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Channel: Cronaca Giudiziaria
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Ercolano: processo a giugno per killer e mandanti del neomelodico ucciso per errore

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dantese e barbaro 1

 Omicidio Barbaro: processo ai vertici degli Ascione-Papale. Per la morte del giovane, ucciso per uno scambio di persona, a giugno inizierà il processo nei confronti di Natale Dantese, detenuto al regime carcerario di 41 bis, Antonio Sannino, Vincenzo Spagnuolo e Pasquale Spronello. Salvatore Barbaro fu ucciso il 13 novembre del 2009 in via Mare da un commando di fuoco degli Ascione-Papale. I quattro affronteranno il processo con giudizio immediato. Barbaro, giovane musicista porticese, è una delle vittime innocenti della faida tra i Birra-Iacomino e gli Ascione-Papale, fu ucciso perché scambiato per un affiliato al clan Birra-Iacomino, con cui il giovane aveva in comune: l’automobile, una Suzuki Swift di colore grigio. I killer giunsero in via Mare in sella ad motociclo e spararono verso il giovane dieci colpi di pistola calibro nove. Il ragazzo, colpito alle spalle, morì nei pressi di un muro di contenimento di Villa dei Papiri. Era appena uscito da un negozio di materiali edili quando sentì i primi spari, si nascose prima nell’abitacolo dell’auto poi cercò di scappare ma non ebbe scampo. Il processo sancirà la circostanza che Salvatore Barbaro è una delle vittime della camorra ercolanese, nessun legame con la criminalità organizzata, e per i familiari arriverà l’ora della giustizia.

(nella foto da sinistra il boss Natale Dantese mandante dell’omicidio, a destra la vittima innocente Salvatore Barbaro)


Estorsioni ai commercianti per le festività, arrestati 10 affiliati al clan Bidognetti

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carabinieri

Estorsioni tra 500 e 3.000 euro a Natale, Pasqua e Ferragosto: i carabinieri del Reparto Territoriale di Aversa stanno eseguendo un provvedimento di custodia cautelare, emesso dal Gip del Tribunale di Napoli, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia partenopea, nei confronti di 10 indagati ritenuti responsabili di associazione di tipo mafioso ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. L’indagine, ha consentito, tra l’altro, di fare luce su numerose estorsioni ai danni di diversi operatori economici, a cui venivano chieste somme di denaro comprese tra i 500 e i 3.000 euro, in prossimità delle festività di Natale, Pasqua e Ferragosto. I destinatari del provvedimento sono tutti ritenuti affiliati alla fazione Bidognetti del clan dei Casalesi.

Mariglianella: rogo mortale alla “Menichini”, la Procura apre un’inchiesta

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incendio alla menichiniok

 Ennesia tragedia sul lavoro e ennesima inchiesta della magistratura su sistemi di sicurezza e impianti. La morte di Luciano Amodio, 52 anni di Sant’Antimo, nella Menichini Industriale e Navale di Mariglianella ha spinto il pm della Procura di Nola ad aprire un’inchiesta. I carabinieri della Stazione di Brusciano, insieme ai vigili del fuoco, stanno verificando i sistemi di sicurezza e antincendio nel capannone, dove lunedì pomeriggio è esplosa una bombola di Gpl, sprigionando le fiamme che hanno avvolto il capannone. Il capoofficina di Sant’Antimo per sfuggire alle fiamme si era barricato in uno stanzino, ma quel rifugio è stata la sua trappola mortale. I militari stanno ricostruendo le fasi della tragedia, l’ennesima morte bianca. Secondo alcuni testimoni, Luciano Amodio invece di cercare di scappare è andato verso il luogo dell’esplosione e delle fiamme, rimanendo imprigionato. Gli inquirenti dovranno accertare se esisteva nel capannone un impianto antincendio e per quale motivo non ha funzionato. Il corpo dell’operaio è a disposizione della magistratura per effettuare l’esame autoptico, in attesa che si individuino eventuali responsabilità e partano gli avvisi di garanzia.

(nella foto alcune fasi dell’incendio e nel riquadro la vittima Luciano Amodio)

Terza faida di Scampia ecco tutti i nomi dei 46 imputati che chiedono lo sconto di pena

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arcangelo abbinante

Terza faida di Scampia: in 50 chiedono l’abbreviato. Associazione per delinquere, traffico di stupefacenti e due tentati omicidi: gli uomini del clan Leonardi di Secondigliano, alleato dei Marino vicini ai “Vanella Grassi” affronteranno il processo dopo i 44 arresti di un anno fa. Tra i boss alla sbarra Antonio Mennetta, Er Nino, e Arcangelo Abbinante, avversari degli Abete. Sfuggirono allora alla cattura e sono latitanti nel processo Umberto Accurso e Roberto Manganiello. Gli uomini della cosca devono rispondere delle accuse, a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti e tentato omicidi. Gli attentati contestati sono quelli di Giovanni Esposito, alias ‘o muorto’ avvenuto il 4 luglio del 2012 e Giovanni Giordano, del 12 novembre di quell’anno, esponenti degli Abbinante. Un anno fa oltre all’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare furono eseguiti sequestri per circa 4 milioni di euro, beni ritrovati tra la Campania e il Lazio, dove i Leonardi, narcotrafficanti originari di Secondigliano alleati ai Di Lauro, avevano messo radici. Il tentato omicidio di Giovanni Esposito, cognato degli Abbinante, fece nascere l’inchiesta che ha portato un anno fa agli arresti. Intercettazioni telefoniche svelano il traffico di stupefacenti con l’invio a Roma di grossi quantitativi di cocaina e la disponibilità du armi utilizzati negli agguati. Numerose le incursioni nei lotti G, H e K di via Labriola e della Vela celeste, piazze di spaccio contese tra la “Vinella” e gli Abete-Abbinante. Decisiva la collaborazione del boss Antonio Leonardi e dei figli Felice, Alfredo e Giovanni, nell’inchiesta che approderà dinanzi al Gup.

Ecco tutto l’elenco completo degli imputati che hanno chiesto il rito abbreviato

ANTONIO LEONARDI (PENTITO)

FELICE LEONARDI (PENTITO)

ALFREDO LEONARDI (PENTITO)

ANTONIO MENNETTA

ANGELO MARINO

ANTONIO DI GENNARO

GENNARO IORIO

ROSARIO GUARINO (PENTITO)

GIANLUCA GIUGLIANO (PENTITO)

FRANCESCO BARONE

ROBERTO MANGANIELLO

ALFONSO VANACORE

SALVATORE BARBATO

MARCO ESPOSITO

FRANCESCO STRAZZULLI

SALVATORE CAPALDO

GAETANO RICCIO

CARMINE BATTAGLIA

SALVATORE CAPUTO

ANTONIO LUCARELLI

MICHELE SILVESTRO

SALVATORE PIEDIMONTE

VINCENZO DATI

SALVATORE AURILIO

VINCENZO AURILIO

GENNARO MAGELLI

VINCENZO ESPOSITO

GAETANO PARZIALE

ANTONIO ALTERA

ANTONIO MAROTTA

VITTORIO MAROTTA

PIETRO MAOLONI

ACCURSO UMBERTO

ARCANGELO ABBINANTE

LUCA DELL’ANNUNZIATA

ANTONIO MINCIONE

VALERIO CAIAZZO

SALVATORE DELL’AVERSANA

RAFFAELE MINCIONE(1972)

RAFFAELE MINCIONE (1985)

NICOLA MINCIONE

PASQUALINA MINCIONE

GIUSTINA MARCHESA

CARMINE ANNUNZIATA (PENTITO)

GAETANO ANNUNZIATA (PENTITO)

ADRIANO SELVA

GIUSEPPE MINICHINI

Questi invece gli imputati che hanno scelto il rito ordinario

GIOVANNI VITALE

VINCENZO AURILO

FRANCESCO PAOLO RUSSO

VALERIO CAIAZZO

 

(nella foto il boss arcangelo abbinante)

A giudizio la “cricca” di Equitalia: fissato per ottobre il processo per 30 persone. Facevano sparire multe e sanzioni in cambio di laute mazzette

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FOTO DI REPERTORIO©LAPRESSE03-01-12 ItaliaEquitalia, continuano le intimidazioni in tutta Italia

All’interno della sede di Napoli di Equitalia sud si era creata una vera e propria “cricca” capace di aggiustare e addirittura di far sparire la cartelle esattoriali in cambio di lauti compensi.  La cricca fu scoperta lo scorso anno dai carabinieri che notificarono un’ordinanza con la misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria a dieci persone tra le quali cinque impiegati di Equitalia Sud SpA e due addetti alla vigilanza della stessa società, accusate a vario titolo di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, abuso d’ufficio, rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, falso e truffa ai danni di Equitalia. L’inchiesta della Procura di Napoli ha poi accertato il coinvolgimento di altre venti persone che sono state tutte rinviate a giudizio del gip Ferrigno del Tribunale di Napoli. Equitalia si è costituita parte civile nel processo che inizierà ad ottobre prossimo. Dalle indagini è emerso che la cricca aveva organizzato un sistema di corruttela all’interno di Equitalia  grazie al quale nel corso degli anni sono state fatte sparire multe, sanzioni e altri balzelli. Il compenso variava dai 200 euro se l’operazione era di bassa entità e arriva a 2000 euro ad intervento se la cifra da far sparire era più alta. Ora in 30 , tra cui anche alcuni  imprenditori di Napoli e provincia che hanno beneficiato dei favori della cricca, dovranno comparire davanti al tribunale per difendersi dall’accusa di truffa, falso, associazione per delinquere e altro.

Scandalo del Tribunale di Torre Annunziata: cancellate le condanne per Ormanni, Vernola e altri 13

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ormanni-vernola

Torre Annunziata. Colpo di spugna per il processo all’ex procuratore della Repubblica Alfredo Ormanni. Il tempo cancella la condanna a sei anni di reclusione inflitti in primo grado dai Giudici del Tribunale di Roma. Ieri pomeriggio, per i 21 imputati finiti dinanzi alla Corte d’Appello di Roma – presidente Raffaele Montaldi – solo quattro condanne per coloro che avevano rinunciato alla prescrizione. Due le assoluzioni nel merito che rappresentano una vittoria per imputati e difensori. I giudici hanno infatti assolto Emilia Salomone, condannata in primo grado a tre anni e sei mesi di reclusione e poi licenziata dal Ministero. L’ex dipendente del Modello 12 del Tribunale, difesa dall’avvocato Francesco Matrone, è stata assolta perché il fatto non costituisce reato. Assoluzione nel merito anche per Sergio Profeta, esponente delle forze dell’ordine, difeso dall’avvocato Giuseppe Ferraro. Per Profeta i giudici dell’Appello hanno utilizzato la formula del ‘fatto non sussiste’. Confermate le condanne inflitte in primo grado per Raffaele Forte, Giosuè Limodio, Antonio Di Michele e Maurizio Di Venosa. Questi avevano rinunciato alla prescrizione. Salvi invece gli altri 15 imputati, personaggi eccellenti finiti nell’inchiesta per i mandati di pagamento fasulli, rimborsi per missioni all’estero, auto di lusso e festini organizzati con la complicità del cancelliere capo Domenico Vernola, finito in manette nell’indagine che sconvolse il Tribunale di Torre Annunziata. Quattordici anni dopo quello scandalo italiano in cui sparirono oltre 30 miliardi delle vecchie lire dalle casse del Tribunale oplontino e dello Stato sono stati in pochissimi a pagare con una condanna. Emilia Salomone licenziata dopo la condanna di primo grado ora arriva il momento della rivalsa. Aveva sempre sostenuto la sua innocenza, nessuna complicità con il cancelliere capo che si autoliquidava mandati di pagamento incassando personalmente i soldi che dovevano essere utilizzati per spese di giustizia. In primo grado erano state comminate 21 condanne nei confronti dei 26 imputati, cinque erano stati assolti per prescrizione. Il tempo ha cancellato altre 15 condanne pesantissimi nei confronti di dipendenti pubblici, per i quali fu disposto anche il licenziamento, per i rappresentanti delle forze dell’ordine e l’ex magistrato. In tutto 91 anni di carcere per associazione per delinquere, finalizzata al peculato, falso e riciclaggio per episodi accaduti tra il 1994 il 2002 . L’ex procuratore Alfredo Ormanni fu condannato a sei anni di reclusione per i mandati emessi dal 15 gennaio del 2001 al 24 settembre del 2002, mese in cui Vernola scappò dal Tribunale e finirono viaggi, festini e regali, per i mandati precedenti al 2001 Ormanni aveva già avuto la prescrizione dei reati, come pure per i viaggi di cui aveva beneficiato grazie alle regalie di Vernola. Viaggi pagati da Domenico Vernola con i soldi dello Stato, a Ormanni e ai suoi familiari, in mete esotiche. Ormanni aveva raccontato che le firme apposte su quei mandati non erano sue, ma ricalcate, una versione che non convinse i giudici che – a fronte di una richiesta di 2 anni e 8 mesi – calcarono la mano con una condanna pesantissima. Una pena cancellata, ieri pomeriggio, dopo una lunga camera di consiglio dai giudici della terza Corte d’appello di Roma. Prescritti anche i reati per Domenico Vernola, al quale furono inflitti altri 5 anni in continuazione per i mandati emessi dal 2001 al 2002, oltre ai quattro che gli erano stati comminati con rito abbreviato anni prima. Cancellate le condanne per i fratello di Domenico Vernola, Mario e Vladimiro e per la moglie Fulvia Mayer, la figlia Stefania accusati di aver riciclato i soldi sottratti dal Tribunale di Torre Annunziata e dal Ministero della Giustizia per acquistare appartamenti e beni di lusso. Cancellate e condanne variabili dai 3 ai 3 anni e 8 mesi inflitte agli esponenti delle forze dell’ordine che avevano beneficiato dei rimborsi per missioni inesistenti, restano le conferme solo per Forte, Limodio, Di Michele e Di Venosa che avevano rinunciato alla prescrizione confidando in una sentenza di assoluzione nel merito. Prescritti i reati e la condanna anche per Vincenzo Vacchiano, ex comandante della stazione di Vico Equense che partecipò alle indagini per la scomparsa di Angela Celentano e ad altre famose inchieste tra le quali Cheque to Cheque. Negli anni d’oro della Procura e del Tribunale di Torre Annunziata, più volte alla ribalta della cronaca per indagini che valicavano i confini della penisola, si spendevano centinaia di milioni di lire per cimici, intercettazioni, missioni all’estero. A liquidare i rimborsi era sempre il supercancelliere Domenico Vernola, con l’avallo del Procuratore capo Ormanni. Nell’ottobre del 2002, un mandato di arresto chiesto dall’allora sostituto procuratore Francesco Paolo Rossetti, nei confronti Vernola fece finire i fasti e la fama nazionale. I potenti caddero. Quattordici anni dopo il tempo ha cancellato anni di indagini e di ruberie. Trenta miliardi volatilizzati dei quali gli imputati e in particolare Alfredo Ormanni, ora potrebbero dar conto alla Corte dei Conti. (r. f.)

LE CONDANNE

ORMANNI ALFREDO

Prescrizione (sei anni)

SALOMONE EMILIA

assoluzione perché il fatto non costituisce reato (3 anni e 8 mesi)

VERNOLA DOMENICO

prescrizione (5 anni)

VERNOLA MARIO

Prescrizione (5 anni)

VERNOLA SALVATORE

Prescrizione (3 anni)

VERNOLA STEFANIA

prescrizione (3 anni)

MEYER FULVIA

prescrizione (5 anni)

L’INFANTE REGINA

prescrizione (5 anni)

PICCOLO GIUSEPPE

prescrizione (5 anni)

PICCOLO MARIO

prescrizione (5 anni)

PICCOLO RAFFAELE

prescrizione (5 anni)

MAYER VLADIMIRO

prescrizione (5 anni)

VACCHIANO VINCENZO

prescrizione (4 anni)

PISCIOTTA MASSIMO

prescrizione (5 anni)

ABETE GIUSEPPE

prescrizione (4 anni e 6 mesi)

DI VENOSA MAURIZIO

confermata la condanna a 4 anni

LIMODIO GIOSUÈ

confermata la condanna a 4 anni

PROFETA SERGIO

assolto perché il fatto non sussiste (3 anni e 8 mesi)

FORTE RAFFAELE

confermata la condanna a 3 anni e 8 mesi

IZZO GIORGIO

prescrizione (3 anni e 8 mesi)

DI MICHELE ANTONIO

 confermata la condanna a 3 anni e 8 mesi 

Picchiò una prostituta a Scafati dopo il rapporto: giudizio immediato per l’angrese Coppola

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tribunale nocera

Insieme a un complice portò due prostitute in un albergo di Scafati e poi pretese dalle donne la restituzione dei soldi che avevano appena pagato per le prestazioni sessuali. È stato rinviato a giudizio Francesco Coppola, 34 anni, di Angri che il 21 dicembre del 2014, dopo aver affittato due camere insieme al suo amico aggredì le donne. «Dammi i soldi o sei morta», disse alla ragazza dell’Est che aveva “agganciato” per avere un rapporto sessuale. I due amici, in effetti, avevano pagato in anticipo la prestazione chiesta alle due giovani e avvenenti ragazze, abbordate poco prima. Duecento euro per entrambe e in più l’affitto delle due camere dove si sarebbe dovuto consumare il rapporto sessuale. Dopo essere state insieme alle ragazze, però, Francesco Coppola e Giovanni D’Ambrosio, il complice per il quale è stata stralciata la posizione, pretesero la restituzione dei soldi. Ma una delle ragazze fece resistenza impedendo inizialmente a Coppola di impossessarsi dei soldi e del telefono cellulare. Insieme all’amica, anzi, la ragazza riuscì a scappare a bordo di una Smart, ma i due uomini, non contenti, le inseguirono in auto, le raggiunsero e le bloccarono: a quel punto Coppola – che è difeso dall’avvocato Ivan Nigro – sferrò un pugno alla giovane e le ruppe il naso, prima di impossessarsi della borsetta che conteneva 900 euro e scappare. Per quella folle notte d’amore, di paura e di violenza, l’angrese trentaquattrenne dovrà adesso affrontare il processo dinanzi ai giudici del Tribunale di Nocera Inferiore: lo ha deciso il giudice per l’udienza preliminare, Alfonso Scermino, nel corso dell’udienza che si è tenuta martedì. (r. f.)

Confiscato l’impero dei Righi: 80 milioni di euro di proprietà in tutta Italia. Erano i titolari della trattoria da “Ciro” in via Foria

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da ciro

I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma hanno dato esecuzione a un decreto di confisca dei beni emesso dal Tribunale di Roma-III Sezione Penale specializzata per l’Applicazione Misure di Prevenzione, nei confronti degli imprenditori Luigi, Antonio e Salvatore Righi e di Alfredo Mariotti, i primi tre arrestati dai Carabinieri di Roma nel gennaio 2014. Il provvedimento si basa sull’accertata pericolosita’ sociale dei predetti soggetti, fondata sul loro coinvolgimento in traffici delittuosi gestiti dalla camorra napoletana. I beni confiscati, gia’ sottoposti a sequestro di prevenzione nel gennaio 2014 su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, sono attualmente gestiti dagli amministratori giudiziari nominati dal Tribunale. Il procedimento di prevenzione si innesta nel contesto di una complessa ed articolata indagine avviata autonomamente dal Nucleo Investigativo Carabinieri di Roma, convenzionalmente denominata “Margarita”. I tre citati imprenditori napoletani Antonio, Luigi e Salvatore Righi, partendo dalla gestione della piccola pizzeria del padre (“da Ciro”) sita a Napoli in via Foria, si erano trasferiti negli anni 90′ a Roma, ove in poco tempo erano diventati proprietari di fatto di una holding di societa’ attive nella gestione di numerosissimi ristoranti/pizzeria ubicati nelle principali vie di pregio del centro storico della Capitale, con un volume d’affari palesemente sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati. Sull’ascesa imprenditoriale della famiglia Righi sicuramente ha influito il loro coinvolgimento nel sequestro di persona a scopo di estorsione di Luigi Presta, avvenuto a Napoli nel 1983.  All’epoca, Ciro, la moglie e i figli Luigi, Salvatore e Antonio Righi furono arrestati, poiche’ sospettati di aver riciclato parte del riscatto di un miliardo e settecento milioni di lire pagato dalla famiglia Presta per ottenere la liberazione del loro congiunto; a conclusione di un tortuoso iter giudiziario, Luigi e Salvatore furono condannati per riciclaggio. Le indagini della Dda di Roma e dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma hanno dimostrato che l’impero economico dei fratelli Righi veniva gestito con modalita’ illecite, mediante una rete di societa’ intestate a prestanome, finalizzate al reimpiego e all’occultamento di ingenti risorse economiche di provenienza illecita ed alla sottrazione delle imprese acquisite e gestite con il denaro sporco a possibili misure di prevenzione patrimoniale. I fratelli Righi, quindi, sono emersi quali stabili riciclatori per conto della camorra napoletana, al servizio, in particolare, del clan Contini, ai cui dirigenti Giuseppe Ammendola e Antonio Cristiano, Salvatore Righi corrispondeva periodicamente somme di denaro contante, costituenti il provento delle attivita’ riciclatorie svolte per conto del clan (cd. operazioni di money back). Il vincolo con il clan Contini non impediva peraltro ai Righi di proporsi quale punto di riferimento sulla Capitale per altri sodalizi camorristici, prescindendo dagli equilibri e delle alleanze tra i vari clan napoletani; del resto l’esperienza investigativa ha spesso evidenziato come ai riciclatori non venga richiesto quell’impegno di fedelta’ esclusiva normalmente preteso dagli affiliati appartenenti alle componenti militari dei clan. Le indagini dei Carabinieri di Roma hanno infatti rivelato la vicinanza di Antonio Righi anche al clan Mazzarella, avendo egli svolto attivita’ di riciclaggio e supporto logistico per conto di Oreste Fido, reggente del gruppo di Paolo Ottaviano operante in zona Mercato-Santa Lucia a Napoli, nonche’ la vicinanza di Ivano Righi, figlio di Salvatore, al clan Amato-Pagano, cosiddetti degli “scissionisti” di Secondigliano.  Napoli dopotutto, la famiglia Righi ha negli anni mantenuto delle basi operative rappresentate da alcuni locali e dal Centro Sportivo e dalla Societa’ Sportiva “Mariano Keller”, titolare di una squadra di calcio attualmente militante nel campionato di Serie D girone H. Il mondo del calcio delle serie minori e’ un settore in cui i Righi hanno nel tempo investito per impiegare le ingenti somme di denaro nero a loro disposizione e, in tale ambito, le indagini hanno svelato un intervento del clan Contini, su richiesta di Salvatore Righi, nei confronti di alcuni calciatori del Real Marcianise, affinche’ perdessero un incontro con il Gallipoli Calcio che, a conclusione della stagione 2008/2009 del campionato di Lega Pro, girone B, aveva bisogno di una vittoria, effettivamente avvenuta, per accedere alla serie B. L’accertamento dell’affiliazione, quali concorrenti esterni, dei tre fratelli Antonio, Luigi e Salvatore Righi a clan camorristici napoletani ha determinato lo spostamento da Roma a Napoli della competenza giurisdizionale sul procedimento, con il conseguente invio degli atti alla Procura della Repubblica – Dda – di Napoli che, valutando il corposo quadro indiziario gia’ acquisito dalla Dda e dai Carabinieri di Roma, peraltro suffragato dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, lo ha messo a sistema con i risultati di un piu’ ampio lavoro investigativo sul clan Contini. Nell’ambito del procedimento di prevenzione, avviato su proposta del Nucleo Investigativo di via in Selci nel contesto della citata indagine, si e’ proceduto, nel gennaio 2014 e nei mesi successivi, in esecuzione di decreti di sequestro anticipato emessi dal Tribunale di Roma, su richiesta della Procura della Repubblica di Roma – Dda di Roma al sequestro finalizzato alla confisca dei beni e rapporti finanziari riconducibili ai Righi e al Mariotti. Il provvedimento di confisca odierno colpisce la quasi totalita’ dei citati beni e rapporti finanziari, per un valore complessivo di oltre 80 milioni di euro e in particolare: 28 esercizi commerciali di bar/ristoranti/pizzerie, ubicati a Roma (24), Napoli e Provincia (3) e Gabicce Mare (1); 41 beni immobili ubicati in Roma (16 fabbricati), Napoli (12 fabbricati), Caserta (5 fabbricati), Benevento (7 terreni), Rieti (1 terreno); 385 rapporti finanziari/bancari; 76 veicoli, di cui 57 autovetture, 1 roulotte, 18 motocicli; 77 societa’ titolari di parte dei suddetti beni; 300mila euro di denaro contante rinvenuti nel corso delle operazioni.


Appalti, politica e camorra: arrestato l’ex sindaco di Grazzanise con sei impreditori e il responsabile dell’ufficio tecnico

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Grazzanise. Associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, turbata libertà degli incanti, falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale, intestazione fittizia di beni e reati in materia di armi, tutti con l’aggravante del metodo mafioso. Sono queste le accuse contestate, a seconda delle singole posizioni, ad 8 persone arrestate (di cui 6 in carcere e 2 agli arresti domiciliari) nelle prime ore del mattino nella provincia di Caserta dai carabinieri della compagnia di Santa Maria Capua Vetere, in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare. Tra gli arrestati figura anche Enrico parente, ex sindaco di Grazzanise e medico, già coinvolto nell’inchiesta per la latitanza del boss Michele Zagaria. Gli accertamenti hanno portato al coinvolgimento sia dell’ex sindaco che dell’attuale responsabile dell’ufficio tecnico del comune di Grazzanise oltre ad alcuni imprenditori casertani. Il provvedimento restrittivo è stato deciso dal gip del tribunale di Napoli su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Le indagini hanno consentito di acclarare per gli anni 2008 e 2009, le infiltrazioni della criminalità organizzata nel comune di Grazzanise ed i rapporti intrattenuti, dall’allora primo cittadino, con soggetti legati al clan “dei Casalesi”. Nel mirino degli inquirenti i lavori per la realizzazione del collettore fognario, che sarebbero andati a ditte collegate al clan camorristico. Prima dell’arresto di stamani Parente era già stato coinvolto in inchieste della Dda partenopea in quanto accusato di essersi recato nel 2009 in Austria per visitare il boss Michele Zagaria durante la latitanza; per questo fu anche condannato a due anni di carcere per favoreggiamento aggravato. Tra gli imprenditori arrestati oggi figura poi Alessandro Zagaria, già finito in carcere la scorsa settimana perché coinvolto nell’altra inchiesta antimafia sul vicino Comune di Santa Maria Capua Vetere, per la quale è stato arrestato l’ex sindaco Biagio Di Muro ed è stato indagato l’ormai ex presidente del Pd campano nonché consigliere regionale Stefano Graziano.
Enrico Parente, è accusato di concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso; l’imprenditore Alessandro Zagaria, già coinvolto nell’inchiesta sull’ex sindaco di Santa Maria Capua Vetere Biagio Di Muro e il consigliere regionale Stefano Graziano; e l’attuale responsabile dell’ufficio tecnico di Grazzanuse Maurizio Malena, ai domiciliari. L’ex sindaco di Grazzanise nel 2013 e’ stato già condannato in primo grado per aver favorito la latitanza del boss Michele Zagaria.Parente, medico, fu condannato a due anni per favoreggiamento. Secondo la ricostruzione che fecero gli investigatori, 24 gennaio 2009 Parente, a bordo della sua Alfa 166, partì da Grazzanise per raggiungere Innsbruck, in Austria, per curare il capoclan all’epoca latitante, inserito nell’elenco dei trenta ricercati più pericolosi d’Italia. Il viaggio doveva rimanere segreto ma gli inquirenti lo intercettarono perchè pochi giorni prima qualcuno aveva sparato colpi d’arma da fuoco contro la sua auto e così i suoi telefoni erano stati messi sotto controllo. Parente, espressione di centrodestra, è stato sindaco di Grazzanise per due mandati consecutivi.
Negli anni 2008-2009 il Comune di Grazzanise, secondo la Dda della Procura di Napoli, era ”pesantemente infiltrato” dal clan dei Casalesi, tanto che numerose gare d’appalto, tra cui la più importante relativa ai lavori per la realizzazione del collettore fognario, del valore di tre milioni di euro, fu aggiudicata ad imprenditori facenti riferimento al clan allora guidato da Nicola Schiavone, figlio del capoclan Francesco “Sandokan” Schiavone. Questo è quanto emerge dall’ultima inchiesta della Dda di Napoli su intrecci tra camorra, politica ed enti locali, che oggi si è abbattuta sul comune casertano con l’arresto di Parente, finito in carcere con altre cinque persone, tra cui gli imprenditori Francesco e Nicola Madonna, fratelli, e Alessandro Zagaria, che si sarebbero aggiudicati la gara. Il Gip del Tribunale di Napoli ha poi disposto i domiciliari per l’attuale responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Grazzanise Maurizio Malena e per l’imprenditore Carlo Noviello. L’ente fu anche sciolto per infiltrazioni camorristiche nel 2013 (si è tornati al voto nel 2015, ndr) dopo che emersero i legami tra Parente e il boss Michele Zagaria; l’indagine odierna trae spunto proprio da quell’inchiesta, ed è stata alimentata dalle fondamentali dichiarazioni di importanti collaboratori di giustizia del gruppo Schiavone come Roberto Vargas e dagli accertamenti compiuti dalla Commissione d’Accesso inviata dalla prefettura che, analizzando gli atti della gare d’appalto, ha scoperto numerose irregolarità e condotte illecite.

Omicidio Amendola: Formicola e Tabasco scarcerati per la mancanza di un movente

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tabasco nunziato e formicola

Secondo i giudici della decima sezione, collegio B, del Tribunale del Riesame, Geatano Formicola “’o chiatto” e Giovanni Tabasco “birillino”, accusati dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere del 18enne Vincenzo Amendola, sono stati scarcerati perché non c’era il movente in quell’omicidio raccontanto da Gaetano Nunziato, che quindi è risultato non attendibile. La presunta relazione di Amendola con la mamma di Formicola rimane tale quindi non c’è movente. Anche se lo stesso tribunale del Riesame lo ha ritenuto credibile quando ha palato del contesto. “Si deve evidenziare, però, – si legge nelle motivazioni – che nelle dichiarazioni spontanee del 18.2.2016 e nel successivo interrogatorio del 19.2.2016 il predetto (Nunziato, ndr) non ha operato alcun riferimento al movente dell’omicidio di Amendola Vincenzo. Da una lettura complessiva del narrato emerge, anzi, che il Nunziato dimostra di non conoscerlo o quanto meno di non volerne riferire. Solo nell’interrogatorio di garanzia del 20.2.2016 e in quello reso al P.M. il successivo 4.4.2016 il collaboratore ha fatto riferimento alla relazione tra il ragazzo ucciso e la donna, della quale era venuto a conoscenza non per averlo appreso da appartenenti alla famiglia Formicola, ma perché da circa una settimana  “se ne parlava in giro, lo sapevano tutti perchè era Amendola che lo andava dicendo in giro”. E per questo che i giudici del Riesame speigano ancora nelle motivazioni: “Ad avviso del Collegio, il narrato di Nunziato Gaetano su tale punto non appare del tutto credibile, fermo restando il giudizio di piena attendibilità soggettiva e oggettiva del collaboratore nella restante parte delle dichiarazioni. Si deve rilevare, infatti, che nell’immediatezza il chiamante in correità non ha nemmeno accennato a tale rilevante circostanza, riferita a distanza di giorni e quando i mezzi d’informazione avevano diffusamente parlato dell’omicidio di Amendola Gaetano, che ha avuto un’eco vastissima nell’opinione pubblica. Le dichiarazioni, poi, sono molto generiche, poiché il collaboratore si è limitato a riferire una voce corrente nel quartiere”. E ora si attende la decisione della Cassazione dopo che la Dda di Napoli ha fatto ricorso contro la scarcerazione dei due.

 

Napoli, ragazzo morto per crollo in Galleria: 7 a giudizio

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salvatore giordano galleria umberto

Sono stati rinviati a giudizio i sette imputati – tra tecnici del Comune, amministratori di condominio e direttore dei lavori – sotto accusa per la morte. avvenuta il 9 luglio 2014, del 14enne Salvatore Giordano provocata dal crollo di un frontone della Galleria Umberto I, in via Toledo a Napoli. Lo ha deciso oggi il gup del Tribunale di Napoli Mariella Montefusco, che ha accolto le richieste dei pm Stefania Di Dona e Lucio Giugliano, titolari dell’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Lucantonio. Le accuse contestate a vario titolo sono di omicidio e disastro colposi. Il processo comincerà il 5 ottobre davanti alla quarta sezione del Tribunale.Il crollo fu proceduto da una serie di distacchi di fregi e cornicioni, sempre sulla facciata di via Toledo, avvenuti tra il gennaio e il marzo dello stesso anno. Secondo i magistrati vi sarebbero state, tra l’altro, omissioni nella segnalazione di pericolo che avrebbe dovuto imporre interventi atti a scongiurare il crollo. Rinviati a giudizio Giovanni Spagnuolo e Salvatore Capuozzo, dirigenti in epoche diverse del Servizio sicurezza abitativa del Comune di Napoli, i tecnici del servizio protezione civile Giuseppe Africano e Franco Annunziata, gli amministratori di condominio Mariano Bruno e Marco Fresa, e Elio Notarbartolo, direttore dei lavori.

Maxi processo al clan Mariano: tutti i “picuozzi” hanno chiesto lo sconto di pena

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Il capo clan Ciro Mariano

Hanno scelto di essere processati scegliendo il rito abbreviato i fratelli Ciro e Marco Mariano e con loro anche tutti i componenti della famiglia dei famigerati “Picuozzi” dei Quartieri Spagnoli. Complessivamente sono in 38 che vorranno beneficiare dello sconto di pena previsto. Per loro il processo inizierà il 20 giugno prossimo. Le accuse per tutti sono di associazione per delinquere di stampo mafioso (che non riguarda però i due imprenditori coinvolti), estorsione, ricettazione, traffico di stupe- facenti, detenzione e porto abusi- vi di armi comuni e da guerra. Il maxi processo quindi si divide perché gli altri 44  imputati che hanno chiesto di essere processati con il rito ordinario perché vogliono dimostrare in aula la loro estraneità compariranno in aula il 26 giugno.Il 20 giugno prossimo quindi il pubblico ministero discuterà la requisitoria. Ciro Mariano, in particolare, aveva chiesto nel corso dell’ultima udienza l’accesso all’abbreviato condizionato all’escussione del collaboratore di giustizia Augusto La Torre. Il gup ha però rigettato l’istanza decretando quindi il rito abbreviato “secco”. Il ras “Marcuccio”, che era stato arrestato a fine estate considerato dagli investigatori il vero stratega della cosca nella scorsa udienza fece delle dichiarazioni spontanee scagionando moglie e parenti. Ora non resta che attendere le richieste di pena da parte della pubblica accusa alla prossima udienza. Almeno per quelli come lui e i suoi familiari che hanno scelto il rito abbreviato.

RITO ABBREVIATO 20 GIUGNO

MARIANO MARCO 1955

MARIANO CIRO 1952

CARDAROPOLI ANTONIO

CASTALDO ANTONIO

CINQUE PATRIZIA

DE CRESCENZO EDOARDO

DI MEGLIO ANTONIO

DRESDA ANNAMARIA

FESTA ANTONIO

FLAMINIO GIANCARLO

DANIELA FRANCO

PATRIZIO FRANCO

FRATTINI UMBERTO

GAETANO LUISA

MAGRELLI COSTANZO

MARIANO FABIO  1981

MARIANO MARA  1990

MARIANO MARCO 1976

MARIANO RAFFAELE 1975

MARIANO SALVATORE 1971

MASIELLO ANTONIO

MASIELLO GAETANO

MASTRACCHIO PAOLO

OVERA MAURIZIO

PASSARO GIUSEPPE

PERRELLA ARMANDO

QUINZIO MARIA

RICCI VINCENZO

ROMANO CIRO

ROSSI FABIO

SAVIO PIETRO

STILE TOBIA

SORIO EMANUELE

TAGLIALATELA ELVIRA

TECCHIO CONCETTA

TECCHIO ERNESTO

TORTORA MARIO

 

RITO ORDINARIO 26 GIUGNO

 

CACACE EUGENIO

CALDARELLI UMBERTO

CAMMAROTA ANTONIO

CAPANO VALENTINA

CINQUE MARIANNA

CORCIONE ANNA

COSTABILE CIRO

DANIELE SALVATORE

FLORIO GENNARO

FRACASSO ALFREDO

FURGIERO CARMINE

GALLO CIRO

GALLO MASSIMO

GAUDINO LUIGI

GRUOSSO ALFONSO

IULIUCCI MARIO

LECCIA CIRO

MARIANO CLOTILDE

MASIELLO PASQUALE

MINGARELLI DANIELE

MOCCARDI ROBERTO

MORMILE FRANCESCO

PALMIERI GIANLUCA

PASTORE RAFFAELE

PERRELLA FRANCESCA

PULENTE GIOVANNI

PULEO CORRADO

RAPILLO GENNARO

RAPILLO PASQUALE

RAPILLO SALVATORE

RICCI BENEDETTO

RICCI ENRICO

RICCI GENNARO

RODRIGUEZ MENDES

SAHAI VIJAY

SARTORE ALFREDO

SAVIO GIOVANNA

SAVIO MARIO

SELILLO GENNARO

TRONGONE ARCANGELO

TRONGONE RAFFAELE

USSANO LUIGI

VOLPE GIUSEPPE

ZITO ENRICO

(nella foto il capo clan Ciro Mariano)

Villaricca, uccise il vicino perché aveva il volume della tv troppo alto, pena ridotta a 16 anni in Appello

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miccio e chianese

I giudici della Corte di Appello di Napoli hanno ridotto a 16 ani la condanna nei confronti del 75enne di Villaricca, Giovanni Chianese che la sera del 12 giugno 2014, al Corso Italia uccise il suo vicino, Davide Elia Miccio, di 29 anni, colpevole a suo dire di infastidirlo tutte le sere con il volume della tv troppo alto. In primo grado l’anziano  era stato condannato a 24 anni di carcere. Oggi il giudice Zeuli, presidente della IV Sezione della Corte di Appello di Napoli, ha accolto la richiesta presentata dall’avvocato di Chianese, Matteo Casertano, di revocare l’aggravante del “futile motivo”, riconoscendo invece l’attenuante della “provocazione” da parte della vittima, Elia Miccio. Per tale motivo, è arrivato lo sconto di pena per il 75enne. Un mese e mezzo fa la Corte d’Assise d’appello, su sollecitazione delle parti civili, difese dall’avvocato Gennaro Turco, dispose il sequestro conservativo dell’abitazione del 75enne Giovanni Chianese che era stata messa in vendita. Ciò sarebbe andato in contrasto con la richiesta di risarcimento danni delle parti civili accolta dal giudice. L’omicidio avvenne la sera del 12 giugno 2014, al Corso Italia a Villaricca, nei pressi dell’abitazione di Miccio. I due vicini aveva litigato qualche ora prima. Il giovane rientrava a casa a bordo di una Peugeot 207, quando l’allora 74enne Giovanni Chianese, esplose una serie di colpi che freddarono Miccio. Chianese dopo aver ucciso il 29enne, si rifugiò in un terreno attiguo alla villetta dove i due vivevano, ma fu subito scoperto e arrestato.

(nella foto da sinistra la vittima Davide Elia Miccio e a destra l’assassino Giovanni Chianese)

Sant’Antimo, omicidio di Francesco Verde la Cassazione cancella la condanna per Pasqualino ‘o minorenne

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pasquale puca

Sant’Antimo. Accusato di essere il mandante dell’omicidio di Francesco Verde ‘o negus, annullata la sentenza per Pasquale Puca, alias ‘o minorenne. La Corte di Cassazione ha cancellato la condanna emessa in primo e secondo grado nei confronti dell’uomo che il 28 dicembre 2007 inviò i killer ad uccidere il sanguinario capo della cosca dei Verde, all’epoca 58enne. Gli Ermellini, accogliendo il ricorso degli avvocati Saverio Senese e Giovanni Esposito Fariello che hanno sostenuto la violazione del diritto di difesa hanno rinviato gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Napoli per un nuovo processo.  Francesco Verde fu ucciso in un agguato nel corso del quale fu ferito il nipote Mario ‘o tipografo, 32enne. Il boss detto anche “’o Negus”, fu ucciso perché costituiva un agguerrito concorrente del clan Puca, molto attivo nella zona a nord di Napoli, ed in particolar modo nella zona compresa tra Sant’Antimo, Casandrino e Grumo Nevano. Ad inchiodare Puca furono le indagini dei Carabinieri di Castello di Cisterna supportati dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. In manette finirono tre persone Ferdinando Puca, Vincenzo Marrazzo, soprannominato “Enzuccio l’elettrauto”, diventato pentito, e Pasquale Puca, 45 anni, detto Pasqualino “’o mi- norenne”. L’uccisione di Francesco Verde fu decisa anche per vendicare l’agguato avvenuto l’anno prima ad Antonio Marrazzo, fratello minore, di Vincenzo, che al momento era il reggente del clan. Francesco Verde era il boss del clan camorristico attivo nei comuni di Sant’Antimo, Casandrino e Grumo Nevano, nell’hinterland napoletano. Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta la cosca di Verde si contrappose alle “famiglie” dei Puca e dei Ranucci, uno scontro al quale vengono attribuiti numerosi omicidi. Soprannominato ‘o negus per la sua carnagione scura, Verde fu coinvolto in diverse inchieste su omicidi e traffico di stupefacenti. Nel 1993, grazie a un permesso premio, si allontanò dal soggiorno obbligato in una casa lavoro di Modena dandosi alla latitanza. Il boss fu catturato due anni dopo dai carabinieri alla periferia di Napoli. I Verde contavano su stretti legami con la camorra casertana: in particolare con Francesco Schiavone, meglio conosciuto come “Sandokan”.

(nella foto Pasquale Puca)

Terza faida di Scampia: ecco tutti i retroscena e le intercettazioni del duplice omicidio Stanchi-Montò

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il luogo del duplice omicidio

Napoli. Duplice omicidio Stanchi-Montò le rivelazioni dei pentiti svelano i delitti della terza faida di Scampia. E’ quanto emerge dalle indagini che hanno portato in carcere sette persone. «Fabio Magnetti sparò in bocca a “Lello bastone” e affianco a lui c’era Umberto Accurso, suo cugino. Quest’ultimo divenne un capo della “Vinella” proprio dopo quel delitto: fu il suo battesimo del fuoco». Tre pentiti raccontano cosa è accaduto nella guerra di camorra all’ombra delle vele. Svelato il duplice omicidio di Raffaele Stanchi e Luigi Montò grazie all’importante contributo fornito da Rosario Guarino detto “Joe banana”, ex boss della Vanella Grassi passato con lo Stato. uno dei killer della faida, però. ieri mattina è sfuggito all’arresto, l’unico degli otto destinatari della misura cautelare eseguita dalla Polizia. E’ Umberto Accurso, già latitante per gli agguati mortali ai fratelli Carlo e Antonio Matuozzo. Secondo i pentiti, Raffaele Stanchi, ras dei traffici di stupefacenti secondo Arcangelo Abete, e il suo guardaspalle Luigi Montò furono attirati in un tranello e ammazzati a Miano nell’abitazione di Car- lo Matuozzo, allora fedele braccio operativo per la droga della “Vinella”. Era l’8 gennaio 2012, ma i cadaveri furono trovati carbonizzati la mattina dopo nei pressi del cimitero di Melito. Era un tentativo per depistare le indagini, ma soprattutto disorientare i nemici di camorra, facendo credere a un’epurazione interna.

Gli uomini della “Vanella” infatti allora erano formalmente alleati degli Abete-Abbinante- Notturno-Aprea, ma stavano già facendo il doppio gioco ritornando con gli Amato-Pagano, la cui area d’influenza principale era proprio Melito. La trappola scattò a Villaricca, dove Stanchi e Montò si recarono ad un appuntamento, da lì poi partirono con tre auto per andare a Miano dove le due vittime credevano ci fosse stato un summit per il traffico di stupefacenti. in casa di Matuozzo  “Lello bastone” e il fidato guardaspalle furono legati, imbavagliati e torturati con l’obiettivo di scoprire dove fossero due milioni di euro sottratti all’organizzazione per favorire Arcangelo Abete. Ma le vittime non parlarono. Una volta uccisi, Stanchi e Montò furono rimessi in auto e bruciati a Melito. Inizialmente gli investigatori si concentrarono sugli Amato-Pagano, nel cui territorio a bordo di una Fiat Punto rubata c’erano i cadaveri, o anche un gesto di sfida verso di loro. Ma la realtà superava la fantasia e i “Girati”, chiamati così proprio per la disinvoltura e abilità delle loro giravolte negli ambienti di camorra, diedero il via alla fase decisiva della terza faida di Scampia.

Stanchi, secondo gli inquirenti, fu ucciso perchè non aveva pagato una partita di droga ai Vanella-Grassi. Prima di dargli fuoco già cadavere, gli fu tagliata la mano destra, quella che si usa abitualmente per maneggiare i soldi: un chiaro segnale a chi doveva capire che il movente stava nel mancato pagamento della sostanza stupefacente, Uno “sgarro” imperdonabile per il clan Magnetti-Mennetta- Petriccione, ma soprattutto emerse la volontà di espansione del gruppo, per il quale la vittima rappresentava un ostacolo. Decisivo, per ricostruire movente e retroscena e capire quale clan avesse organizzato l’agguato, si è rivelato il riascolto di un’intercettazione ambientale risalente al 31 ottobre 2011. “Lello bastone” conversava con un uomo non identificato, affiliato anch’egli agli Amato-Pagano, e i due fecero riferimento all’intenzione di non pagare quelli della “Vinella” (il cartello Petriccione-Mennetta-Magnetti, alleatosi con i Marino e i Leonardi) per la droga. Ecco alcuni passaggi registrati dalla microspia. Erano le 16 e i due si trovavano in macchina.

Lello: «Non si fa niente manco al bar….». Sconosciuto: «Che cosa Lellù?».
Lello: «’O bar…».
Sconosciuto: «Perché non stai lavorando?…»

Lello: «(incomprensibile)» Sconosciuto: «Azz, a posto di andare avanti, andiamo indietro allora?». Lello: «..Lello bastone ti dava 3-4mila euro al mese, stai a posto, che tieni da vedere? 3 o 4 di là e 2 la pizzeria…sette….cazzo chi sta meglio di te? ..Nessu- no».

Sconosciuto: «Ora devo vedere di organizzarmi un altro poco, perché so pochi…non abbiamo abboccato neanche niente più..».

Lello: «…io avevo inciarmato con quello scornacchiato di quel Carletto là …quello ci ha ucciso a noi..».
Sconosciuto: «Gli devo far uscire la merda dalla bocca, gli devo fare una sfaccimma di paliata…come non ci sta più la Vanella…senti, ti faccio vedere, vado là, mi prendo la roba, non la pago….metti qua….metti».

Lello: «Se non era a fine di mese ci abbuscavamo nà cosa…».

Anche Raffaele Guarino, ex ras della Vanella Grassi, ora pentito, parla del movente dell’omicidio Stanchi. : “Mariano Riccio e Carmine Cerrato, che pren-devano le decisioni insieme, ingiuriarono Raffaele Stanchi perché a loro dire si era rubato tutti i soldi dei soci delle Case dei Puffi quand’erano Amato-Pagano e dissero che era loro volontà uccidere Raffaele Stanchi. Io dissi che anche noi della “Vinella” lo volevamo uccidere perché non si era mai comportato bene con noi, favorendo esclusivamente Arcangelo Abete. Poi l’incontro fini”. Le dichiarazioni di maggio dello scorso anno hanno riaperto le indagini sul duplice omicidio Stanchi-Montò. Guarino conferma quanto dichiarato dall’altro pentito Carmine Cerrato a proposito dell’omicidio di Fortunato Scognamiglio, ed ha permesso agli inquirenti di fare un ulteriore passo in avanti nelle indagini sull’uccisione di Raffaele Stanchi e Luigi Montò.

Ma Guarino fornisce agli inquirenti anche un quadro sulla nuova alleanza della “Vanella Grassi” e gli Amato-Pagano. La riunione decisiva si svolse a novembre del 2011 e il patto, firmato alle spalle degli Abete- Abbinante-Notturno, restò segreto fino al tentato omicidio di Giovanni Esposito “’o muorto”. Quel giorno, il 5 luglio 2012, furono arrestati i presunti responsabili del raid in via Roma-verso Scampia e tutti seppero che erano due affiliati ai Leonardi- Marino, anch’essi passati dall’accordo con gli Abete-Abbinante a volerne la morte. «In uno degli incontri con gli Amato-Pagano, svoltosi a Giugliano, c’erano Mariano Riccio, Carmine Cerrato “Tekendò”, Mirko Romano, Francesco Paolo Russo detto “Cicciariello” e Antonio Caiazza. Per la “Vinella Grassi” eravamo io e Gennaro Lucarelli- dice Guarino -. Si discusse della possibilità di stringere un’alleanza di nuovo e io dissi che non c’era alcun problema. Io infatti ne avevo già discusso con Antonio Mennetta e Fabio Magnetti, con i quali si era deciso che se gli Amato-Pagano ci avessero rifornito di cocaina, avremmo dato loro la possibilità di allearsi nuovamente con noi”.

Un altro partecipante al sequestro di Raffaele Stanchi e Luigi Montò fu Gianluca Giugliano, fino al pentimento esponente di spicco del clan Marino delle Case Celesti, al cui gruppo fa parte anche un altro destinatario dell’ordinanza di custodia cautelare: Francesco Barone. Il collaboratore di giustizia ha raccontato le fasi del rapimento. «Volevamo andare a prendere Raffaele Stanchi al “Bingo”, ma sapemmo che quella sera sarebbe rimasto a casa per vedere la partita del Napoli».

Giugliano spiega le fasi del sequestro e delle torture: «L’accordo era di tenerli in vita, anche se Luigi Montò dei due milioni di euro non sapeva niente e poteva morire. “Lello bastone” no, doveva darci i soldi e perciò volevano solo farlo parlare. Perciò lo chiudemmo in uno stanzino e cominciammo a picchiarlo. Lui ripeteva di non essersi preso niente: né per lui né per Arcangelo Abete. A un certo punto Fabio Magnetti perse la pazienza e gli sparò. Nel frattempo era già stato ucciso Montò».
L’interrogatorio fu pressante, ma infruttuoso. Raffaele Stanchi non crollò, anche perché forse le accuse non erano vere. In ogni caso, ripeteva “non è vero, non è vero”, pesto e sanguinante. Fino a quando fu portato all’esterno dell’abitazione, dove aveva lasciato il suo amico e autista Luigi Montò vivo. Invece, quando uscì, lo vide morto e svenne. “Allora Fabio Magnetti, che già nello sgabuzzino aveva perso la pazienza più volte, gli sparò”.

Umberto Accurso Antonio Mennetta Francesco Barone Luigi Aruta Fabio Magnetti Eduardo Zaino Ciro Castiello

(nella foto di copertina  il luogo dove furono ritrovati i due cadaveri)


Scafati: la Corte dei Conti chiede il processo per Aliberti, 5 assessori e la segretaria Di Saia

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sindaco aliberti

Progetti obiettivo e pagamento della produttività: la segretaria comunale Immacolata Di Saia confessa e il procuratore della Corte dei Conti chiede il rinvio a giudizio per politici, amministratori e dirigenti del Comune di Scafati. La segretaria ha “confessato”, dinanzi ai militari della guardia di finanza della compagnia di Scafati, che i progetti obiettivo elargiti nel 2008 ai dipendenti comunali compensarono il lavoro straordinario e che tutte le decisioni assunte per quell’anno, compresa l’adozione della delibera che stanziava il fondo, furono prese con l’accordo della giunta, del sindaco Pasquale Aliberti e dei dirigenti. Una pianificazione dell’illegalità, secondo la Corte dei Conti, che ha prodotto un danno erariale di circa settecentomila euro. «Ricordo che ci fu un accordo unanime tra me, la giunta e i capisettore incaricati della dirigenza dell’epoca – ha confessato Di Saia – per l’attuazione di quelle attività dichiarate a progetto obiettivo. In particolare era il sindaco Pasquale Aliberti e i rispettivi assessori che sollecitavano la compensazione al personale con le retribuzioni delle attività svolte fuori dall’orario di lavoro». Nel 2008 furono stanziati circa 500mila euro per pagare formalmente i progetti obiettivo, cioè quel lavoro finalizzato a produrre servizi aggiuntivi a quelli già erogati dai dipendenti pubblici. In realtà, si è scoperto, quel fondo fu utilizzato per pagare le ore di straordinario visto che non venivano calcolate come tali quelle in cui i dipendenti pubblici erano rimasti fuori dall’orario previsto. A luglio dello scorso anno era arrivato l’invito a controdedurre da parte del procuratore della Corte dei Conti, e ora lo stesso procuratore ha chiesto il rinvio a giudizio per il sindaco Angelo Pasqualino Aliberti, l’ex vicesindaco Giacinto Grandito, gli assessori Filippo Sansone, Mario Santocchio, Guglielmo D’Aniello, Stefano Cirillo e Cristoforo Salvati, la segretaria comunale Immacolata Di Saia, la dirigente Laura Aiello, l’ex dirigente dei servizi finanziari, Emilio Gallo, e i capisettore che richiesero i rispettivi finanziamenti per i dipendenti del proprio settore. Dinanzi alla Corte dei Conti dovranno presentarsi l’ex comandante dei vigili urbani, Carmine Arpaia, Anna Sorrentino, Maddalena Di Somma, Vittorio Minneci e Antonio Ariano del settore urbanistica, Nicola Fienga, dei servizi per il territorio. Addebiti contabili sono stati ipotizzati anche nei confronti del presidente dei revisori contabili, Angelo Santonicola, e dei componenti del collegio, Biagio Esposito e Antonio Martone: i tre vengono accusati di non aver svolto il controllo sulla contrattazione decentrata integrativa e non aver riscontrato l’illegittima composizione del fondo. (r.f.)

Ventitrè anni di carcere alla banda che da Barra faceva rapine in provincia di Salerno

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tribunale salerno

Ventitré anni di carcere per la gang di rapinatori che da Barra commetteva le rapine in trasferta e in modo particolare nelle provincia di Salerno. E’ stato il gup Donatella Mancini del Tribunale di Salerno ad emettere ieri la sentenza a carico di Giovanni Pagano, Salvatore De Marco e Salvatore Limatola. Dalle indagini è emerso che la banda ha messo a segno otto colpi tra Salerno, Pontecagnano, Capaccio e Agropoli ma risultano indagati anche in altri colpi messi a segno nell’Avellinese e a Formia. I tre prendevano di mira i distributori di benzina e agivano sempre con la stessa modalità: due scendevano dall’auto armati e minacciano il titolare della pompa dei benzina per farsi consegnare l’incasso , il terzo invece era alla guida pronto per la fuga. la banda fu individuata lo scorso anno grazie alle indagini compiute dai carabinieri della compagnia di Battipaglia. Un lavoro meticoloso fatto di ricerca delle immagini dalle telecamere di video sorveglianza e poi il confronto con il data base dei pregiudicati napoletani.

Il pentito dei Casalesi: “Sandokan comanda ancora dal 41 bis”

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“Il camorrista più pericoloso è Francesco Schiavone, alias Sandokan, che comanda ancora, anche dal 41 bis”. Così, in una intervista alla Tgr Campania, Massimiliano Caterino, oggi collaboratore di giustizia ma, per trent’anni, braccio destro e poi cassiere del capo dei capi del clan dei Casalesi Michele Zagaria, detto “capa storta”. Caterino ricorda cosa lo ha spinto a diventare un camorrista: “Da noi si è sempre respirata aria di camorra. Già a dieci anni…eravamo affascinati da come venivano venerati, da come si vestivano, dalle macchine che avevano. I grandi imprenditori e li professionisti le veneravano e le ossequiavano queste persone”. “Per me – dice ancora l’ex luogotenente di Michele Zagaria – essere un camorrista significava che tutto diventava facile. Si guadagnava rispetto, tutte le porte erano aperte, i professionisti erano a tua disposizione”. Caterino sottolinea, con le sue parole, anche il livello di pervasività che il clan dei Casalesi aveva nel Casertano: “Noi risolvevamo tutti i problemi, – dice – vertenze sindacali, vertenze matrimoniali, qualsiasi problema noi lo risolvevamo in cinque minuti”. Poi, traccia le differenze con la camorra napoletana: “Noi eravamo più molto più riservati, più umili, più seri, mentre a Napoli sono più chiassosi, diciamo alla Setola (il killer Giuseppe Setola, ndr)”. Infine Massimiliano Caterino parla dei viaggi che l’ex primula rossa del clan dei Casalesi faceva durante la latitanza, durata quasi 16 anni: “Andava fuori Italia, – dice – in Europa, in America, in Australia” grazie “ai documenti che gli venivano forniti dai professionisti”, a cui “noi cambiavamo la fotografia”.

Giugliano: confermate in Appello le condanne al boss Dell’Aquila e ai suoi fratelli

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giuseppe dellaquila

Sono state confermate dai giudici della V Sezione della Corte di Appello di Napoli (pres. Stanziola)  le condanne ai tre fratelli Dell’Aquila.Il boss Giuseppe, detto ‘0 ciuccio, è stato condannato a 21 anni di reclusione. Sentenza di primo grado confermata in appello anche nei confronti degli altri due fratelli Giovanni e Domenico  che hanno incassato rispettivamente 14 e 13 anni di carcere. Per il pm Maria Cristina Ribera i tre fratelli Giovanni, Domenico e Giuseppe sono a capo di un vero e proprio clan, un tempo costola dei Mallardo di Giugliano. La sentenza di Appello nell’ambito dell’inchiesta ‘Arcobaleno’, il blitz del 23 marzo 2010 dove furono arrestati i fratelli Dell’Aquila e sequestrati beni per 400 milioni di euro. L’organizzazione criminale aveva costituito numerose società, le cui quote venivano generalmente intestate a prestanome scelti tra il nucleo familiare o tra persone di comprovata fiducia, attraverso le quali si mettevano in atto speculazioni edilizie o altri investimenti apparentemente leciti ma che invece servivano per riciclare il denaro illecito.

(nella foto il boss giuseppe dell’aquila)

Terra dei Fuochi: al processo “Resit” la Dda chiede 280 anni di carcere

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chianese_cipriano

Pene per complessivi 280 anni di carcere sono stati chiesti dal pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, Alessandro Milita, al termine della requisitoria del processo cosiddetto “Resit”, che vede imputate 29 persone accusate di disastro ambientale, traffico illecito di rifiuti, aggravati dall’aver agevolato il clan dei Casalesi, reati commessi in relazione all’inquinamento della discarica di Giugliano, una “bomba ecologica” utilizzata anche durante il periodo dell’emergenza rifiuti dal Commissariato. In particolare il sostituto procuratore Milita ha chiesto 30 anni di carcere per i principali imputati: Giulio Facchi, ex sub-commissario all’emergenza rifiuti in Campania tra il 2000 e il 2004, nel periodo in cui era Bassolino commissario governativo, Cipriano Chianese, considerato dagli inquirenti il “re dell’ecomafie” e Gaetano Cerci, altro imprenditore dei rifiuti legato ai Casalesi; 24 anni di carcere sono stati chiesti per l’imprenditore Elio Roma, 22 anni per i fratelli Generoso e Raffaele Roma.

(nel riquadro Cipriano Chianese, considerato dagli inquirenti il “re dell’ecomafie”)

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