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Cocaina nei doppi fondi dei tir: 3 secoli di carcere per i clan Gionta, Nuvoletta e Di Gioia. TUTTE LE CONDANNE

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Tre secoli circa di carcere sono stati inflitti dalla Corte d’Appello di Napoli ai 35 imputati dei tre clan della provincia di napoli che importavano dalla Colombia fiumi di droga in Italia. Aceavno creato un cartello criminale con il clan Gionta di Torre Annunziata che guidava l’import di cocaina insieme ai Di Gioia di Torre del Greco e Nuvoletta di Marano, con i quali organizzava le “puntate” e smistava enormi carichi di stupefacenti in tutte le piazze di spaccio
A capo del gruppo c’era Raffaele Sperandeo, cognato del boss Aldo Gionta. I carichi di droga viaggiavano a bordo di tir, grazie a doppifondi nei camion della ditta di Gaetano Antille, imprenditore condannato a 10 anni. La sua azienda è stata confiscata, insieme a terreni e abitazioni degli altri condannati, nonché ad alcuni locali (anche un bar a Napoli).
Poi c’era Salvatore Paduano, l’uomo chiave dell’inchiesta che per i pm riceveva sul telefonino (6 i numeri cambiati da Sperandeo e nel giro di poche settimane, secondo l’ordinanza che l’ha inchiodato) messaggi come…“I vestiti sono pronti e stirati”. Ed allora il camion poteva partire direzione Spagna, per fare il carico da smerciare tra Torre Annunziata, Torre del Greco e Marano.
Mentre Giuseppe Cirillo, 39 anni, era il “broker” della coca di Torre Annunziata (ritenuto vicino ai Gionta e noto col soprannome di “Peppe ’o caprone”.  il 29 ottobre 2014, Cirillo sfuggì al blitz dei carabinieri del nucleo investigativo di Torre Annunziata e di Napoli, che quel giorno sequestrarono 600 chili di cocaina purissima.
Droga nascosta nei doppi fondi di camion in viaggio sulle autostrade di mezza Europa. “Peppe ’o caprone” finì poi la sua corsa in Germania. Dei 35 imputati al processo  per 24 sono arrivate le conferme delle condanne di primo grado. Per altri 11 invece è arrivato lo sconto di pena.
Tra questi Gerardo Pinto, cantante di musica tradizionale napoletana allievo di Sergio Bruni, che si è visto dimezzare la pena – passando dai 6 anni inflitti dal gup Antonio Cairo in primo grado a 3- ed è tornato in libertà, avendo già espiato la pena. Per il 57enne, assistito dagli avvocati Elio D’Aquino e Pasquale Morra, è caduta l’aggravante di avere agevolato un clan di camorra.

TUTTE LE CONDANNE

GAETANO ANTILLE: 10 ANNI
ANIELLO BIANCO: 10 ANNI
ANTONINO BONURA: 6 ANNI
CATELLO BUONDONNO: 8 ANNI
ANTONIO CAPPUCCIO: 9 ANNI E 4 MESI
LUIGI CAROTENUTO: 4 ANNI
LUIGI CELLA: 16 ANNI
SALVATORE CELLA: 10 ANNI
PASQUALE CESARO: 16 ANNI E 8 MESI
SALVATORE CIOFFI: 6 ANNI E 8 MESI
GIUSEPPE CIRILLO: 16 ANNI E 8 MESI
FILIPPO CUOMO: 3 ANNI E 4 MESI (PENTITO)
ISIDORO DI GIOIA: 7 ANNI E 8 MESI (PENTITO)
VINCENZO GIANNETTI: 9 ANNI E 4 MESI
SALVATORE GIORDANO:3 ANNI E 4 MESI
FRANCESCO GIORGIO: 8 ANNI
GIUSEPPE GIORGIO:  8 ANNI
ANIELLO GIUGLIANO: 3 ANNI E 6 MESI
PASQUALE LA CAVA  8 ANNI
LUIGI MANCINI: 1 ANNO E 4 MESI
ANGELO MARIANI: 9 ANNI
LUIGI MASTELLONE: 18 ANNI E 8 MESI
CASTRESE NETTUNO: 9 ANNI
DANIELE NETTUNO: 10 ANNI
VINCENZO NETTUNO: 9 ANNI
ANTONIO NUVOLETTO: 16 ANNI E 8 MESI
OSCAR PECORELLI: 8 ANNI
GERARDO PINTO: 3 ANNI
ENRICO PIRO:  3 ANNI E 4 MESI
VINCENZO SANTILLO: 10 ANNI
VINCENZO SEVERINO:7 ANNI E 4 MESI
RAFFAELE SPERANDEO: 14 ANNI E 8 MESI
PASQUALE TAMMARO: 1 ANNO E 4 MESI
MARIO VERBO:4 ANNI
GIUSEPPE VITIELLO: 3 ANNI E 3 MESI (PENTITO)

 

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Camorra: colpo di spugna sul clan Orlando solo 115 anni di carcere: 11 assolti. TUTTE LE CONDANNE

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La Dda aveva chiesto tre secoli di carcere per boss e gregari del potente clan Orlando di Marano controllata dal boss Antonio detto mazzulillo latitante dal 2003 e invece  il giudice per le udienze preliminari Antonio Tarallo ha inflitto appena 115 anni di carcere ai 15 imputati condannati mentre altri undici sono stati assolti.
Si chiude così con un colpo di spugna il processo di primo grado svoltosi con il rito abbreviato a carico della cosca che aveva preso il predominio su Marano e i comuni limitrofi estromettendo i Polverino e assoggettando Nuvoletta e grazie a vincoli familiari aveva creato clan satelliti con i quali controllava anche i comuni di Mugnano, Calvizzano e Quarto.Un clan articolato in piu’ livelli, militarizzato, in grado di imporre il pagamento del ‘pizzo’ a tappeto sul territorio, forte anche di ‘innesti’ della famiglia Novoletta, un tempo l’unica federata con la mafia siciliana.
Il nuovo gruppo criminale avrebbe esteso i propri tentacoli su settori specifici del territorio: mercato ortofrutticolo, edilizia ed appalti pubblici, gestione del ciclo integrato dei rifiuti, cimitero e macchina amministrativa. Con la latitanza di Antonio la famiglia malavitosa era guidata dai fratello Gaetano e Raffaele detto papele e dal cugino Angelo detto ‘o malomm.
La cosca aveva inglobato alcuni esponenti dei Nuvoletta di Marano e  si era estesa nel territorio limitrofo era strutturata in almeno quattro livelli.
Al vertice del gruppo, detto anche dei Carrisi, i fratelli Orlando, roccaforte tra Marano e Quarto; poi, al secondo livello, Armando Lubrano, nipote del boss Antonio, insieme a Lorenzo Nuvoletta, figlio di Ciro, elemento di vertice dell’omonimo clan ucciso in un agguato, e Angelo Orlando, ‘portavoce’ dei boss; al terzo livello, i ‘responsabili di zona’ come Gennaro Sarappo, che si occupa di Quarto, e Raffaele Lubrano, attivo a Calvizzano, insieme all’addetto al controllo, Celeste Carbone; al quarto livello, gli esecutori degli ordini. E l’altra sera dopo la lettura della sentenza a Marano e dintorni sono stati esplosi i fuochi d’artificio.

TUTTE LE CONDANNE

ORLANDO ANGELO 18 ANNI ‘o malomm (chiesti 20 anni)

DI MARO ANGELO 16 ANNI (chiesti 18anni)

RUGGIERO SALVATORE 14 ANNI (chiesti 18 anni)

LUBRANO ARMANDO 12 ANNI

ORLANDO RAFFAELE 12 ANNI (chiesti 18 anni)

SARAPPO GENNARO 10 ANNI (chiesti 10 anni)

LUBRANO VINCENZO 10 ANNI (chiesti 14 anni)

LUBRANO RAFFAELE 8 ANNI (chiesti 12 anni)

SARAPPO MARIO 6 ANNI (chiesti 12 anni)

CINCINNATO FRANCESCO 4 ANNI

ESPOSITO VINCENZO 4 ANNI (chiesti 7 anni)

CARPUTO RAFFAELE 4 ANNI (chiesti 10 anni)

ORLANDO ANGELO 3 ANNI (chiesti 5 anni)

AIELLO SALVATORE 2 ANNI (chiesti 4 anni)

GAGLIANO MARIA 2 ANNI (chiesti 12 anni)

AMITRANO MARIO ASSOLTO (chiesti 4 anni)

SCHIATTARELLA ANIELLO ASSOLTO 8chiesti 4 anni)

LUCCI PASQUALE ASSOLTO (chiesti 15 anni)

BAIANO LUIGI ASSOLTO (chiesti 14 anni)

CARBONE CELESTINO ASSOLTO (chiesti 10 anni)

ORLANDO GAETANO ASSOLTO (chiesti 18anni)

DI LANNO CIRO ASSOLTO (chiesti 14 anni)

VISCONTI CLAUDIO ASSOLTO (chiesti 9 anni)

NUVOLETTA LORENZO ASSOLTO (chiesti 18 anni)

POLVERINO CRESCENZO ASSOLTO (chiesti 20 anni)

VECCIA RAFFAELE ASSOLTO (chiesti 12 anni)

 

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Uccisero il boss siciliano a Roma: 30 anni di carcere a Senese e Pagnozzi junior

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Dopo ben dodici anni di battaglie giudiziarie, la Corte di Cassazione – I sezione penale -, presieduta dalla dottoressa Di Tomassi, ha definitivamente deciso sull’omicidio del noto boss siciliano Giuseppe Carlino, avvenuto a Torvaianica il 10 settembre 2001.
Trenta anni inflitti al mandante il boss Michele Senese detto ‘l’ottavo re di Roma’ ed all’esecutore materiale Domenico Pagnozzi ‘occhi di giacchio’, figlio del boss Gennaro, originario di Ponticelli ma trasferitosi da anni nella zona della Valle Caudina al confine tra Avellino e Benevento, e morto per infarto lo scorso anno anno mentre usciva dal Tribunale di Napoli. Mentre sono stati condannati a sedici anni di carcere Raffaele Di Salvo e Raffaele Pisanelli, il primo quale specchiettista ed il secondo quale fornitore delle armi e della auto utilizzate per il delitto.
Unico assolto è Fiore Clemente, inizialmente condannato ad anni 30 di reclusione, ritenuto, a parere degli inquirenti dalla direzione distrettuale antimafia di Roma, colui che avrebbe partecipato alla esecuzione.
La Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma aveva redatto un articolato ricorso per cassazione con il quale chiedeva l’annullamento della sentenza di assoluzione incassata da Clemente all’esito del giudizio di appello, ricorso questo sostenuto con decisione dal Procuratore generale presso la Suprema Corte, dott. Gaeta.
Ma, grazie a cavilli giuridici e diffuse argomentazioni, la difesa di Clemente, rappresentata dagli avvocati Dario Vannetiello e Saverio Campana, ha finito per convincere la Suprema Corte sulla inammissibilità del ricorso proposto dalla Procura, suggellando definitivamente la assoluzione del loro assistito.
Inoltre, è stato anche dichiarato inammissibile anche il ricorso della Procura Generale, sul quale si erano concentrate le attenzioni del nutrito collegio difensivo – composto dagli avvocati Naso, Krogg, De Federicis, Mondello e Fiume, oltre che dai sopracitati Vannetiello e Campana – con il quale veniva richiesto alla Cassazione di annullare la decisione sulla esclusione della natura mafiosa dell’omicidio.
Inizialmente, l’omicidio fu ritenuto mafioso dal giudice di primo grado e determinò la condanna all’ergastolo del duo Senese-Pagnozzi, ma la decisione sul punto fu ribaltata dalla Corte di appello la quale ritenne che quello di Giuppeppe Carlino fu un omicidio per vendetta. Il giudizio di secondo grado si concluse con la sostituzione dell’iniziale ergastolo inflitto ai due boss con la pena di anni 30 di reclusione.
Inoltre, i ricorsi proposti dal nutrito collegio difensivo, seppur hanno superato il vaglio della ammissibilità, sono stati tutti rigettati in quanto la Suprema Corte ha ritenuto inattaccabile la motivazione redatta dal Presidente della Corte di Assise di Appello di Roma, il dott. Giancarlo De Cataldo.
Le prove di cui disponeva l’accusa erano rappresentate da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, riscontrate dagli agganci dei telefoni in uso al commando sulle celle telefoniche del luogo del delitto al momento dell’omicidio.
Ma, soprattutto, la prova che ha avvalorato l’ipotesi accusatoria e che ha finito di chiudere il cerchio è stato il rinvenimento del dna di Pagnozzi su un fazzoletto trovato all’interno della auto che fu utilizzata per il delitto.
Da questa prova di natura scientifica era difficile difendersi, anche perché riscontrava le parole dei pentiti Riccardi e Carotenuto che indicavano nel Pagnozzi colui che aveva freddato la vittima, dopo aver effettuato degli appostamenti utilizzando proprio quella auto dove fu rinvenuto il fazzoletto che per anni ha costituito oggetto di indagine da parte dei Reparto Investigazioni Scientifiche di Roma, sino a trovare il dna che ha incastrato Pagnozzi, dopo che per ben otto anni la difesa aveva vittoriosamente fronteggiato la direzione distrettuale antimafia, ottenendo anche l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare.
Secondo l’antimafia l’omicidio di Giuseppe Carlino è stato uno dei primi delitti posti in essere da Pagnozzi nel territorio laziale, colui che nella nota inchiesta “camorra capitale” è stato soprannominato “occhi di ghiaccio” per la sua fredda determinazione che lo ha portato ad assumere in breve tempo il ruolo verticistico nell’ambito degli affari illeciti della città di Roma e del litorale laziale .

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Napoli, tentò di uccidere un rivale per gelosie familiari, la Cassazione chiede di rivedere la condanna

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La Corte di Cassazione ha chiesto di rivedere ulteriormente al ribasso la condanna nei confronti di Antonio Mosella, il giovane arrestato per il tentato omicidio di Francesco Giamminelli avvenuto per motivi di gelosie familiari il giorno dell’Epifania del 2015.
I giudici della Suprema Corte hanno rinviato gli atti nuovamente in Corte d’Appello stabilendo che il tentato omicidio non sia premedito e che addirittura non sia aggravato dai motivi futili e abbietti.Mosella era stato condannato a 9 anni e 4 mesi, il giudice in appello gli aveva riconosciuto le attenuanti generiche riducendo la pena a tre anni.
Per Antonio Mosella la situazione però potrebbe cambiare ulteriormente con le indicazioni della Cassazione. La difesa ha dimostrato che il giorno prima c’era stato un litigio tra i due e che il ferito aveva minacciato Mosella con un’ arma ed era finito in carcere per il reato di tentato omicidio a colpi di lupara di Francesco Giamminelli.
I rapporti tra i due uomini, a causa della gelosia provocata dai contatti indispensabili tra genitori separati che hanno in comune un bambino, erano diventati sempre più complicati al tal punto di costringere il 24enne napoletano di appostarsi sotto l’abitazione dell’ altro per cercare di ucciderlo. Il giovane fu ritrovato in un appartamento ad Afragola in compagnia di alcuni parenti.

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Fidanzati uccisi: ergastolo per Ruotolo, i genitori delle vittime: ”Fatta giustizia ma nessuno ci renderà i nostri figli”

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Testa china e occhi lucidi. Giosue’ Ruotolo, l’ex militare di 28 anni di Somma Vesuviana , ha ascoltato in piedi, in silenzio, al fianco dei suo avvocati, la lettura della sentenza con la quale la Corte d’assise di Udine lo ha condannato al carcere a vita. E’ lui, per i giudici friulani, il responsabile del duplice omicidio della coppia di fidanzati Trifone Ragone e Teresa Costanza, uccisi a colpi di pistola la sera del 17 marzo 2015, all’interno della loro Suzuki Alto, nel parcheggio del palazzetto dello Sport di Pordenone.
Sei colpi sparati a distanza ravvicinata dal killer che ha prima diretto l’arma contro il militare di Adelfia (Bari), 28 anni, mentre si stava sedendo sul sedile lato passeggero, e poi contro la sua fidanzata, 30 anni, assicuratrice milanese di origini siciliane, una laurea alla Bocconi in tasca, trasferitasi in Friuli per amore di Trifone. La Corte e’ arrivata al verdetto nel pomeriggio, dopo una camera di consiglio cominciata intorno alle 14.30 di lunedi’ e durata oltre due giorni, nella quale ha rimesso in fila la mole di documenti, indizi e testimonianze raccolte in 45 udienze dibattimentali.
“Ergastolo con isolamento diurno per due anni”, come aveva chiesto, al termine di undici ore di requisitoria, il 20 ottobre scorso, il pm Pier Umberto Vallerin che subito dopo la pronuncia ha espresso “un senso di soddisfazione professionale per il lavoro svolto” dalla Procura e dai Carabinieri di Pordenone. “Ma non di soddisfazione umana – ha subito precisato, ricordando che si tratta solo del primo grado di giudizio – Non possiamo essere felici per una sentenza che vede condannato all’ergastolo un ragazzo di neanche 30 anni per delitti che riguardano due persone offese praticamente coetanee. Ruotolo non va assolutamente “mostrificato”.
“Ho provato pena per lui – ha detto Eleonora Ferrante, la mamma di Trifone – Prima della lettura della sentenza avevo chiesto a Dio di darmi la forza di perdonarlo. Il Signore mi ha accontentato, mi ha fatto perdonare. Ero certa che avesse ucciso Trifone e Teresa ma non provavo piu’ odio. Ora siamo tranquilli perche’ e’ stata fatta giustizia umana ed e’ molto importante”.
“Abbiamo avuto giustizia ma nostra figlia non tornera’ mai. Non avremo mai pace. Un ergastolo non potra’ mai lenire il nostro dolore. Ma almeno sappiamo quello che e’ successo. E un assassino e’ in carcere”, hanno detto con un filo di voce anche i genitori di Teresa, papa’ Rosario e mamma Carmelina, che sente “sempre vicina” la sua Teresa. La Corte, che ha disposto la pubblicazione per estratto della sentenza mediante affissione nei comuni di Udine, Pordenone e Somma Vesuviana, ha condannato Giosue’ Ruotolo al risarcimento danni, riconoscendo provvisionali per oltre 700 mila euro complessivi ai familiari costituiti parte civile.
Una somma di 100 mila euro ciascuno ai genitori dei due ragazzi, 60 mila euro per la sorella minore di Trifone e 50 mila ciascuno per gli altri quattro fratelli di Teresa e Trifone, 30 mila euro per la nonna del militare pugliese e 15 mila per le sue due zie.

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Camorra a Giugliano, il ruolo del Liccardo negli affari dei Mallardo. LE INTERCETTAZIONI

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“Antimo Liccardo a Giugliano comanda più del sindaco”. Sono queste le pa­role di Giuliano Pirozzi, il pentito storico del clan Maliardo, che da anni sta svelando i segreti di una delle cosche più potenti della Campania. Liccardo, dipendente comunale e zio del consigliere comunale Paolo, indagato in questa inchiesta,”era espressione di Giuseppe e Francesco Mallardo e tutti lo sapevano, era al centro degli affari di specula­zioni edilizie alle quali il boss Maliardo era interessato”, ha raccontato Pirozzi. In una intercettazione ambientale del 30 settembre del 2014 tra il capoclan e un altro Liccardo, ovvero Paolo, imprenditore finito in carcere, che emerge con certezza as­soluta degli affari condotti dal­la cosca di Giugliano nel re­sto d’Italia. Oltre al boss erano presenti Maria Teresa Mallardo, Paolo Liccardo, il padre Mario Liccardo, socio della Valdarno Costruzioni.

Francesco: “Ora dico, non ti puoi imbriacare con questa qua”.
Paolo: “Eh, devo vedere chi sono e come possa fare tutto quanto, se ci interessa”.
Francesco: «Siccome dovreb­bero fare un grosso lavoro, a Lago Patria, dovrebbero realizzare novecento milioni di lavoro, qualcuno che”.
Paolo: “Ho capito, ho capi­to”.
Francesco: “Ma tu di Napoli, e questi qua non prendono niente impegni e questo si è stancato, vuole realizzare mil­ le cose, no gli ha dato la cosa in mano a questo qua per, sarebbero sicuro ingegneri”.
Liccardo sul momento non riusciva a capire di quale in­ vestimento si trattasse, ma do po aver finalmente compreso quale fosse l’opera da realiz­zare lo rassicurava, dicendo­ gli che avrebbe chiesto infor­mazioni per valutare il proprio ingresso nel gruppo di lavoro”.
Paolo: “Però io non ho capi­ to qual è l ’operazione. Ah, ho capito”.
Francesco: “Vedi se ti puoi in­ filare in mezzo, poi dopo in somma”.
Paolo: “Mi posso interessare, come devo dire, perché è una buona cosa”.
Francesco: “No, però vedi se ti puoi infilare”.
Paolo: “Sì, ho capito”.
Francesco: “Però penso che si svolga tutto ad inizio gen­naio”.
Eloquente poi è la domanda fatta da Paolo Licardo a Mal­lardo: “Tutto questo va sotto autorizzazione vostra? Perché io lo faccio già, praticamente questa agenzia qua sei, sette anni”.
Mallardo con riguardo alle difficoltà rappresentategli da Paolo Liccardo sugli effettivi ricavi delle operazioni di spe­culazione immobiliare, do­mandava allora allo stesso quali fossero i motivi per cui queste persone stavano por­tando avanti il progetto di La­go Patria. Mallardo aveva pe­rò informazioni che lui non possedeva e ha riferito che di trattava di 200mila metri qua­drati di terreno.

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Clan Mallardo, fondi neri in Toscana grazie a un socio del padre del sottosegretario Boschi

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La Toscana terra di conquista per il clan Mallardo non solo dal punto di vista imprenditoriale con una serie di investimenti immobiliari ma anche per ripulire attraverso il sistema bancario i soldi sporchi della camorra e della potente Alleanza di Secondigliano.
Ed ecco che dalle 798 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Claudia Picciotti che spunta fuori il nome di di Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, ex ministro e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il banchiere è totalmente estraneo a qualsiasi ipotesi di accusa contenuta nell’inchiesta. Ma il suo nome è venuto fuori nel corso dell’indagine effettuata dagli agenti della sezione criminalità economica della squadra mobile di Firenze.
Gli esperti detective erano a caccia  di come e dove il boss avesse ripulito i milioni di euro guadagnati con traffici illeciti, si sono imbattuti compiendo accertamenti sui conti correnti di un imprenditore toscano, Mario Nocentini.
Due i conti correnti che hanno portato al padre del sottosegretario. Conti accesi presso la Banca del Valdarno. Uno è intestato a più soci, tra i quali Nocentini e Boschi. Un altro risulta intestato soltanto a Boschi e Nocentini. Il riferimento è a una vecchia società che risale a più di venti anni fa, a quando Pier Luigi Boschi era segretario della Coldiretti. Sotto i riflettori la società L’Orcio, che aveva richiesto un finanziamento per la realizzazione di un camping, opera che non fu poi attuata e per la quale è in atto la restituzione della somma.
I pm Ribera e Sasso del Verme, del pool antimafia guidato dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, sono riusciti ad individuare un insospettabile imprenditore, Domenico Pirozzi (indagato), attraverso il quale il boss Mallardo ha investito ingenti capitali in Toscana, in particolare ad Arezzo.
E poi due società con sede a Figline Valdarno che secondo l’accusa £sono state create e stabilmente utilizzate per un decennio circa ai fini del riciclaggio e del reimpiego in attività economiche lecite di capitali provenienti dalle casse del clan”. Una delle società è la “Edil Europa 2 srl”.

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Camorra: colpo di spugna sul clan Orlando solo 115 anni di carcere: 11 assolti. TUTTE LE CONDANNE

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La Dda aveva chiesto tre secoli di carcere per boss e gregari del potente clan Orlando di Marano controllata dal boss Antonio detto mazzulillo latitante dal 2003 e invece  il giudice per le udienze preliminari Antonio Tarallo ha inflitto appena 115 anni di carcere ai 15 imputati condannati mentre altri undici sono stati assolti.
Si chiude così con un colpo di spugna il processo di primo grado svoltosi con il rito abbreviato a carico della cosca che aveva preso il predominio su Marano e i comuni limitrofi estromettendo i Polverino e assoggettando Nuvoletta e grazie a vincoli familiari aveva creato clan satelliti con i quali controllava anche i comuni di Mugnano, Calvizzano e Quarto.Un clan articolato in piu’ livelli, militarizzato, in grado di imporre il pagamento del ‘pizzo’ a tappeto sul territorio, forte anche di ‘innesti’ della famiglia Novoletta, un tempo l’unica federata con la mafia siciliana.
Il nuovo gruppo criminale avrebbe esteso i propri tentacoli su settori specifici del territorio: mercato ortofrutticolo, edilizia ed appalti pubblici, gestione del ciclo integrato dei rifiuti, cimitero e macchina amministrativa. Con la latitanza di Antonio la famiglia malavitosa era guidata dai fratello Gaetano e Raffaele detto papele e dal cugino Angelo detto ‘o malomm.
La cosca aveva inglobato alcuni esponenti dei Nuvoletta di Marano e  si era estesa nel territorio limitrofo era strutturata in almeno quattro livelli.
Al vertice del gruppo, detto anche dei Carrisi, i fratelli Orlando, roccaforte tra Marano e Quarto; poi, al secondo livello, Armando Lubrano, nipote del boss Antonio, insieme a Lorenzo Nuvoletta, figlio di Ciro, elemento di vertice dell’omonimo clan ucciso in un agguato, e Angelo Orlando, ‘portavoce’ dei boss; al terzo livello, i ‘responsabili di zona’ come Gennaro Sarappo, che si occupa di Quarto, e Raffaele Lubrano, attivo a Calvizzano, insieme all’addetto al controllo, Celeste Carbone; al quarto livello, gli esecutori degli ordini. E l’altra sera dopo la lettura della sentenza a Marano e dintorni sono stati esplosi i fuochi d’artificio.

TUTTE LE CONDANNE

ORLANDO ANGELO 18 ANNI ‘o malomm (chiesti 20 anni)

DI MARO ANGELO 16 ANNI (chiesti 18anni)

RUGGIERO SALVATORE 14 ANNI (chiesti 18 anni)

LUBRANO ARMANDO 12 ANNI

ORLANDO RAFFAELE 12 ANNI (chiesti 18 anni)

SARAPPO GENNARO 10 ANNI (chiesti 10 anni)

LUBRANO VINCENZO 10 ANNI (chiesti 14 anni)

LUBRANO RAFFAELE 8 ANNI (chiesti 12 anni)

SARAPPO MARIO 6 ANNI (chiesti 12 anni)

CINCINNATO FRANCESCO 4 ANNI

ESPOSITO VINCENZO 4 ANNI (chiesti 7 anni)

CARPUTO RAFFAELE 4 ANNI (chiesti 10 anni)

ORLANDO ANGELO 3 ANNI (chiesti 5 anni)

AIELLO SALVATORE 2 ANNI (chiesti 4 anni)

GAGLIANO MARIA 2 ANNI (chiesti 12 anni)

AMITRANO MARIO ASSOLTO (chiesti 4 anni)

SCHIATTARELLA ANIELLO ASSOLTO 8chiesti 4 anni)

LUCCI PASQUALE ASSOLTO (chiesti 15 anni)

BAIANO LUIGI ASSOLTO (chiesti 14 anni)

CARBONE CELESTINO ASSOLTO (chiesti 10 anni)

ORLANDO GAETANO ASSOLTO (chiesti 18anni)

DI LANNO CIRO ASSOLTO (chiesti 14 anni)

VISCONTI CLAUDIO ASSOLTO (chiesti 9 anni)

NUVOLETTA LORENZO ASSOLTO (chiesti 18 anni)

POLVERINO CRESCENZO ASSOLTO (chiesti 20 anni)

VECCIA RAFFAELE ASSOLTO (chiesti 12 anni)

 

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Uccisero il boss siciliano a Roma: 30 anni di carcere a Senese e Pagnozzi junior

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Dopo ben dodici anni di battaglie giudiziarie, la Corte di Cassazione – I sezione penale -, presieduta dalla dottoressa Di Tomassi, ha definitivamente deciso sull’omicidio del noto boss siciliano Giuseppe Carlino, avvenuto a Torvaianica il 10 settembre 2001.
Trenta anni inflitti al mandante il boss Michele Senese detto ‘l’ottavo re di Roma’ ed all’esecutore materiale Domenico Pagnozzi ‘occhi di giacchio’, figlio del boss Gennaro, originario di Ponticelli ma trasferitosi da anni nella zona della Valle Caudina al confine tra Avellino e Benevento, e morto per infarto lo scorso anno anno mentre usciva dal Tribunale di Napoli. Mentre sono stati condannati a sedici anni di carcere Raffaele Di Salvo e Raffaele Pisanelli, il primo quale specchiettista ed il secondo quale fornitore delle armi e della auto utilizzate per il delitto.
Unico assolto è Fiore Clemente, inizialmente condannato ad anni 30 di reclusione, ritenuto, a parere degli inquirenti dalla direzione distrettuale antimafia di Roma, colui che avrebbe partecipato alla esecuzione.
La Procura Generale presso la Corte di Appello di Roma aveva redatto un articolato ricorso per cassazione con il quale chiedeva l’annullamento della sentenza di assoluzione incassata da Clemente all’esito del giudizio di appello, ricorso questo sostenuto con decisione dal Procuratore generale presso la Suprema Corte, dott. Gaeta.
Ma, grazie a cavilli giuridici e diffuse argomentazioni, la difesa di Clemente, rappresentata dagli avvocati Dario Vannetiello e Saverio Campana, ha finito per convincere la Suprema Corte sulla inammissibilità del ricorso proposto dalla Procura, suggellando definitivamente la assoluzione del loro assistito.
Inoltre, è stato anche dichiarato inammissibile anche il ricorso della Procura Generale, sul quale si erano concentrate le attenzioni del nutrito collegio difensivo – composto dagli avvocati Naso, Krogg, De Federicis, Mondello e Fiume, oltre che dai sopracitati Vannetiello e Campana – con il quale veniva richiesto alla Cassazione di annullare la decisione sulla esclusione della natura mafiosa dell’omicidio.
Inizialmente, l’omicidio fu ritenuto mafioso dal giudice di primo grado e determinò la condanna all’ergastolo del duo Senese-Pagnozzi, ma la decisione sul punto fu ribaltata dalla Corte di appello la quale ritenne che quello di Giuppeppe Carlino fu un omicidio per vendetta. Il giudizio di secondo grado si concluse con la sostituzione dell’iniziale ergastolo inflitto ai due boss con la pena di anni 30 di reclusione.
Inoltre, i ricorsi proposti dal nutrito collegio difensivo, seppur hanno superato il vaglio della ammissibilità, sono stati tutti rigettati in quanto la Suprema Corte ha ritenuto inattaccabile la motivazione redatta dal Presidente della Corte di Assise di Appello di Roma, il dott. Giancarlo De Cataldo.
Le prove di cui disponeva l’accusa erano rappresentate da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, riscontrate dagli agganci dei telefoni in uso al commando sulle celle telefoniche del luogo del delitto al momento dell’omicidio.
Ma, soprattutto, la prova che ha avvalorato l’ipotesi accusatoria e che ha finito di chiudere il cerchio è stato il rinvenimento del dna di Pagnozzi su un fazzoletto trovato all’interno della auto che fu utilizzata per il delitto.
Da questa prova di natura scientifica era difficile difendersi, anche perché riscontrava le parole dei pentiti Riccardi e Carotenuto che indicavano nel Pagnozzi colui che aveva freddato la vittima, dopo aver effettuato degli appostamenti utilizzando proprio quella auto dove fu rinvenuto il fazzoletto che per anni ha costituito oggetto di indagine da parte dei Reparto Investigazioni Scientifiche di Roma, sino a trovare il dna che ha incastrato Pagnozzi, dopo che per ben otto anni la difesa aveva vittoriosamente fronteggiato la direzione distrettuale antimafia, ottenendo anche l’annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare.
Secondo l’antimafia l’omicidio di Giuseppe Carlino è stato uno dei primi delitti posti in essere da Pagnozzi nel territorio laziale, colui che nella nota inchiesta “camorra capitale” è stato soprannominato “occhi di ghiaccio” per la sua fredda determinazione che lo ha portato ad assumere in breve tempo il ruolo verticistico nell’ambito degli affari illeciti della città di Roma e del litorale laziale .

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Napoli, tentò di uccidere un rivale per gelosie familiari, la Cassazione chiede di rivedere la condanna

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La Corte di Cassazione ha chiesto di rivedere ulteriormente al ribasso la condanna nei confronti di Antonio Mosella, il giovane arrestato per il tentato omicidio di Francesco Giamminelli avvenuto per motivi di gelosie familiari il giorno dell’Epifania del 2015.
I giudici della Suprema Corte hanno rinviato gli atti nuovamente in Corte d’Appello stabilendo che il tentato omicidio non sia premedito e che addirittura non sia aggravato dai motivi futili e abbietti.Mosella era stato condannato a 9 anni e 4 mesi, il giudice in appello gli aveva riconosciuto le attenuanti generiche riducendo la pena a tre anni.
Per Antonio Mosella la situazione però potrebbe cambiare ulteriormente con le indicazioni della Cassazione. La difesa ha dimostrato che il giorno prima c’era stato un litigio tra i due e che il ferito aveva minacciato Mosella con un’ arma ed era finito in carcere per il reato di tentato omicidio a colpi di lupara di Francesco Giamminelli.
I rapporti tra i due uomini, a causa della gelosia provocata dai contatti indispensabili tra genitori separati che hanno in comune un bambino, erano diventati sempre più complicati al tal punto di costringere il 24enne napoletano di appostarsi sotto l’abitazione dell’ altro per cercare di ucciderlo. Il giovane fu ritrovato in un appartamento ad Afragola in compagnia di alcuni parenti.

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Marano, spunta un nuovo pentito nel clan Orlando

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C’ è un nuovo pentito che sta facendo tremare il clan Orlando, appena uscito da un week end in cui la cosca dei Carrisi ha vinto la sua prima battaglia giudiziaria con 11 assoluzioni e pene miti per boss e gregari dopo la sentenza di primo grado nel processo con 35 imputati. Si tratta di Teodoro Giannuzzi, 37 anni, pusher che gestiva lo spaccio nei comuni di Marano, Quarto e Calvizzano.
Le sue dichiarazioni sono stateinserite nel fascicolo del processo di primo grado, celebrato con il rito abbreviato, ma di quelle rivelazioni si potrà tener conto soltanto nel processo d’appello, come riporta Il Mattino, o nel caso in cui il pubblico ministero Mariella Di Mauro, titolare dell’inchiesta, richiedesse al gip di adottare una nuova ordinanza di custodia cautelare.
Giannuzzi era stato arrestato per la prima volta nel maggio del 2003 insieme con Giuseppe dell’Annunziata. I due  rifornivano di droga tossicodipendenti e ragazzi nelle discoteche del veronese. Nel 2006 fu arrestato a Quarto dai carabinieri del comune flegreo, che gli notificarono un ordine di carcerazione della procura di Modena per traffico di droga. Giannuzzi ha poi scontato una pena di 3 anni e 10 mesi di reclusione.
L’area geografica in cui ha svolto le sue attività illecite, quella tra Quarto, Marano e Pozzuoli, avrebbe tuttavia consentito al nuovo pentito di avere frequenti contatti con i trafficanti e gli esponenti di punta di molti gruppi criminali, tra cui i Polverino e gli Orlando, che hanno poi dato vita ad un unico sodalizio a partire dall’estate del 2015. Ora anche alla luce delle dichiarazioni di Giannuzzi la Dda si prepara a presentare appello contro la sentenza di primo contro contro boss e gregari del clan Orlando.

 

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Napoli, la Terracciano si difende: ”Estorsione? Avevo chiesto un posto di lavoro come cameriera”

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“Abito nello stesso palazzo dove c’è l’albergo. Sapevo che il titolare cercare delle cameriere e così mi sono proposta con mia nuora. Ci serviva il lavoro ma non l’abbiamo preteso. Quando ho detto che io stavo qui, voleva dire che stavo nel palazzo a sua disposizione. È un errore”.
Si è difesa più o meno in questo modo Anna Terracciano, la donna arrestata per il reato di tentata estorsione aggravata perché secondo l’accusa avrebbe preteso l’assunzione di tre persone.
“Chest’ è casa mia… e m’attocca”. Con queste e altre frasi minacciose Anna Terracciano, 54enne soprannominata “Anna ’a masculona”, sospettata di essere la capoclan dell’omonimo gruppo delle “Chianche” nei Quartieri Spagnoli, era stata arrestata la scorsa settimana perché pretendeva dal titolare di un “B&B” della zona l’assunzione di tre suoi parenti disoccupati.
L’uomo, come ricorda Il Roma, per accontentare la ras avrebbe dovuto licenziare altrettanti dipendenti, e quindi aveva chiesto aiuto alla polizia e con un registratore riuscì a catturare il colloquio che rappresenta l’accusa nei confronti della Terracciano, sorella del defunto boss Salvatore “’o nirone”. E’ accusata di tentata estorsione con l’aggravante del metodo mafioso. Ora si resta in attesa del ricorso al Riesame.

Uccisero il fratello del pentito: chiesti 76 anni di carcere

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Uccisero il fratello di quello che poi sarebbe diventato uno dei pentiti che  ha contribuito a fare luce sulla decennale faida di Ercolano. Il procuratore generale nel processo di Appello ha chiesto 76 anni di carcere per i 3 accusati dell’omicidio di Giorgio Scarrone.
Ventotto anni di carcere sono stati chiesti per Pietro Papale e Bartolomeno Palomba, mentre 20 anni di carcere sono stati chiesti per Mario Papale. In primo grado erano stati condannati all’ergastolo. Alla scorsa udienza i tre confessarono i loro addebiti e ora sperano in una consistenze riduzione di pena in Appello.Il 28nne fu ucciso nel 2008 e aveva come unica colpa quella di essere, fratello di Agostino Scarrone, killer del clan Birra-Iacomino, diventato  collaboratore di giustizia. Fu una vendetta trasversale quella che colpì il giovane Giorgio, il quale era del tutto estraneo alle logiche criminali dei cartelli camorristici Birra-Iacomino e Ascione-Papale,  in lotta per anni per il controllo degli affari illeciti nella città di Ercolano
Si trattò di una vendetta nei confronti del fratello che aveva preso parte agli omicidi di Gaetano Pinto e di Antonio Papale, quest’ultimo era il fratello del boss Luigi. A commissionare l’atroce omicidio a Salvatore Fiore – secondo gli inquirenti – che fu aiutato a mettere a segno il piano da Bartolomeo Palomba (che fungeva da conducente del ciclomotore utilizzato per la spedizione “punitiva”), furono Mario e Pietro Papale, reggenti del clan.
Ad inchiodare i tre imputati sono state anche le dichiarazioni fatte durante il processo dalla collaboratrice di giustizia Antonella Madonna. Secondo la “pentita”, alla riunione nella quale fu decretata la morte di Giorgio Scarrone presero parte anche Salvatore Fiore, Mario Papale, Bartolomeo Palomba, Pietro Papale e Mario Ascione.

(nella foto da sinistra Mario Papale, Pietro Papale, Bartolomeo Palomba)

Camorra a Ponticelli in arrivo l’ergastolo bis per i boss Vincenzo Mazzarella e Antonio De Luca Bossa

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In arrivo due nuove richieste di ergastolo per i boss Vincenzo Mazzarella e Antonio De Luca Bossa accusati di essere i mandanti dell’omicidio del 16enne Raffaele Riera, ammazzato nel lontano 1996 per il solo fatto di essersi invaghito della donna “sbagliata”: Anna De Luca Bossa, la sorella del capoclan scissionista di Ponticelli e moglie del boss Ciro Minichini.
La Procura antimafia ha rinunciato alla rinnovazione del dibattimento in appello e si prepara a invocare l’ergastolo-bis per i boss. Nel processo di primo grado lo scorso anno era arrivata la condanna a 20 anni di carcere per il boss Ciro Minichini e la clamorosa assoluzione per il ras Egidio Annunziata Fabio Caruana, uno dei killer e la condanna a 14 anni di carcere per l’altro killer, il pentito Fabio Caruana.
L’omicidio di Raffaele Riera, secondo la DDa, “fu eseguito da Ciro Minichini, Ciro Spirito e Fabio Caruana, mentre Vincenzo Mazzarella e Antonio De Luca Bossa furono i mandanti di quella feroce esecuzione”.L’agguato ai danni di Raffaele Riera maturò all’apice di una tremenda escalation di violenza. L’esecuzione arrivò cinque mesi dopo il triplice omicidio di Salvatore Riera, del figlio Rolando e della moglie Maria Botta, avvenuto a Casoria.
La strage sarebbe stata decisa e materialmente eseguita da alcuni appartenenti al clan Contini, che vollero così vendicare su Rolando Riera, reo di avere a sua volta ucciso i fratelli Andrea e Michele Equatore per vicende legate al controllo criminale del cosiddetto Connolo, al rione Sant’Alfonso. A luglio fu poi il turno del giovanissimo Raffaele, che nel frattempo aveva trovato ospitalità e protezione sotto l’ala del boss Antonio De Luca Bossa.
Ma quando per il 17enne il peggio sembrava ormai alle spalle, ecco accadere l’irreparabile. Un amore sbagliato per la donna sbagliata. E arrivò anche per lui la sentenza di morte.

 

Appalti Romeo, revocati gli arresti domiciliari per l’ex dirigente del comune Annunziata

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Napoli. Non ci sono più esigenze cautelari, torna libero Giovanni Annunziata, exex dirigente del servizio Patrimonio del Comune di Napoli. La misura degli arresti domiciliari è stata revocata dal Gip Mario Morra che ha accolto le richieste degli avvocati Roberto Aniello e Felice Laudadio. La revoca del provvedimento è dovuta al fatto che Annunziata risulta in pensione dal primo agosto scorso, circostanza che fa venire meno le esigenze cautelari. Sulla istanza dei legali la procura aveva espresso parere negativo.
Annunziata era stato arrestato la settimana scorsa insieme all’imprenditore Alfredo Romeo, al Dg del Cardarelli di Napoli e ad uno stretto collaboratore dell’imprenditore napoletano per una serie di appalti affidati alla Romeo.


Camorra, il pentito: ”I Mallardo prendevano il 30% dagli incassi della banda dei falsari”

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Anche l’Alleanza di Secondigliano aveva interessi sul giro di soldi falsi smerciata in tutta Europa dalla banda guidata dal falsario Giuseppe Angellotti di Marano e dalla famiglia Visiello di Torre Annunziata  e sgominata l’altro giorno dalla Guardia di Finanza.Aveva addirittura imposto una tangen­te del 30% all’anno sugli incassi dei maghi della truffa.
E’ quanto racconta – in un verbale del 14 maggio 2013 – il pentito Giuliano Pirozzi, super pentito del clan Mallardo, l’uomo che ha svelato i misteri della cosca con base nei Comune di Giugliano.
Pirozzi, parlando di Enrico Cante, una delle figure al centro dell’inchiesta,  49enne di Giugliano colpito da una misura cautelare di obbligo di dimora insieme con il fratello Domenico, racconta che al clan l’affare dei soldi falsi faceva gola. “E’ un’attività riferibile sempre ai Mallardo, in quanto il clan percepisce il 30% annuo sugli utili di questa vendita di banconote false”.
I Mallardo, però, non si limiterebbero a portare a casa i soldi, quelli veri. Come racconta nei suoi verbali il collaboratore di giustizia, il clan “interviene anche aiutan­do l’organizzazione di Cante a creare basi logistiche per la distribuzione sul territorio e all’estero, grazie ai legami che i Mallardo nel corso degli anni hanno instaurato in varie parti d’Italia”.
Secondo Pirozzi, Cante gli avrebbe riferito che nel settembre 2012 “stava organizzando un traffico di soldi falsi con la Romania, Bulgaria e in generale con i paesi delì’Est e che si stava occupando anche della stampa delle banconote rumene”.

Appalti Romeo: interrogati Ciro Verdoliva e Emanuele Calderara accusati di corruzione

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Napoli. Primo interrogatorio per Ciro Verdoliva, direttore generale del Cardarelli di Napoli coinvolto nell’inchiesta degli appalti per la Romeo e finito agli arresti domiciliari qualche giorno fa. Il manager ha reso l’interrogatorio cercando di chiarire la sua posizione presentando documenti volti a dimostrare che ciò che gli viene contestato non è fondato e che i suoi rapporti si sono svolti nella piena legalità. Assistito dall’avvocato Giuseppe Fusco, il manager accusato di corruzione è stato interrogato dal gip Mario Morra e dal pm Henry John Woodcock che conduce l’inchiesta con i sostituti Celeste Carrano e Francesco Raffaele. L’accusa si riferisce in particolare a lavori nell’abitazione privata di Verdoliva a Napoli, che sarebbero stati eseguiti da operai, dipendenti di una ditta che si era aggiudicato un appalto al Cardarelli. Il manager, a quanto si è appreso, ha respinto gli addebiti presentando documenti dai quali si evincerebbe che i lavori sono stati regolarmente pagati. In mattinata il gip ha interrogato il dirigente del ministero della Giustizia Emanuele Caldarera accusato, in riferimento al periodo in cui era al vertice dell’ufficio per la gestione e manutenzione della cittadella giudiziaria al Centro direzionale di Napoli, di aver chiesto l’assunzione di una figlia per sbloccare il pagamento di alcune fatture a favore della Romeo Gestioni, l’azienda dell’imprenditore Alfredo Romeo. Caldarera si è detto estraneo ai fatti contestati. Nei confronti del funzionario di via Arenula, il gip ha disposto nei giorni scorsi una misura interdittiva. Il suo legale, avvocato Giuseppe Vitiello, ha chiesto la revoca del provvedimento per mancanza delle esigenze cautelari, anche per assenza dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato.

Migranti a Salerno, sono un centinaio i dispersi caduti in mare prima del salvataggio della nave Cantabria

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Salerno. Sono circa un centinaio i migranti dispersi caduti in mare a seguito dell’affondamento del gommone al largo delle coste libiche e soccorso dalla nave spagnola Esps Cantabria, giunta poi al porto di Salerno il 5 novembre. Secondo la Procura di Salerno, che ha avviato le indagini dopo l’arrivo della motonave nel porto campano, tutti sono “certamente deceduti per annegamento”. A essere salvate, dallo stesso gommone blu parzialmente affondato, sono state 64 persone, tra le quali sei bambini e due donne in stato di gravidanza. A bordo del mezzo, secondo le testimonianze di alcuni sopravvissuti, vi erano circa 150 persone e il recupero di soli 64 migranti vivi consente di affermare che i migranti caduti in mare fossero circa un centinaio. A Salerno sono giunti 401 migranti, tutti soccorsi e recuperati in quattro distinti interventi di “search and rescue” effettuati a largo delle coste libiche il 3 novembre scorso. Nelle altre tre operazioni sono stati salvati 146 migranti di cui 28 bambini, 97 uomini e 21 donne di cui tre incinte; su un altro gommone sono state tratte in salvo 140 persone di cui 12 bambini, 88 uomini e 40 donne e, infine, 53 migranti di cui otto bambini e sei donne tra le quali due in stato di gravidanza, recuperati a bordo di un natante in vetroresina dalla nave islandese Niamh e poi trasferiti sulla Cantabria.

Il serial killer Donato Bilancia esce per la prima volta dal carcere dopo 20 anni

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Asti. Diciassette omicidi, tredici ergastoli e 20 anni di carcere già scontati: il serial killer Donato Bilancia esce per la prima volta dal carcere per far visita ‘super scortato’ sulla tomba dei genitori nel cimitero di Nizza Monferrato, in provincia di Asti. A Bilancia sono attribuiti 17 omicidi avvenuti tra il 1997 e il 1998. La notizia è riportata dal Secolo XIX. Bilancia sta cercando la strada per uscire dal carcere. Prima ha tentato la via della revisione del processo, poi i legali hanno presentato un ricorso in Cassazione. Bilancia chiedeva che i suoi reati fossero giudicati con il rito abbreviato, una possibilità, nel caso di omicidio volontario, introdotta successivamente alla condanna. Il suo avvocato ha sostenuto il principio della lex mintior, cioè della legge più favorevole all’imputato anche se si è concretizzata dopo l’iter processuale, sfruttando una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo sconto di pena avrebbe spianato la strada per poter usufruire dei benefici di legge con maggiori possibilità di uscire dal carcere. Il tentativo è stato respinto, ma i legali stanno lavorando ad altre possibilità. Intanto Bilancia nel carcere di Padova studia, lo scorso anno si è diplomato ragioniere con 83 centesimi con una tesina sul welfare scritta in inglese e francese. Ora è iscritto all’università al corso di laurea in Progettazione e gestione del turismo culturale.

Camorra, il pentito: ”Con l’omicidio Marino dichiarammo guerra alla Vanella-Grassi”

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“Il delitto di Gaetano Marino venne deciso dopo l’eclatante agguato ai danni di Ciro Abrunzo e un ulteriore episodio di sangue, il tentato omicidio di Giovanni Esposito, esponente apicale della cosca”.
E’ stato il pentito Giuseppe Ambra, ex uomo di punta della faida di Scampia, a svelare agli inquirenti quello che potrebbe essere il reale movente dell’omicidio di Gaetano ‘o monkerino fratello del boss Gennaro ‘ mekkey,ucciso sul lungomare di Terracina il 23 agosto di cinque anni fa.
Il retroscena emerge da uno dei verbali di interrogatorio confluiti nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere che due giorni fa ha colpito Arcangelo Abbinante e Giuseppe Montanera, accusati dalla Procura antimafia di essere gli esecutori materiali del delitto; e Salvatore Ciotola e Carmine Rovai, che avrebbero invece fornito al commando di morte l’appoggio logistico.
L’8 luglio del 2015 Giuseppe Ambra, quattro mesi dopo la propria decisione di passare dalla parte dello Stato, come ricorda Il Roma, raccontò agli inquirenti della Dda tutto ciò di cui sarebbe a conoscenza in merito a quel clamoroso agguato: “L’omicidio di Gaetano Marino venne deciso dopo la morte di Ciro Abrunzo (ucciso a Barra il 21 giugno 2012, ndr), commesso da un’allanza tra gli Amato-Pagano e la Vanella Grassi. Ciro Abrunzo era infatti un parente sia di Arcangelo Abete che di Vincenzo, Gennaro e Raffaele Notturno.
Dopo questo omicidio eclatante, avvenne un ulteriore episodio di sangue, il tentato omicidio di Giovanni Esposito ‘o muorto, esponente apicale del clan Abbinante e cognato di Antonio Abbinante (padre dell’indagato Arcangelo, ndr). Fu la conferma che la Vanella stava agendo alle nostre spalle e quindi i capi del clan Abete- Abbinante-Notturno, tra cui Giuseppe Montanera, referente della famiglia Abbinante, decisero una strategia di omicidi eclatanti in risposta, mettendo i cognomi delle famiglie avversarie a terra”.
Gli Scissionisti di Secondigliano, stando così le cose, non si sarebbero accontentati di una vendetta di basso profilo. A morire, dovevano essere proprio i boss che portavano i cognomi dei nuovi nemici giurati. E Gaetano Marino, all’epoca reggente della cosca delle Case Celesti, aveva infatti ormai da tempo stabilito un solido asse con la famiglia Leonardi della Vanella Grassi. Da qui la decisione di eliminarlo.
Il pentito Ambra prosegue dunque nel suo racconto: “Questa strategia venne decisa subito dopo il tentato omicidio di Giovanni Esposito. Alcuni giorni dopo fu eseguito l’omicidio di Alfredo Leonardi, precisamente dal gruppo di fuoco degli Abbinante. Dopo il delitto gli Abete-Abbinante-Notturno puntarono a un altro obiettivo che recasse il cognome dei loro principali avversari e venne scelto e venne scelto Gaetano Marino. Si venne a sapere che lui andava a villeggiare a Terracina, ma non si sapeva in che periodo.
L’incarico di compiere questo omicidio venne assunto dal gruppo di fuoco degli Abbinante, detto del rione Monterosa, coinvolgendo Giuseppe Montanera, che era l’esponente apicale, quello che decideva gli omicidi per gli Abete-Notturno. Io venni messo a conoscenza di questo delitto il 10 agosto 2012”.

(nella foto da sinistra i quattro killer: Arcangelo Abbinante, Giuseppe Montanera, Salvataore Ciotola, Carmine Rovai)

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