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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Furti di pannelli fotovoltaici, 28 arresti tra il nord Italia, Napoli e Salerno

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Smontavano migliaia di pannelli solari in poche ore, durante la notte, in impianti fotovoltaici allestiti in zone isolate e poco illuminate delle province di Udine e Pordenone. Li caricavano su furgoni e dai porti italiani attraverso scali in Francia e Spagna, li portavano in Marocco. Agiva cosi’ la banda di 28 cittadini marocchini, residenti in varie localita’ italiane, sgominata dai Carabinieri della Compagnia di Latisana al termine di una vasta operazione investigativa denominata “Solis”, conclusa con l’arresto di 15 persone e la denuncia in stato di liberta’ di altri 13 connazionali. In sei furti, compiuti tra il 13 febbraio e il 17 marzo 2017, la banda era riuscita ad asportare circa 2.200 pannelli fotovoltaici per un danno di circa 1 milione di euro, tra valore dei pannelli (600 mila euro) e danni strutturali arrecati agli impianti (400 mila euro). I carabinieri hanno arrestato cinque stranieri in flagranza di reato il 17 marzo mentre rubavano 800 pannelli gia’ smontati a Bagnaria Arsa (Udine). Altri 10 sono stati fermati nei giorni scorsi in esecuzione di misure cautelari (sei in carcere e quattro ai domiciliari) emesse dal gip del tribunale di Udine ed eseguite nelle province di Forli’-Cesena, Savona, Modena, Monza-Brianza, Verona, Mantova, Perugia, Salerno, Napoli e Potenza.

Cronache della Campania@2018


Affiliato al clan Longobardi-Beneduce di Pozzuoli finisce in cella: deve scontare 6 anni

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Pozzuoli. Deve scontare oltre sei anni di carcere per associazione per delinquere, estorsione e usura: torna in cella A.D.S., 64 anni, ritenuto vicino al clan napoletano Longobardi-Beneduce. I Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile di Pozzuoli hanno arrestato il 64enne, raggiunto da un ordine di carcerazione emesso dalla Procura Generale di Napoli, dovrà espiare la pena residua di 6 anni e 2 mesi di reclusione per associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione, reati aggravati da finalità del clan ”Longobardi-Beneduce” commessi a Pozzuoli tra il 2011 e il 2013. L’uomo si trova ora nel Centro Penitenziario di Secondigliano.

Cronache della Campania@2018

Pozzuoli, finisce in carcere usuraio del clan Longobardi-Beneduce

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Arriva dopo quattro anni la vittoria finale in Cassazione per un’infermiera che aveva trovato il coraggio di mettersi contro il potente clan Longobardi-Beneduce, denunciando la banda di usurai che la teneva in pugno per un prestito. I carabinieri della Compagnia di Pozzuoli, nella giornata di ieri, hanno arrestato Antonio De Simone, 64enne ritenuto affiliato al clan e, secondo le accuse, uno dei componenti della banda guidata da “Lady Usura”. Dovrà scontare una pena residua di 6 anni e 2 mesi per associazione a delinquere finalizzata all’usura e al racket. Reati aggravati dalla finalità mafiosa. La Suprema Corte ha ribadito le condanne inflitte due anni fa in Appello alla banda con pene complessive a 60 anni di carcere per 7 imputati, dopo un’accurata indagine condotta dai carabinieri di Pozzuoli. Un sistema di sopraffazione in cui le persone deboli ed indifese da un punto di vista sociale ed economico erano destinate a cedere per alimentare gli introiti da usura. Questo scenario “raccontato” in maniera cruda dalle intercettazioni. «E’ l’ennesima vicenda – dicono gli avvocati Motta, Nello e il responsabile di SoS impresa – di usura del clan Longobardi-Beneduce dice l’avvocato Motta approfittavano dello stato di estremo bisogno economico delle vittime, lucrando anche sul loro precario stato di salute».

Cronache della Campania@2018

Torre Annunziata, crollo a Rampa Nunziante: il 2 luglio in 15 davanti al gup

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Torre Annunziata. E’ stata fissata per il 2 luglio prossimo l’udienza preliminare davanti al Gup del tribunale di Torre Annunziata, che dovrà decidere sugli eventuali rinvii a giudizio degli indagati per il crollo dell’edifico alla rampa Nunziante del 7 luglio 2017 in cui morirono sotto le macerie otto persone. Per la Procura la causa del crollo del palazzo sono stati i lavori di manutenzione straordinaria eseguiti al secondo piano dell’edificio, i quali attraverso la demolizione di tramezzi divi-sori, causarono il collasso dell’intero fabbricato.  Nella tragedia morirono Giacomo Cuccurullo, la moglie Edy Laiola e il figlio Marco; Pasquale Guida, la moglie Anna Duraccio, e i figli Franesca e Salvatore; la signora Giuseppina Aprea. La chiusura delle indagini è stata notificata a quindici indagati: Gerardo Velotto, proprietario dell’appartamento in ristrutturazione; Massimiliano Bonzani, responsabile dei cantieri; l’operaio Pasquale Cosenza; l’architetto Aniello Manzo; e l’avvocato Roberto Cuomo, amministratore del condominio. Inoltre, risultano indagate altre dieci persone, tra cui i proprietari delle unità abitative dell’immobile, per falso ideologico in atto pubblico. Si tratta di Vitiello Rosanna, Bonifacio Ilaria, Manzo Aniello, Cirillo Emilio, Cuomo Roberto, Lafranco Fortunato Massimiliano, Buongiovanni Rita, Buongiovanni Giuseppe, Buongiovanni Donatella, Amodio Roberta.

 

Cronache della Campania@2018

Esorcismo sulla minorenne: prima udienza, don Michele assente

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Aula affollata al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) per la prima udienza del processo che vede come imputato il sacerdote della Diocesi di Aversa Michele Barone – sospeso dal servizio – accusato di aver maltrattato e abusato sessualmente di almeno tre donne, tra cui una minore di 13 anni, durante sedute di preghiera e riti definiti esorcistici. Le vittime si sono costituite parti civili. Assente in aula don Barone. Al prete – tuttora in carcere – e’ contestata anche l’aggravante dello sfregio permanente, che avrebbe causato, nel corso dei riti, all’orecchio della minore. Con Barone sono imputati anche i genitori della 13enne, Cesare Tramontano e Lorenza Carangelo, che secondo la Procura diretta da Maria Antonietta Troncone sarebbero stati consapevoli e addirittura avrebbero permesso gli esorcismi irrituali sulla figlia, e il funzionario della Polizia di Stato Luigi Schettino, che avrebbe fatto pressioni sulla sorella della vittima minore affinche’ ritirasse una denuncia presentata contro il sacerdote, e non avrebbe inoltre impedito il compimento delle azioni violente. Don Michele Barone oggi non era presente in aula; il suo legale, Carlo Taormina, ha reiterato davanti al collegio presieduto da Maria Francica l’istanza di revoca della misura restrittiva, o in subordine la concessione dei domiciliari. “Questa stessa istanza – ha sottolineato Taormina – l’avevo gia’ presentata ad aprile al Gip e in due mesi non ho avuto risposta”.
Presenti in aula Schettino, ancora ai domiciliari (difeso da Carlo De Stavola), i genitori della piccola, attualmente liberi dopo un periodo passato agli arresti (assistiti da Giuseppe Stellato, Gennaro Ciero e Umberto Pappadia), e l’altra figlia della coppia, scortata da due agenti della Polizia di Stato, in quanto fu lei a presentare nell’ottobre 2017 al Commissariato di Chiaiano (Napoli) la prima denuncia in cui segnalava le violenze subite dalla sorella minore ad opera di don Michele. Appena l’hanno vista, i genitori imputati si sono abbracciati e la madre ha pianto; a loro carico c’e’ un divieto di avvicinarsi alla ragazza. Nel corso dell’udienza di oggi, l’avvocato Taormina ha presentato al collegio un’eccezione di incompetenza territoriale, spiegando che il foro competente non e’ Santa Maria Capua Vetere, ma Napoli Nord, visto che il reato piu’ grave, i maltrattamenti aggravati dallo sfregio permanente, sarebbe stato commesso nella cappella del Tempio di Casapesenna, dove don Barone prestava servizio e aveva il suo gruppo di preghiera, quasi una setta, lo ha definito la Procura. I pm – Aggiunto Alessandro Milita, e sostituto Alessandro Di Vico e DanielaPannone – si sono opposti. “La competenza e’ certamente del foro di Santa Maria Capua Vetere – ha detto Di Vico – visto che i maltrattamenti ai danni della minore si sono consumate nell’abitazione dei genitori, a Maddaloni, comune che ricade appunto nella circoscrizione di Santa Maria”. Il collegio decidera’ nell’udienza del 3 luglio prossimo. Della vicenda si occuparono anche “Le Iene”.

Cronache della Campania@2018

Consip: Vannoni denuncia pressioni dei pm al Csm, Scafarto lo smentisce

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Roma. Domande “pressanti” concentrate sui “rapporti con Matteo Renzi” e una frase, ‘vuole fare una vacanza a Poggioreale’, che, racconta, gli sarebbe stata rivolta dal pm Woodcock, di fronte alla quale rimase “colpito e intimidito”. Così Filippo Vannoni, ex consigliere economico di Palazzo Chigi, è tornato a ripercorrere il “clima” dell’audizione, a cui fu sottoposto come persona informata sui fatti, avvenuta a Napoli il 21 dicembre 2016, nell’ambito dell’inchiesta Consip. Vannoni, sentito oggi come teste nel processo disciplinare al Csm che vede incolpati i pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano, racconta che a verbalizzare l’audizione fu il maggiore Giampaolo Scafarto, all’epoca capitano del Noe, e che “le domande su Renzi e Lotti venivano da Scafarto e da altri: l’interlocutore principale fu Scafarto, era davanti a me alla mia sinistra”. Le domande “venivano fatte in maniera corale, erano tutti ai 4 angoli, non avevo interlocutori frontali – ha detto Vannoni al Csm – Domande, ma anche pressioni per rispondere: ‘risponda, risponda, risponda’”. E ancora: “Parlavano tutti insieme, un gruppo corale diceva ‘confessi’, o ‘chi te l’ha detto'”, ha aggiunto l’ex consigliere economico di Palazzo Chigi.
Anche il maggiore Scafarto ha testimoniato oggi dinanzi al Csm ed ha smentito le dichiarazioni di Vannoni. L’ex consigliere di Palazzo Chigi Filippo Vannoni “fece i nomi di Matteo Renzi e Luca Lotti spontaneamente”. Ha detto Scafarto dinanzi alla sezione disciplinare del Csm. “Vannoni – ha aggiunto Scafarto- era visibilmente non a suo agio. Era particolarmente nervoso. Venne invitato a ricordare chi gli avesse detto qualcosa su Consip”. “L’esame venne condotto quasi esclusivamente dal dottor Woodcock” ha testimoniato Scafarto riferendosi all’interrogatorio dell’ex consigliere di Palazzo Chigi. “Di fronte avevamo un teste intimorito e non a suo agio”. Scafarto ha inoltre “escluso” di aver posto domande al teste, “non avevo motivo” ha dichiarato al consigliere Clivio di fronte al Csm. Scafarto infine ha smentito le accuse di pressioni esercitate da Henry John Woodcock su Vannoni, come quella di mostrargli dalla finestra il carcere di Poggioreale e di chiedergli “se vi volesse fare una vacanza” e di fargli vedere dei fili, spacciandoli per microspie.

Cronache della Campania@2018

Torre Annunziata, crollo di rampa Nunziante: l’avvocato Cuomo chiede il processo immediato

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Torre Annunziata. Per il crollo dell’edificio alla Rampa Nunziante avvenuto a luglio dello scorso anno e che causò la morte di otto persone l’avvocato Roberto Cuomo, amministratore di condomi­nio della palazzina crollata, ha chiesto di essere processato con il giudizio immediato. Ieri mattina i legali dell’imputato(gli avvocati Elio D’Aquino e Vincenzo Maiello) hanno depositato la richiesta alla cancelleria del giudice per le udienze preliminari Mariaconcetta Criscuolo. Con la richiesta di giudizio immediato, di fatto, Cuomo, che si ritiene innocente, rinuncia all’udienza preliminare e chiede di esse­ re processato in tempi brevi. Nei prossimi giorni verrà fissata l’udienza. L’avvocato è accusato di omicidio colposo. “La richiesta di voler procede­ re immediatamente al giudizio – chiariscono gli avvocati Elio D’Aquino e Vincenzo Maiello – si colloca proprio nella volontà di definire in tempi ragione­volmente rapidi il contenzioso giudiziario. Non c’è nessuna verità che può dirsi tale che non sia intimamente connes­sa ad un profondo senso di giustizia”. Secondo l’inchiesta coordinata dal procuratore capo Alessando Pennasilico, Cuomo avrebbe “ignorato le segnalazioni dei condomini che avevano riferito le loro preoccupazioni legate ai la­ vori che si stavano svolgendo in quei giorni con l’utilizzo di martelli pneumatici”. Intanto il 2 luglio prossimo è fissata l’udienza preliminare davanti al gup dove compariranno gli altri 14 imputati.

Cronache della Campania@2018

Torre Annunziata, carabinieri al servizio del boss: parte il processo per i tre accusati di corruzione

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Torre Annunziata. E’ iniziato il processo a carico dei 3 carabinieri accusati di essere al servizio del boss di Boscoreale, Francesco Ca­sillo, alias ‘a vurzella. Ieri matti­na, davanti al collegio presieduto dal giudice Fernanda Iannone del tribunale di Torre Annun­ziata, si è aperto il procedimento penale che vede imputati l’ex ca­rabiniere Sandro Acunzo (detto Mazinga), il colonnello Pasquale Sario, all’epoca dei fatti coman­dante del nucleo investigativo di Torre Annunziata ed attualmente sospeso dal servizio e il maresciallo Gaetano Deside­rio. Con loro, in questo processo, sono alla sbarra anche due per­ sonaggi ritenuti vicini al boss di Boscoreale: Luigi Izzo e Orazio Bafumi. Nell’udienza di ieri mattina è stato affidato l’incarico peritale per la trascrizione delle intercettazioni. A luglio, invece, si entra nel vivo. Con i primi testimoni chiamati a chiarire i rapporti tra i militari dell’Arma e il capoclan della ca­morra vesuviana. Rapporti che -secondo l’Antimafia -avrebbero generato un accordo scellerato tra il clan e lo Stato. Ai carabinie­ri vengono contestate omissioni nei controlli, ma anche soffiate per consentire al boss di sfuggi­ re ai blitz dei colleghi. Il tutto in cambio di soldi e regali, secondo il teorema dell’accusa.Nell’inchiesta figuravano anche altri carabinieri in servizio al nucleo operativo di Torre annunziata e che nei mesi scorsi sono stati assolti dal giudi­ce per le udienze preliminari del tribunale di Napoli “perché il fatto non sussiste” . Si tratta di Francesco Vec­chio, Franco De Lisio, Antonio Formicola, Antonio Santaniello, Catello Di Maio, Antonio Paragallo e Santo Scuderi.

Cronache della Campania@2018


Clan Bisogno, la Dia di Salerno confisca la villa del boss Vincenzo D’Elia a Cava de’ Tirreni

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Cava de Tirreni. Confiscata la villa del pregiudicato Vincenzo D’Elia, affiliato al clan Bisogno. Gli uomini della sezione Dia di Salerno – diretti dal tenente colonnello Giulio Pini e coordinati dal tenente colonnello Salvatore Perrotta – hanno eseguito una misura di prevenzione patrimoniale emessa dal Tribunale di Salerno – su proposta del Direttore della Dia condivisa dalla Procura della Repubblica di Salerno – nei confronti di Vincenzo D’Elia, pregiudicato affiliato allo storico clan camorristico Bisogno, operante a Cava de’ Tirreni nei comuni limitrofi, condannato in via definitiva per associazione di tipo mafioso, finalizzata alle estorsioni nei confronti di imprenditori dell’agro cavese. D’Elia arrestato nel 2009 nell’ambito di indagini relative al clan Bisogno è il destinatario di un provvedimento di confisca, emesso dal Tribunale di Salerno – sezione misure di prevenzione, su proposta della Dia. Le indagini della sezione investigativa di Salerno hanno permesso di accertare la pericolosità sociale del soggetto, data sia dall’appartenenza allo storico sodalizio camorristico dell’agro cavese, sia dalle abituali frequentazioni con diversi pregiudicati della zona, come sostenuto nel corso della procedure camerale, promossa del Direttore della Dia e sostenuta dalla locale Procura della Repubblica.
Nello specifico, è stato confiscato un appartamento ubicato a Cava de’ Tirreni, comprensivo di terreno e relative pertinenze del valore di circa 300mila euro.

Cronache della Campania@2018

Scafati: lettere, telefonate e chat portano Aliberti in carcere. La moglie su Fb: “Potevamo gestire meglio la situazione”

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Scafati. Lettere, chat con il telefono dei genitori e il finto tentativo di suicidio concordato per tentare un avvicinamento da Roccaraso dove era detenuto ai domiciliari a Scafati: sono questi gli elementi che hanno riportato il carcere l’ex sindaco di Scafati, Angelo Pasqualino Aliberti il 12 giugno scorso per ordine dei giudici del Tribunale di Nocera Inferiore. A far scoprire i numerosi episodi di violazione agli obblighi di non comunicare con persone diverse dai genitori, imposti dal Gip Giovanna Pacifico che aveva concesso i domiciliari ad Aliberti, sono stati amici e familiari ascoltati grazie alle intercettazioni ambientali disposte dalla Procura antimafia di Salerno ed eseguite dalla Dia. Aliberti è nel carcere de l’Aquila da una settimana e oggi la moglie Monica Paolino, consigliere regionale della Campania per FI e coimputata con il marito per scambio di voto politico mafioso ha rotto il silenzio ‘forzato’ ed ha scritto su facebook un post in difesa di Aliberti. “Mi sembra giusto rompere il silenzio dopo la nuova disposizione d’arresto di mio marito, Pasquale Aliberti. Un silenzio – scrive il consigliere – che nasce da un dolore molto grande che ci portiamo dentro tutti. Se ci domandiamo: ‘Potevamo gestire meglio la situazione?’, la risposta più ovvia è sì. Potevamo”. Cosa significa gestire meglio la situazione? Essere più furbi o evitare di infrangere gli obblighi imposti dal Giudice? Dal post della Paolino è difficile evincere il senso di questa frase.
Il consigliere regionale poi aggiunge: “Anche se giudicare dall’esterno è molto più semplice che vivere le situazioni in prima persona, bisogna calarsi nei panni e nella pelle degli altri per poter davvero capire. E nel nostro caso c’è veramente poco da capire. Non c’è, infatti, nessun contatto con gli ambienti camorristici cui si fa riferimento nell’inchiesta ‘Sarastra’, nelle presunte missive che sarebbero state smistate da Roccaraso, non ci sarebbero indicazioni o ‘pizzini’ alla camorra, ma esternazioni d’affetto e d’amicizia di un uomo solo, fortemente provato dalla detenzione prima al carcere di Fuorni e poi agli arresti domiciliari a Roccaraso. E dunque, potevamo gestire meglio la situazione? Si, potevamo, ma potevamo tutti, giustizia compresa. Perchè è giusto rispettare le regole, è giusto controllare minuto per minuto, secondo per secondo l’ex sindaco, è giusto anche concentrarsi sul peso delle parole piuttosto che sul nocciolo vero della questione, e cioè l’esistenza o meno dei rapporti tra l’ex sindaco e il clan, ma l’essere umano con le sue sensibilità e le sue fragilità dovrebbe sempre essere rispettato. Soprattutto quando è allo stremo delle forze e la sua famiglia è a pezzi. La giustizia – conclude la Paolino – deve fare il suo lavoro, ma come dice sempre Pasquale, la ‘verità è figlia del tempo’ e presto o tardi verrà fuori. La sua, la nostra onestà non è di certo messa in discussione da qualche leggerezza o errore umano. Tutti, dovremmo sempre ricordarlo: siamo umani. Ritorniamo ad essere umani”.
Considerazioni ‘umane’ che nulla tolgono al vero nocciolo della questione che ha ricondotto in carcere Aliberti. A stabilire se le accuse mosse dalla Procura antimafia all’ex sindaco, alla moglie, al fratello Nello e agli altri coimputati saranno i giudici del tribunale di Nocera Inferiore dinanzi al quale pende il processo. Pasquale Aliberti ha violato la legge e gli obblighi imposti dal giudice. Lo dimostrano le numerose relazioni depositate dagli uomini della Dia – sezione di Salerno, diretti dal tenente colonnello Giulio Pini – che stanno seguendo le indagini. Relazioni che tengono conto delle intercettazioni ambientali disposte dalla Procura che hanno avuto come bersaglio sia Monica Paolino che Nello Aliberti e che dimostrano il continuo bisogno di comunicare oltre che con i suoi familiari più stretti anche con i suoi fedelissimi. Un bisogno che preoccupa gli stessi interlocutori, consci che le violazioni gli sarebbero costate care. ”
Devo mandare un messaggio a mio fratello – dice Nello Aliberti parlando con Giovanni Cozzolino, l’ex staffista e coimputato dell’ex sindaco – dicendogli di non scrivere più messaggi, cambiati il telefono, questo buttalo, prendi la scheda di mamma e mettila in un telefono nuovo”. Chiaramente il detenuto ai domiciliari utilizza il telefono della mamma per comunicare con l’esterno da quello che si evince da queste conversazione e ironia della sorte a metterlo nei guai sono state proprio le persone a lui più vicine.
Il 20 feb­braio scorso a bordo della Smart di Nello Alberti viene intercettata una conversa­zione con Carlo Vi­tiello, autista, tuttofare degli Aliberti. Vitiello è colui che si occupa dei trasferimenti sia dei genitori dell’ex sindaco sia di Pasquale Aliberti quando ha dovuto affrontare le udienze del suo processo. Vitiello diventa anche il ‘postino’ di Pasquale Aliberti, colui che dispensa missive. Proprio in quell’occasione Vitiello consegna a Nello Aliberti una lettera scritta dal detenuto ai domiciliari nella quale chiede l’acquisto di un telefono cellulare, dà disposizioni e fa raccomandazioni al fratello. Ma – si evince dalle intercettazioni – Pasquale Aliberti ha scritto non solo al fratello Nello, ma anche a Giovanni Cozzolino, alla moglie Monica Paolino, a Domenico D’Aniello ‘o tormentone, il ristoratore suo amico, Eduardo D’Angolo, ex presidente dell’Acse e marito della proprietaria dell’abitazione di Roccaraso dove ha ottenuto i domiciliari. Ma un altro episodio ha messo in allerta gli inquirenti, rispetto all’attività dell’ex sindaco detenuto e alle sue continue violazioni. Pasquale Aliberti, nel tentativo di un avvicinamento a casa, inscena un finto tentativo di suicidio il 20 aprile scorso. A svelare il retroscena, la moglie Monica Paolino conversando con, Michela Rasteli, un’amica preoccupata per le sorti di Aliberti dopo la diffusione della notizia. Quel giorno, Nello Aliberti è a Roccaraso ed è lui ad allertare i medici del 118 e i carabinieri del malore del fratello. Che sia tutto concordato si evince dall’intercettazione alla Paolino. “Tranquillissima … – dice alla sua amica – Era tutto concordato …ca­pito? Tranquilla … niente di ché c’ho parlato… era con­cordata questa cosa. Questo è un rafforzativo, hai capito?”. Pasquale Aliberti viene soccorso per un’abuso di tranquillanti, in ospedale sul referto viene indicato come un tentativo di suicidio. E’ quindi Carlo Vitiello che evidentemente è in compagnia di Nello Aliberti a Roccaraso a chiamare Monica Paolino per informarla del trasferimento del marito dall’ospedale di Castel di Sangro a quello de L’Aquila. La dicitura in cartella clinica preoccupa non poco il detenuto, il referto potrebbe pregiudicare la sua attività di medico e portare ad una cancellazione dall’albo. E qui si mettono in azione i familiari e in particolare il fratello Nello che chiedono rassicurazione agli avvocati. Due giorni dopo l’episodio, Nello Aliberti chiama il cugino Pasquale Giugliano che sostiene di aver ricevuto una telefonata dall’ex sindaco per la vicenda della cartella clinica “hanno indicato tentato suicidio e ha paura che lo cancellano dall’albo”. Una preoccupazione che anche gli avvocati escludono. Resta l’escamotage e il tentativo – a tutti i costi – di voler ritornare nella sua città, di continuare ad avere rapporti con familiari e coimputati. Violazioni che non depongono a favore del rispetto delle regole e della condotta ‘ligia’ alla quale il detenuto ai domiciliari Pasquale Aliberti avrebbe dovuto attenersi.
Le esternazioni della moglie Monica Paolino di oggi non sono null’altro che un tentativo di solidarietà mediatica che purtroppo si infrange dinanzi al mancato rispetto degli obblighi imposti, umanamente giusti o ingiusti non importa. La legge va rispettata.
Rosaria Federico

Cronache della Campania@2018

Rapinarono lingotti d’oro a Matera: condannati due della banda di Secondigliano, assolte le donne

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Erano stati arrestati nell’ottobre del 2016 dopo aver messo a segno una clamorosa rapina di lingotti d’ori a un portavalori a Matera. Oggi per i quattro napoletani finiti sotto processo è arrivata la sentenza di primo grado emessa dal collegio B del Tribunale di Matera. Raffaele Ferone 32 anni di Secondigliano è stato condannato a 5 anni di carcere e a 1500 euro di multa; Ivan Cerullo, 41 anni, anch’egli di Secondigliano è stato invece condannato a 5 anni e due mesi di carcere e 1500 euro di multa. Assolte invece per non aver commesso il fatto Patrizia Avolio, 43 anni di Miano e sorella del ben più noto Francesco Avolio, detto Tyson, pericoloso killer al servizio dell’Alleanza di Secondigliano, e la 30enne Ivana Salvati. la clamorosa rapina con un bottino da 250mila euro si era consumata il 18 ottobre del 2016. I quattro erano arrivati da Napoli in auto e i due uomini, come ricostruito nel corso del processo, dopo aver lasciato le due donne avevano consumato la rapina e poi erano passati a riprenderle. La Avolio e la Salvati nel frattempo stavano per prendere il bus per far ritorno a Napoli perché si erano viste abbandonate dai due amici-parenti. E’ stata la testimonianza di una donna che aveva assistito alla rapina e chiamata a deporre dagli avvocati Danilo Volpe e Fabio Greco del Foro di Napoli per Patrizia Avolio e dall’avvocato Antonio Uricchio per Ivana Salvati che ha  smontato le accuse nei confronti delle due donne. Accuse fornite agli investigatori dallo stesso vigilante che aveva subito la rapina. Come dimostrato nel corso del processo però le due donne non erano presenti sul luogo della rapina e tantomeno erano a conoscenza che i due amici avessero compiuto il colpo. La rapina era stata compiuta solo da Ferone e Cerullo. Tra l’altro in quel periodo la Avolio portava un busto terapeutico per un infortunio subito durante un indicente stradale e non era in grado ne di correre ne di fare movimenti bruschi.La Lancia Musa con i 4 a bordo era stata intercettata dai carabinieri poco dopo la rapina lungo la SP.1, nel tratto Grassano – Tricarico. I 15 lingotti d’oro trafugati erano stati occultati all’interno delle intercapedini retrostanti dei sedili anteriori. E oggi a due anni circa dal colpo è arrivata la sentenza di primo grado.

Cronache della Campania@2018

Triplice omicidio con lupara bianca, il Riesame salva Mariano Riccio e Lucio Carriola

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Napoli. Il Tribunale del Riesame ha annullato la misura cautelare che il 30 maggio scorso aveva colpito in carcere il boss del clan Amato-Pagano, Mariano Riccio e Lucio Carriola accusati insieme ad altri sei del triplice omicidio di Francesco Russo ’o dobermann, 50 anni, il figlio Ciro di 30 e Vincenzo Moscatelli, 47enne, avvenuto nel 2009 a Mugnano. Per il presunto coinvolgimento  di Riccio, i giudici delle Libertà hanno disposto la trasmissione del fascicolo al Tribunale minorile. All’epoca dei fatti – il delitto fu commesso il 15 marzo 2009 – Riccio non aveva infatti ancora raggiunto la maggiore età. Dunque, tutto da rifare. Annullata invece l’ordinanza per Lucio Carriola. Il 30 maggio scorso la Dda di Napoli aveva ottenuto gli arresti in carcere di Carmine Amato, 37anni, detenuto nel carcere di Viterbo; Cesare Pagano, 48 anni, detenuto nel carcere di Cuneo; Francesco Biancolella, 66 anni di Mugnano (l’unico libero); Lucio Carriola, 43 anni, detenuto nel carcere di Terni; Mario Riccio, 26 anni, di Mugnano, detenuto nello stesso carcere; Oscar Pecorelli, 39 anni, in carcere a Tolmezzo; Oreste Sparano, 32 anni, detenuto nel carcere de l’Aquila. Il mandante dell’omicidio sarebbe il boss pentito Antonio Lo Russo che secondo l’altro pentito Biagio Esposito, aveva chiesto la “cortesia” al gruppo del suo compare di matrimonio Cesare Pagano, di eliminare  o’ dobermann che stava diventando troppo autonomo.  Il Tribunale del Riesame si è inoltre pronunciato anche per due degli indagati per l’omicidio di Vincenzo Zambrano, detto “’o spagnolo”, ucciso il 28 luglio del 2009 sempre nell’ambito dell’alleanza tra il clan Lo Russo e quello degli Amato-Pagano. Per quel delitto, sempre alla fine del maggio scorso, sono finiti in manette Cesare Pagano, Oscar Pecorelli, Antonio Lo Russo, Biagio Esposito, Antonio Esposito detto “Quagliarella” e Giuseppe D’Ercole detto “Lione”. Per Antonio Esposito e Giuseppe D’Ercole il Riesame ha deciso di confermare la misura cautelare. Zambrano era un uomo del clan Amato-Pagano e, stando alla ricostruzione della pubblica accusa, a decidere di ucciderlo sarebbero stati proprio i capi dei due clan alleati, i Lo Russo e gli Amato-Pagano.

(nella foto da sinistra Cesare Pagano, Antonio Lo Russo, Oscar Pecorelli, Carmine Amato, Oreste Sparano, Mariano Riccio)

Cronache della Campania@2018

I ‘Furbetti dell’F24’ si vantavano delle truffe ma vivevano con la paura di essere arrestati. TUTTI I NOMI DEI COINVOLTI

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I “furbetti dell’F24” scoperti ieri dalla Guardia di Finanza con 16 misure cautelari avevano le sedi centrali presso  due studi di commercialisti, a Napoli e ad Aversa, erano riusciti a raggirare il Fisco dichiarando per i loro clienti crediti che erano del tutto inesistenti e così ad andare a compensare i debiti che invece avevano verso l’erario. Tutto parte dalla denuncia in Procura di diversi imprenditori napoletani che una volta rivoltisi ai due studi avevano ricevuto una cartella esattoriale con le contestazioni di cifre, che a detta dei commercialisti, erano state cancellate. Così è stato accertato che quella che i professionisti ritenevano essere una vittoria era invece una truffa. Cinquecento le persone coinvolte e cinquemila gli F24 presentati tra il 2013 e il 2016 che compensavano crediti inesistenti. In pratica il Fisco accertava un debito di svariate migliaia di euro e i commercialisti lo azzeravano con dichiarazioni di crediti falsi. A capo della ‘cricca’ c’erano Renato De Luca, uno dei commercialisti arrestati, il dipendente dell’Agenzia delle Entrate, Guglielmo Di Guida, in servizio presso l’ufficio territoriale di Napoli 3 e Vincenzo Campoluongo, consulente tributario della società Tfc Professional srls, di Aversa, a sua volta in stretto collegamento con Renato De Luca, il dominus dell’organizzazione e titolare della Dnl srls.

Moltissimi dei contribuenti erano consapevoli delle situazioni illecite che si erano andate a creare e altri invece erano all’oscuro di quello che accadeva e pagavano la parcella molto “salata” ai due professioni che prendevano il 15 per cento di quanto erano riusciti (per finta) a cancellare. So- no coinvolti anche un funzionario delle Agenzie delle Entrate che aveva il compito di segnalare ai due commercialisti i contribuenti ai quali stava per arrivare l’accertamento dell’Agenzia, due avvocati, che lavoravano davanti alle commissioni tributarie e tre imprenditori, uno dei quali di Napoli e operante nel settore dei metalli, che ha fatto compensazioni fraudolente per oltre 6 milioni di euro. Tutte con dichiarazioni dei redditi false. Come facevano? Lo hanno gli investigatori , in pri-mis il generale Luigi D’Alfonso e il comandante Giovanni Salerno. Prima che arrivasse l’accertamento il dipendente dell’Agenzia delle Entrate, Guglielmo Di Guida, in servizio presso l’ufficio territoriale di Napoli 3, il quale procacciava i clienti a Vincenzo Campoluongo, consulente tributario della società Tfc Professional srls, di Aversa, a sua volta in stretto collegamento con Renato De Luca, il dominus dell’organizzazione e titolare della Dnl srls, contattava i contribuenti e proponeva un trattamento all inclusive. Un pacchetto completo con il quale indicava ai potenziali clienti la possibilità di un ricorso alla commissione tributaria contro il debito accertato da Equitalia e poi la cancellazione di tutto. Lo faceva grazie al sistema di home banking. Caricava grazie ad una serie di complici e suoi dipendenti(tutti quanti destinatari della misura cautelare) gli  F24 falsi. Se il debito accertato era 10mila euro lui caricava F24 per 10mila euro e un centesimo. Il sistema registrava l’avvenuto paga- mento e così il ruolo veniva cancellato. I due avvocati poi presentavano la cancellazione alla commissione tributaria e il gioco era fatto, salvo poi gli accertamenti che sono seguiti. Cinquecento sono i contribuenti che adesso saranno contattati dall’Agenzia delle Entrate e dovranno pagare tasse che erano state cancellate.
Dalle indagini è emerso che Renato De Luca si vantava di quello che faceva. In una conversazione, come riporta Il Roma, con un conoscente che gli chiedeva informazioni in merito a Vincenzo Campoluongo, altro componente della cricca, rivendicava con orgoglio di avergli risolto una grana. “Sono stato io con quel ricorso dello sgravio Iva – dice al conoscente dall’altra parte del telefono – Campoluongo è mio amico, gli faccio io tutte le pratiche a lui, tutte quante a me vengono amore mio, lavoriamo insieme, è una vita, sono tre anni. Quello da me viene e gli faccio le pratiche. Tengo tutti i clienti di Campoluongo, li tengo tutti io”. In un’altra conversazione De Luca si attribuisce anche il merito dell’annullamento dei ruoli della riscossione di un contribuente napoletano che aveva 11 milioni di debiti: “Io gli ‘spugnalato’ tutte le cartelle, c’è sempre una soluzione, solo alla salute purtroppo non c’è soluzione”. Ed ancora, parlando di una pratica di un cliente di Campoluongo, De Luca dice: “Bellissimo, questo pure è andato bene, tieni tieni, un altro andato bene, tengo tutte le carte io e io vado avanti”. Gli investigatori ritengono poi significativa un’altra conversazione, che è dai toni anche paradossali. A parlare sempre De Luca con il collaboratore Luciano Rispoli, destinatario del provvedimento del gip Alfano. Alla domanda su quale tipo di lavoro dovesse indicare nel modulo da presentare alla banca, De Luca risponde: “Ladro”. Rispoli suggerisce di indicare “Consulente Tributario”, ma lui insiste: “Ladro”. Era poi sempre molto preoccupato di essere arrestato per quello che faceva e in una conversazione lo ha raccontato. A Luciano De Rosa, imprenditore di una società di Napoli, diceva: “Ti dico una cosa, io dormo con l’incubo che alle cinque mi bussano alla porta. A prima mattina. Quando passano le cinque del mattino poi penso: ‘Va bene, è andata anche oggi”. Dopo la presentazione del modello F24 fraudolento, De Luca attendeva lo sgravio del ruolo da parte di Equitalia prima di comunicare al cliente il buon esito della consulenza e incassare il compenso pattuito. Nel caso in cui la pratica riguardava un contribuente procacciatogli da Campoluongo, aggiornava quest’ultimo: “Eh, no glielo puoi dire che tra una settimana si trova il problema risolto, deve aspettare cinque giorni”.
Agli atti del provvedimento ci sono decine di intercettazioni e anche molti messaggi che i componenti della cricca si scambiavano tra loro nel corso delle trattazioni delle pratiche da affidare agli studi di consulenza e di commercialisti.

I COINVOLTI NELL’INDAGINE

DE LUCA RENATO NAPOLI 27/11/1974
CAMPOLUONGO VINCENZO NAPOLI 08/04/1965
CAMPOLUONGO LUIGI NAPOLI 15/04/1993
DI GUIDA GUGLIELMO NAPOLI 06/04/1954
FERRIERI GIUSEPPE CROTONE 04/12/1968
ACCARDO ANTONY SOMMA 19/08/1992
PISCOPO RITA NAPOLI 18/05/1983
DE ROSA LUCIANO NAPOLI 30/11/1972
GRAGNANIELLO CARMINE NAPOLI 03/09/1982
SANTONASTANO GIANLUCA NAPOLI 19/09/1988
MAFFEI MICHELANGELO NAPOLI 07/07/1972 NAPOLI
MAYER SALVATORE NAPOLI 06/08/1994
MONNA SOFIA NAPOLI 11/06/1981
MUSELLA LUCA NAPOLI 21/08/1983
RISPOLI RAFFAELE NAPOLI 14/06/1974
GAROFALO CARMINE SAN GIUSEPPE 18/12/1965
ABBATE ANTONINO NAPOLI 09/05/1976
CARDONE GIOVANNI VILLARICCA 12/05/1952
RICCI PIETRO PORTICI 10/07/1974
RUSSO GIOVANNI ROMA 01/06/1954
ZIMBALDI UMBERTO CASORIA 25/04/1960
SALZANO MARCO AFRAGOLA 26/12/1968

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Il boss Casillo confessa in aula: ‘Così facevo affari sulle case’

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Arriva in tribunale la testimonianza di Franco Casillo, ‘a vurzella, uno dei superboss del narcotraffico di Boscoreale. Chiamato a processo per aver investito denaro sporco acquistando un intero quartiere in provincia di Caserta parla dando molte spiegazioni a tratti contraddittorie. «Io e Alfonso Annunziata – dice – facevamo tanti affari assieme. Una volta davo io i soldi a lui, una volta lui a me». Casillo spiega un po’come «Alfonso ’a calabrese (ritenuto il capo degli Aquino-Annunziata) aveva i rapporti con i narcotrafficanti in Olanda. A lui – afferma – davo i soldi che reinvestiva. E io, invece, mi facevo dare soldi per altri “affari”, ma non abbiamo mai fatto estorsioni». Secondo l’accusa i soldi della camorra sarebbero stati reinvesti per la costruzione di un intero quartiere. Un patrimonio stimato di circa 10milioni di euro tra immobili, conti correnti bancari, polizze assicurative. Il tutto acquisito con i proventi del traffico di sostanze stupefacenti. Due anni fa, a scopo di conquista, furono sequestrati tra Vitulazio, nel casertano, Boscoreale e Poggiomarino 66 appartamenti realizzati dall’impresa di Alfredo e Giuseppe Vita, imprenditori di Boscoreale titolari della Vita Costruzione. Secondo gli inquirenti la lottizzazione sarebbe stata realizzata con i proventi del traffico di sostanze stupefacenti di Casillo e Annunziata. L’antimafia ha portato a processo Casillo, detenuto per associazione per delinquere, omicidio e traffico di sostanze stupefacenti. L’uomo aveva intestato alla moglie gran parte delle proprietà. Con i coniugi alla sbarra ci sono anche i Vita ma anche il titolare di un’altra ditta, la Rig Costuzioni con la quale il boss di Boscoreale aveva acquistato tre abitazioni di Napoli ad un’asta fallimentare, investendo 650mila euro. Lo stesso imprenditore avrebbe provato a trasferire ed incassare titoli brasiliani per alcuni milioni di euro, intercettati dall’Fbinegli Stati Uniti. Mentre “mast’Alfredo” Vita, al telefono con il figlio, parlava di Casillo come “lo scemo” a cui dovevano fare un piacere.

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Il boss La Torre attacca magistrati e un giornalista

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Se l’e’ presa con i pm accusati di accanimento investigativo nei suoi confronti o di mala gestione dei pentiti a suo danno, e con un giovane cronista, definito pseudo-giornalista, il quale l’ha poi denunciato per diffamazione e minacce. Ne ha per tutti Augusto La Torre, il boss psicologo – ha preso la laurea in carcere – che dal 1996 e’ detenuto dopo aver guidato con mano sanguinaria l’omonimo clan operante nel comune del litorale casertano di Mondragone, in sintonia ma spesso anche in disaccordo con i potenti Casalesi, divenuto anche collaboratore di giustizia salvo poi essere in sostanza “scaricato” dall’autorita’ giudiziaria, che ha definito la sua collaborazione riduttiva, probabilmente perche’ seppur La Torre si e’ autoaccusato di una cinquantina di omicidi, non ha mai fornito le indicazioni utili per far trovare il suo tesoro. In una lunga intervista rilasciata ad un sito casertano, La Torre attacca magistratura e giornalisti, che a suo dire vogliono tenerlo in carcere. E’ in corso al Tribunale di Isernia un contenzioso sul cumulo di pene per le tante condanne ricevute da La Torre, che potrebbe aprirgli le porte del carcere. Un’eventualita’ che la Dda sta provando a scongiurare, come dimostra la recente inchiesta che ha portato in cella il figlio e il fratello di La Torre, accusati di voler riorganizzare il clan in vista della scarcerazione del boss.

Il fratello di La Torre e’ stato indagato per estorsione aggravata in relazione a due lettere inviate dal carcere, la prima all’amministratore di un condominio di Mondragone, con la quale avrebbe preteso l’assunzione di suo figlio Tiberio, fatto che poi non si e’ verificato per il rifiuto della vittima; la seconda al proprietario di numerose abitazioni all’interno dello stesso condominio, con la quale avrebbe richiesto la somma di 25.000 euro, senza pero’ ottenerla sempre per la resistenza della vittima. La Torre e’ inoltre accusato di aver minacciato di morte il pm che lo ha indagato, il sostituto della Dda di Napoli Sandro D’Alessio, peraltro citato anche nell’intervista. Una situazione dunque di gran tensione che vede da una parte il boss e dall’altra gli inquirenti, in cui di mezzo e’ finito il 29enne cronista di Cronache di Caserta Giuseppe Tallino, che negli ultimi tempi si e’ occupato spesso con coraggio di La Torre; dopo le parole del boss non e’ stata presa ancora alcuna ufficiale misura di protezione nei confronti del cronista, ma i carabinieri una volta al giorno passano alla redazione per sincerarsi che tutto vada bene. Nel mirino di La Torre anche l’attuale Procuratore di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone, per il periodo in cui era alla Dda. Che le parole del boss siano da qualificare come minacce lo stabilira’ la magistratura, ma si tratta di parole che probabilmente puntano alla delegittimazione dei destinatari. “Nelle parole di Augusto La Torre – dice il suo legale Filippo Barbagiovanni – non c’e’ alcuna minaccia nei confronti di giornalisti e magistrati. La Torre esprime delle opinioni, seppur forti, e contesta il modo di fare le indagini e l’accanimento giornalistico con articoli che a nostro parere non sono verificati”.

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Accordo tra i clan Belforte e Piccolo per lo spaccio: notificati 40 avvisi di conclusione indagine

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Sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini agli oltre quaranta soggetti al centro di un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Napoli sullo spaccio di droga nel casertano, per il quale i clan rivali Belforte e Piccolo avrebbero siglato un accordo per dividere i guadagni del commercio illecito. Dall’attività investigativa è emerso che gli indagati, colpiti il 4 giugno scorso da 16 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 15 agli arresti domiciliari e 9 obblighi di presentazione alla polizia giudiziaria, avevano base nel complesso residenziale “Unrra Casas” di Marcianise, centro dello spaccio degli stupefacenti e residenza di alcuni degli arrestati. Nel corso delle indagini, sono state arrestate 6 persone in flagranza di reato per spaccio e sono stati sequestrati circa 6 chili di droga.

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Abusi edilizi nel resort Il Sireneo, processo per la consigliera regionale Flora Beneduce, il marito e il figlio

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Vico Equense. E’ stato fissata  per l’otto ottobre prossimo la prima udienza del processo a carico di Flora Beneduce, consigliera regionale di Forza Italia, del marito Armando De Rosa, ex potentissimo assessore regionale ai tempi della Dc e il  figlio Raffaele insieme con l’agronomo Raffaele Starace. Il processo prende spunto dall’inchiesta sugli abusi edilizi nel resort Sireneo realizzato nei pressi della spiaggia di Seiano nel comune di Vico Equense. I pm Rosa annunziata e Mariangela Magariello della Procura di Torre Annunziata che hanno condotte le indagini hanno ottenuto il rinvio a giudizio per i quattro. La struttura di circa 12mila metri quadrati che si trova ancora sotto sequestro e in cui secondo gli uomini della Procura di Torre Annunziata sarebbero stati realizzati più abusi edilizi che avrebbero sconvolto l’assetto territoriale. Sotto la lente di ingrandimento ci sono varie parti del complesso, la casa vacanza al primo piano, che starebbe in un edificio abusivo, l’ex casa colonica sul versante marittimo, oggetto di un ampliamento ritenuto non possibile. Questi interventi avrebbero modificato l’assetto di un’ area vincolata dal PUT (Piano Urbanistico Territoriale). Sarà ora il processo a fare chiarezza sulla vicenda.

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Napoli, nuovo avvocato per Luca Materazzo, rinviata l’udienza

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Nuovo avvocato per Luca Materazzo – il trentenne accusato di essere l’assassino del fratello Vittorio, ucciso a coltellate davanti casa a Napoli la sera del 28 novembre 2016 – dopo la rinuncia degli avvocati Gaetano e Marialuigia Inserra, durante l’udienza dello scorso 31 maggio, “per contrasti insanabili”. L’imputato ha nominato l’avvocato De Luca che oggi non si e’ presentato in aula ed e’ stato rappresentato da una giovane collega la quale chiesto e ottenuto i “termini a difesa”, cioe’ un rinvio del procedimento per prendere cognizione degli atti del processo. La prossima udienza e’ stata fissata per il 28 giugno. Oggi erano previste le testimonianze della titolare del ristorante dove l’imputato ha riferito di essersi intrattenuto e dei dipendenti di un bar vicino al ristorante.

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Accusato si prendere mazzette delle immigrate asiatiche: assolto poliziotto in servizio a Castel Volturno

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La seconda sezione penale del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha assolto dalle accuse di concussione ed induzione indebita il sovrintendente della Polizia di Stato, Paolo Chianese . L’uUfficiale di P.G era stato arrestato nel gennaio del 2013  in quanto ritenuto gravemente indiziato di avere indebitamente indotto immigrate di nazionalità asiatiche a consegnargli denaro, abusando delle funzioni di responsabile allo sportello Immigrazione del Commissariato di Castel Volturno. Il Chianese si è sempre professato innocente  sostenendo che la vicenda poteva essere stata ingenerata da equivoci connessi alle difficoltà di interlocuzione con gli extracomunitari allo sportello. Nel corso del  processo  l’Ufficiale di PG ha lamentato una possibile ritorsione delle denuncianti rispetto al suo zelante operato. E non a caso è stata riconosciuta dal Tribunale l’inattendibilità delle accuse mosse nei suoi confronti. Il Pubblico ministero aveva richiesto la condanna dell’Ispettore di Polizia alla pena di quattro anni di reclusione .Il Tribunale accogliendo le richieste dei suoi difensori ( gli avvocati Carmine Ippolito e Salvatore Branno ) ha  prosciolto Chianese da ogni accusa perché il fatto non sussiste.

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Morì durante il trattamento di Tso: condanne confermate in Cassazione per medici e infermieri

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Confermate, dalla Cassazione, le accuse di sequestro di persona per i diciassette operatori sanitari dell’ospedale di Vallo della Lucania – sei medici che rispondono anche di falso ideologico, e undici infermieri – nella tragica vicenda della morte di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare di Pollica, frazione di Acciaroli, cittadina sulla costiera del Cilento, morto dopo oltre ottanta ore di trattamento sanitario obbligatorio, quattro giorni di agonia durante i quali – come e’ stato documentato dalle telecamere di sorveglianza dell’ospedale San Luca – era stato tenuto legato mani e piedi nel reparto di psichiatria del nosocomio lucano, e tenuto a digiuno. Per tutti gli imputati la pena e’ sospesa, perche’ si tratta di condanne inferiori ai due anni di reclusione, come gia’ deciso dalla Corte di Appello di Salerno con sentenza del 15 novembre 2016. In appello, i magistrati annullarono le assoluzioni degli infermieri e affermarono anche la loro responsabilita’ per quanto accaduto a Mastrogiovanni, sottoposto a trattamento sanitario coatto su disposizione dell’allora sindaco di Acciaroli, Angelo Vassallo, morto in seguito in circostanze mai chiarite nonostante anni di indagini. Ad emettere il verdetto della Suprema Corte e’ stata ieri la Quinta sezione penale che ha disatteso le richieste della Procura generale che, in una lunga requisitoria, aveva chiesto l’annullamento con rinvio per un nuovo esame dei reati contestati dando l’indicazione di alleggerire la posizione del personale medico che ha lasciato che la vittima morisse. Tra circa un mese verranno depositate le motivazioni della attesa decisione degli ‘ermellini’ che punta il dito contro questa pratica sanitaria molto controversa e di non rara applicazione. A portare avanti la battaglia giudiziaria nei confronti dei camici bianchi e’ stata Caterina Mastrogiovanni, sorella di Francesco, con il sostegno dell’associazione ‘A buon diritto’ di Luigi Manconi

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