva nord dello stadio “Arechi” di Salerno. In particolare, 4 provvedimenti sono stati predisposti dalla Divisione Polizia Anticrimine con prescrizioni per la durata di anni cinque, in quanto i destinatari erano stati già in passato colpiti da analogo provvedimento di Daspo; 2 provvedimenti per la durata di anni tre; ed altri 5 provvedimenti per la durata di anni due. I tifosi palermitani erano stati individuati grazie alle videoregistrazioni della partita.

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Morto il boss Luigi Venosa o’ cocchiere: archiviato il processo per la strage dei Martino

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Stamane la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha inoltrato al G.I.P. richiesta di archiviazione – per estinzione del reato determinata dalla morte del reo – in relazione all’angosciante vicenda criminale ricordata come la cosiddetta “strage della, famìglia Martino”. Trattasi di un quadruplice omicidio commesso nel 1982 e sostanziatosi in una vera e propria “strage dì sangue”, in quanto, la mattina del 7 settembre del 1982, Martino Gìoacchino – un agricoltore di San Cipriano d’Aversa – si era recato sul suo appezzamento di terreno in compagnia della moglie FALCO Angelina e del figlio primogenito MARTINO Francesco Saverìo. Inoltre, essendo il mese di settembre dedicato alla raccolta delle noci, ad aiutare il MARTINO e i suoi familiari, si erano recati sul fondo anche due braccianti agricoli: CLAUSINO Armando e NOBIS Giacomo. Per motivi futili, tutte le sopra indicate persone – ad eccezione dell’unico superstite NOBIS Giacomo – sono state brutalmente assassinate, con numerosi colpi d’arnia da fuoco, da VENOSA Luigi detto “o’ cocchiere”, noto esponente di spicco del “clan dei Casalesi”. A tali irrefutabili conclusioni hanno condotto le indagini dirette dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e affidate al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Caserta. Le attività investigative hanno preso le mosse dall’esigenza di colmare la lacuna investigativa determinate dal mancato approfondimento di una serie di notizie di reato scaturenti dalle dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustìzia e relative a una serie di omicidi risalenti ai primi anni ’80. Gli inquirenti hanno ricostruito gli accadimenti del 7 settembre del 1982 provvedendo a interrogare, ex novo, vecchi e nuovi collaboratori di giustizia e trovando numerosi riscontri alle dichiarazioni degli stessi. Espletate le sopra descritte attività investigative, essendo emerso in modo nitido un quadro indiziario grave in relazione all’indagato VENOSA Luigi detto “o’ cocchiere” – il quale, per motivi futili e con premeditazione ha posto in essere una vera e propria “carneficina”, – in data 27 giugno 2017 è stata inoltrata al gip richiesta di applicazione, nei suoi riguardi, della misura cautelare della custodia in carcere. Tuttavia, nelle more, il 7 agosto 2018, Luigi Venosa è deceduto, ragione per la quale si è proceduto alla revoca della richiesta cautelare e alla proposizione della richiesta di archiviazione.

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Scontri nel match Portici-Castrovillari, daspo di 3 anni per due tifosi napoletani

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Portici. Aggredirono l’equipaggio di una volante della polizia nel tentativo di avvicinarsi ai tifosi del Castrovillari: sono stati identificati e avranno il divieto di partecipazione ad eventi sportivi per tre anni. I poliziotti hanno eseguito stamane il provvedimento di daspo per la durata di 3 anni, nei confronti di due giovani fratelli, un 23enne e un 24enne, entrambi con precedenti di polizia.
I fratelli durante l’incontro di calcio tra la squadra di casa del Portici e quella degli ospiti del Castrovillari si resero responsabili, a settembre, dei reati di danneggiamento, violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.
Entrambi a volto scoperto e muniti di mazze da baseball nel tentativo di avvicinarsi alla tifoseria ospite, aggredirono l’equipaggio di una volante.

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Camorra a Pianura, il boss Mele e i fedelissimi inchiodati dai filmati e dalla pistola di Morra

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Napoli. Ci sono le telecamere di video sorveglianza di uno studio assicurativo di Pianura che inchiodano Vincenzo Morra, 32 anni detto Pallina e ritenuto uno degli esattori del racket per conto del boss, Vincenzo Mele, detto Enzo e’ Giulietta, e con lui il boss stesso e l’altro complice, Fabio Orefice detto o’ leone. I tre in carcere dalla scorsa settimana con l’accusa di associazione camorristica ed estorsione interrogati dal gip hanno preferito avvalersi della facoltà di non rispondere e giocarsi tutto davanti al Riesame. E’ stato l’assicuratore coraggioso a denunciarli e poi a consegnare alla polizia i filmati dai quali  si nota come Morra arrivi in agenzia e mentre si siede fa un gesto con la mano per bloccare la pistola che portava dietro e che rischiava di cadere. Gli aveva chiesto “un regalo per i carcerati” di 500 euro a Pasqua, Natale e Ferragosto per il suo capo così aveva detto e che a lui non si poteva dire di non perché poi sarebbe stato costretto a “ripassare”. Ma la vicenda estorsiva nei confronti dell’assicuratore si completava quando a casa di Salvatore Polverino, noto pregiudicato della zona detto Puparuolo e della moglie Nunzia Fiore (entrambi indagati a piede libero in questa inchiesta) il boss e lo stesso Polverino facevano richieste estorsive pesanti ai dipendenti dell’assicuratore. Il boss infatti aveva detto loro: ‘… non date retta ne a …omissis… ne a …omissis.. ma parlate direttamente con ‘il Chiatto’ quello ci deve dare 10mila euro, altrimenti lo spariamo come abbiamo fato con Daniele” E Polverino di rimando incalzando il boss Enzo Mele replica: ‘devi chiedergli 50mila euro e non diecimila”. Poche ore dopo il pomeriggio del 24 luglio scorso l’assicuratore senza perdersi d’animo va dalla polizia e denuncia il fatto, consegna i filmati  e dopo tre mesi il boss e suoi due affiliati sono stati arrestati.

 

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Napoli, il pentito: ‘Noi Sarno grazie ai Casella avemmo una tangente di 20mila euro dalla ditta che stava costruendo l’Ospedale del Mare”

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Napoli. Era potente il clan Casella a Ponticelli e non solo. Per capire il gradi di influenza non solo nel mondo criminale ma anche nella sfera pubblica il gip Egle Pilla che oggi su richiesta della Dda di Napoli ha firmato un’ordinanza di custodia cautelare di 168 pagine nei confronti di 14 tra boss e gregari della cosca familiare  ha inserito anche le dichiarazioni del pentito Vincenzo Sarno. E’ uno dei 15 collaboratori di giustizia tra cui il fratello Ciro, il famigerato “sindaco di Ponticelli”che hanno contribuito a smantellare la cosca, nata dal pentimento dei componenti del potente clan Sarno.  Il 12 marzo del 2010 Vincenzo Sarno aveva parlato dei Casella indicando di come i Sarno grazie al loro intervento avevano ottenuto una tangente di 20 mila euro per quello che all’ epoca era il costruendo Ospedale del Mare inaugurato da alcuni mesi. “Nel settembre del 2008,-aveva raccontato Sarno alla Dda: “Quando sono stato scarcerato, la grossa opera dell’ospedale del Mare già era stata avviata da un po’ di tempo. In quel periodo , Eduardo Casella, figlio di Salvatore “pachialone “, mi fece incontrare un ingegnere della zona di Ponticelli-Volla, il cui cugino stava per avviare dei lavori a Ponticelli, nella zona di via De Meis, nei pressi della villa pubblica, per realizzare delle palazzine. L’ingegnere mi disse che il cugino intendeva incontrarmi per chiudere con me i discorsi estorsivi prima dell’avvio dei lavori. Organizzammo l’incontro di cui poi parlerò. Nel discorso avuto con l’ingegnere, chiesi a costui se conoscesse qualche ditta che si stava occupando di qualche lavoro presso l’ospedale del Mare, ma egli mi rispose di no. Quando andò via, Eduardo Casella mi disse che quella informazione me l’avrebbe potuto fornire OMISSIS. Fu così che mi incontrai con OMISSIS il quale mi disse che l’imprenditore per cui lavorava già aveva “chiuso” con mio fratello Luciano, intendendo che a quest’ultimo già era stata corrisposta la dovuta somma estorsiva. Mi aggiunse peraltro OMISSIS che l’impresa per cui lavorava a breve avrebbe cominciato lavori per un nuovo lotto. Fu così che chiesi al CASELLA e allo stesso OMISSIS di rappresentare al titolare del! ‘impresa che egli avrebbe dovuto versare 20 mila euro. Cose che effettivamente ha fatto. Il denaro mi venne recapitato da Eduardo CASELLA. Sempre quest’ultimo mi consegnò, su mia specifica richiesta, un elenco di ditte che erano impegnate nei lavori presso quel cantiere …. OMISSIS”. Sulla vicenda e sugli omissis c’è un’inchiesta della Dda che sta cercando ulteriori riscontri alle dichiarazioni dei pentiti.

 Rosaria Federico

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Camorra, i Casella volevano solo punire il pusher Cardicelli ma lo uccisero. Le dichiarazioni dei pentiti. I NOMI DEGLI ARRESTATI

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Napoli. Doveva essere soltanto punito e invece una delle pallottole gli perforo’ lo stomaco. Mori’ poche ore dopo, la sera del 9 gennaio del 2017, a Ponticelli, zona orientale di Napoli. Ma della morte di Gianluca Cardicelli, pusher di via Franciosa al servizio del clan Casella, non si e’ mai saputo nulla dai media. C’era invece una inchiesta sotterranea condotta dai carabinieri che stava ricostruendo passaggio dopo passaggio la struttura del gruppo che aveva mantenuto la sua autonomia in una zona che da una parte era dominata dai De Micco e dall’altra dai D’Amico, tra loro rivali. Dopo la morte di Cardicelli, la cosca alla quale lo stesso apparteneva era intimorita. Il motivo? Quel pusher non doveva morire, ma solo essere ferito, e soprattutto perche’ due giorni dopo l’agguato si era pentito Rocco Capasso, uomo del clan De Micco e  che conosceva molto dei Casella. I carabinieri hanno disarticolato la cosca portando in carcere 14 persone tra i quali i fratelli Giuseppe, Eduardo e Vincenzo Casella i quali erano al comando del gruppo che vendeva cocaina, hashish e marijuana nelle case popolari del rione De Gasperi. Una delle ‘piazze’ era gestita da Cardicelli che pero’, cosi’ come racconta Capasso in un verbale del 5 giugno del 2017, poche settimane dopo l’agguato, faceva uso di droga e aveva debiti. “So che dovevano dargli due botte (ferirlo a colpi di pistola, ndr) ma poi ci e’ rimasto”, ha detto ai pm della Dda. “Sono stati stesso i Casella”. Ascoltando le intercettazioni telefoniche e ambientali nelle case dei boss e’ emerso anche il ruolo di una donna, al vertice del gruppo. Si tratta di Annamaria Milzi,  moglie di Giuseppe Casella, anche lei arrestata dai carabinieri, la quale aveva non solo il compito di raggruppare i soldi della cosca e distribuirli agli affiliati e alle famiglie dei detenuti, ma anche di controllare il sistema di telecamere che erano state sistemate tutte attorno alle case dei capiclan e delle ‘piazze’. All’inchiesta hanno contributo un quindicina di pentiti tra cui tutti i fratelli Sarno con Ciro “Il sindaco” in prima fila e tra gli altri anche Luigi Casella, cugino dei boss che gestivano la piazza di spaccio a Ponticelli

Questo il racconto del pentito Rocco Galasso al magistrato il5 giugno del 2017

PM: ma di quest’ultimo omicidio che è avvenuto a Gennaio di Cardicelli Gianluca lei sa qualcosa? IND: non è stata una cosa dei De Micco è una cosa interna di via Ulisse Prota Giurleo
PM: cioè chi era questo Cardicelli?
IND:Cardicelli era una ragazzo che all’epoca era andato fuori, se ne era andato fuori, poi è tornato e si riempiva di crack
PM: ma lavorava con qualcuno?
IND: lavorava con questi qua di via Ulisse con I Casella
PM: e chi sono, ah con I Casella
IND: con i Casella, per come ho sentito lui si riempiva di crack e non è che lo volevano ammazzare solo un avvertimento e quella botta gli è costata cara
PM: queste sono solo cose che lei ha sentito
IND: ho sentito si
PM: da chi le ha sentile?
IND: le ho sentite la dietro andando a trovare qualcuno così
PM: la dietro parlando con i Casella
IND: no direttamente dai Casella no
PM·eh
IND: però ho sentito la dietro
PM: da chi lo ha sentito, dalla gente in mezzo alla strada o da qualcuno che fa parie di qualche organizzazione?
IND: l’ho sentito da Peppe o Blob, che fa parie
PM: da Peppe o Blob
IND: si
PM: ha sentilo dire che erano stati loro a dare un avvertimento
IND: si, da lui perchè camminava sempre tutto fatto, tutte queste cose qua
PM: e chi glielo avrebbe dovuto fare questo avvertimento Peppe o Blob in che rapporti era con Cardicelli
IND: ma erano di amicizia come fratelli stavano sempre era un gruppo
PM: Peppe o Blob stava con I Casella in quel periodo?
IND: si
PM: e quando come gliele ha dette queste cose, quando
IND: siamo andati andati a trovarlo così perché avevamo amicizie in comune con i cani
PM:eh
IND: perchè lui mi mandava a chiamare sempre quando succedeva stupidaggini la dietro, tipo si rubavano lo stereo, allora lui per dare dimostrazione come ultimamente a quello la che si era rubato lo stereo fuori al garage del papà di Luigi De Micco, steghetè come si chiamava sempre tossico e la PM: quindi la mandarono a chiamare e poi vi siete incontrali e Peppe o Blob le ha raccontato quello che era successo a Cardicelli
IND: avete detto questo qua stava camminando ancora male
PM:eh
IND: una botta la non voluta
PM: gli ha deuo chi ha sparato?
IND: no, chi ha sparato no
PM: però le ha detto che erano stati loro
IND: tutti dicono che erano stati loro
PM: non mi interessa tutti, Peppe o Blob cosa le ha dello?
IND: che la mano veniva dai Casella
P M: veniva dai Casella, allora lei hf! parlato di una serie di omicidi no prima
IND: si

I 13 INDAGATI PER I QUALI E’ STATO CHIESTO L’ARRESTO

1. CASELLA Giuseppe, nato a Napoli il 25/09/1978
2. CASELLA Eduardo, nato a Napoli il 10/05/1984
3. CASELLA Vincenzo, nato a Napoli il 11/09/1996
4. MILZI Annamaria, nata a Napoli il 12/04/1984
5. RIGHETTO Giuseppe, nato a Napoli il 14/02/1985
6. AULISIO Luigi, nato a Cercola (NA) il giorno 02/11/1970
7. MILZI Giuseppe, nato a Massa di Somma (NA) il 24.11.1992,
8. BORRELLI Enrico, nato a Napoli il 25/01/1977
9. ERRICO Pasquale, nato a Napoli il 07/04/1991
10. DE LUCA Alfonso, nato a Napoli i103/05/1954
11. DEL GATTO Raffaele, nato a Napoli il 20/12/1976
12. AUSTERO Ida, nata a Napoli il 03/10/1960
13. DE STEFANO salvatore nato a Napoli il 02/09/1976

ARRESTI DOMICILIARI

AUSTERO Antonio nato a Napoli il 22/03/1935

 

Rosaria Federico

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