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“Credo fermamente che Giosue’ Ruotolo sia un detenuto innocente per un fatto che non ha commesso”: lo ha detto l’avv.Giuseppe Esposito, uno dei legali dell’unico imputato nel processo davanti alla Corte di Assise di Udine per il duplice omicidio della coppia di Fidanzati Teresa Costanza e Trifone Ragone, uccisi a colpi di pistola nel parcheggio del palazzetto dello sport di Pordenone la sera del 17 marzo 2015, concludendo nel pomeriggio le repliche della difesa.
“Se sono qui a reclamare una sentenza di assoluzione – ha aggiunto Esposito, difensore di Ruotolo insieme all’avv. Roberto Rigoni Stern – non e’ perche’ devo recitare un ruolo. Credo veramente e’ fermamente in quello che vi ho detto in queste lunghe ore di discussione”. Al termine delle repliche i giudici si sono ritirati in camera di consiglio presso una caserma. Il verdetto e’ atteso non prima di domani sera.
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Salerno. Spaccio di droga nel golfo di Policastro, a Sud di Salerno. Eseguite questa mattina, dai carabinieri della compagnia di Sapri, nove misure cautelari, sei agli arresti e tre con l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, nei confronti di altrettante persone di età compresa tra i 21 e 37 anni, ritenute responsabili, dai magistrati di Vallo della Lucania, di aver creato una rete smercio di hashish e marijuana. L’indagine è durata all’incirca sei mesi, mostrando che gli indagati dopo essersi approvvigionati dello stupefacente nell’hinterland salernitano, ritornavano nei comuni del golfo di Policastro per rivenderlo ai consumatori locali. Nel corso dell’indagine i militari hanno arrestato, in flagranza, altre sei persone perchè trovate in possesso di sostanze stupefacenti destinate ad essere cedute ad altri soggetti. Complessivamente, sono stati sequestrati 300 grammi di hashish e 100 di marijuana.
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Il pm della procura di Napoli, Graziella Arlomede ha chiesto il rinvio a giudizio del rettore dell’Universita’ Suor Orsola Benincasa, Lucio D’Alessandro, nell’ambito dell’inchiesta su presunte irregolarita’ per favorire Francesco Zecchino, figlio dell’ex ministro Ortensio Zecchino, per un incarico di ricercatore (insegnamento di Storia dei Giardini).
I fatti si riferiscono a un concorso del 2003, oggetto di numerosi ricorsi amministrativi. Il reato contestato e’ di abuso di ufficio mentre l’accusa di falso e’ ipotizzata nei confronti di tre componenti della commissione, per i quali pure il pm ha chiesto il giudizio: Giovanni Coppola, Anna Giannetti, Alessandro Viscogliosi.
Ne’ Francesco Zecchino ne’ il padre risultano indagati nella vicenda. L’udienza preliminare e’ stata fissata per il 16 novembre prossimo davanti al gup Marina Cimma. D’Alessandro in una nota del settembre scorso sottolineo’ che la vicenda giudiziaria risale a concorso del 2003 ”mentre io – affermo’ – soltanto dal maggio del 2011 ho avuto l’onore di iniziare a ricoprire la carica di Rettore dell’Universita’ Suor Orsola Benincasa” e di essersi limitato ”a dare seguito alle decisioni assunte dalla magistratura amministrativa”.
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Ciro Abrunzo ’o cinese, è stato indicato dal boss neo pentito Gennaro Notturno ‘ o sarracino come il vero esecutore materiale della vittima innocente della camorra Gianluca Ciminiello, il giovane tatuatore di Casavatore freddato sull’uscio del suo negozio nel 2010. Ma il presunto killer non potrà mai difendersi perché è stato ucciso a sua volta il 21 giugno del 2012, nel corso di un plateale agguato a Barra in cui fu ucciso anche il ras Franco Gaiola, detto ‘o fachiro.
L’ex boss e prima killer del clan Amato-Pagano potrebbe dare una svolta anche alle indagini sull’omicidio di ‘o cinese. Prima di lui a parlarne è stato soprattutto Carmine Cerrato detto “Tekendò”, parente del boss Cesare Pagano, che ha puntato il dito contro Franco Bottino: un 27enne soprannominato “Mustafà”, fedelissimo di Mariano Riccio (altro genero di Pagano), descritto come componente del gruppo di fuoco.
Anche Rosario Guarino, detto “Joe banana”, hanno comunque parlato di Franco Bottino come uno dei due (l’altro secondo i pentiti sarebbe stato Francesco Paolo Russo) autori dell’omicidio di Ciro Abrunzo “’o cinese”, residente a Barra ma ras emergente degli Abete-Abbinante-Notturno-Aprea. L’agguato, come ha ricordato Il Roma, avvenne il 21 giugno 2012 e fu un attacco compiuto dagli Amato-Pagano, allora non ancora spaccati tra “melitesi” e “maranesi”, e dal clan della “Vanella Grassi”.
Ecco cosa ha raccontato Carmine Cerrato: “Mustafà è entrato nel clan nel 2009, quando Cesare Pagano era latitante, si colloca da subito a Mugnano, accanto al D’Andò nel settore delle estorsioni. Durante la prima fase della faida, quando il clan Amato-Pagano perse Mugnano, “Mustafà” si rifugia a Melito, divenendo un killer a fianco mio e di “Mariano” e infatti partecipa all’omicidio Abrunzo del 21 giugno 2012. Che io sappia non ha partecipato ad altri omicidi.
Dopo la faida, torna a Mugnano ed è stato uno dei referenti per le estorsioni, con lui lavoravano “Peppe sinistro”, “Lino il barbiere e un’altra persona di cui non ricordo il nome, ma saprei riconoscere. Diviene responsabile della piazza della 219, che era diventata dal 2012 la nostra piazza, estromettendo completamente gli Amato. Per come mi chiede, effettivamente a settembre del 2012 “Mustafà” ha avuto una discussione con Mariano, all’esito della quale gli venne tolta la gestione della 219, che è stata affidata a Turam”.
Anche Rosario Guarino, “Joe Banana”, ex reggente dalla Vanella-Grassi, all’epoca alleati con gli Amato-Pagano, ha indicato Franco Bottino quale presunto responsabile dell’omicidio
di Ciro Abrunzo ’o cinese: “È Bottino detto “Mustafà”, di lui ho già detto in altro interrogatorio, è affiliato al clan Amato-Pagano, con ruolo di killer, custodiva le armi e
acquistava armi per il clan Amato- Pagano. So che ha partecipato all’omicidio di Ciro Abrunzo, detto il “Cinese” a Barra, nel giugno del 2012. “Mustafà” aveva molte basi a Barra-San Giovanni. Era affiliato al clan Amato-Pagano”.
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E’ stato condannato a 4 anni di carcere il boss Giuseppe Amendola, ‘o guaglione, ex reggente del clan Contini. E’ accusato di ricettazione e falso in atto pubblico, reati entrambi aggravati dall’agevolazione al clan. Quando fu arrestato nell’estate del 2015 infatti fu trovato in possesso di documenti falsi.
Il boss era latitante da oltre un anno ma se ne stava tranquillamente al sole sulla spiaggia a Torvaianica, sul litorale romano. Fu ammanettato tra lo stupore generale dei bagnanti.
Era in vacanza e aveva affittato un appartamento nella località del litorale laziale, dove si era fatto raggiungere dalla famiglia.
Nell’appartamento preso in affitto la polizia sequestrò3500 euro in contanti, 2 telefoni cellulari, 13 pen drive ed un computer e anche una Peugeot in uso al latitante. Ieri è arrivata la prima condanna. Ma per lui la Dda ha chiesto 14 anni di carcere nel maxi processo contro il clan Contini che si sta celebrando davanti al Tribunale di Napoli e la cui sentenza è attesa per fine anno.
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Avrebbe violentato sua figlia per più di una volta, concedendola anche ad un amico dopo averla inibita con la droga. Ad inchiodarlo è anche la testimonianza del fidanzato della vittima. Nell’ aula “Marcello Torre” del tribunale di Nocera Inferiore si è celebrata l’udienza che vede a processo un 39enne di San Marzano sul Sarno, accusato di aver violentato più volte la figlia. La vera e propria svolta, in fase di dibattimento, si è registrata con la testimonianza di un ragazzo, attuale fidanzato della vittima.
Secondo i suoi racconti il padre usciva dalla stanza della figlia con il pantalone slacciato, andando a confermare l’impianto accusatorio dei giudici. “A questa storia sono estraneo – ha detto il ragazzo – quando andavo a casa, da lei, vedevo che quell’uomo usciva dalla camera da letto con il pantalone slacciato. Lei era all’interno e ricordo che chiedeva aiuto”. Una storia accaduta nel lontano 2013 quando i carabinieri raccolsero a più riprese le denunce della moglie dell’imputato e della ragazzina.
Il padre abusava della figlia insieme ad un amico, già condannato con rito abbreviato a 2 anni e 6 mesi. Spesso il padre si nascondeva nell’armadio ed osservava l’amico e la figlia a letto: i due si sarebbero alternati nelle violenze.
La bambina ha spiegato che il padre l’avrebbe costretta a dormire – sin da piccola – con lui, per poi baciarla sulla bocca e provando ripetutamente a spogliarla. Il processo, alle fasi finali, riprenderà il prossimo 30 gennaio.
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“Antimo Liccardo a Giugliano comanda piu’ del sindaco”. Sono queste le parole di Giuliano Pirozzi, collaboratore di giustizia del clan Mallardo, sgominato con l’arresto di 19 persone tra le quali la notifica in carcere di un’ordinanza di custodia cautelare anche per il capoclan Francesco detto ‘Ciccio’, intercettato con una microspia. Liccardo e’ uno dei destinatari della misura cautelare e per i Mallardo ha gestito gli affari in Toscana oltre ad essere un dipendente del comune “ma era espressione di Giuseppe e Francesco Mallardo e tutti lo sapevano”, ha detto Pirozzi.
Dalle dichiarazioni di Pirozzi emerge il ruolo di Liccardo come “al centro degli affari di speculazioni edilizie alle quali il boss Mallardo era interessato”. Ed e’ in una intercettazione ambientale del 30 settembre 2014 tra il capoclan e un altro Liccardo, ovvero Paolo, imprenditore finito ora in carcere, che emergono gli affari condotti dalla cosca di Giugliano nel resto d’Italia. “Siccome dovrebbero fare un grosso lavoro a Lago Patria, dovrebbero realizzare 900 milioni di lavori” e l’ordine era “devi infiltrarti”, sentono gli investigatori.
“Vedi un attimo se ti puoi infilare in mezzo, poi dopo insomma vediamo come fare”, dice il boss al suo uomo che d’accordo risponde: “Va bene, tutto questo solo su autorizzazione vostra”.
Come per dire, “comandate e io eseguiro'”. E’ proprio ‘Ciccio’ in persona a chiedere a Liccardo di interessarsi della speculazione immobiliare programmata, della quale era venuta a conoscenza. Aveva un foglietto sul quale c’era segnato tutto, sia le ditte che facevano riferimento a lui: “Quelle in Toscana”, sia le ditte che aveva dato in gestione ad altri, come un supermercato a Giugliano.
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All’esito del giudizio di secondo grado, la Corte di assise di appello di Napoli – III sezione – ha inflitto rispettivamente anni 30 e 20 anni a Pietro Papale e Ciro Montella per essere stati entrambi i mandanti dell’omicidio di Giorgio Battaglia, ucciso durante la faida tra il clan Ascione- Papale da un lato ed il clan Birra dall’altro. In primo grado la direzione distrettuale antimafia aveva invocato l’ergastolo per entrambi, ma in data 09.05.16 il Giudice dell’udienza preliminare – dott. Rosa de Ruggiero – ritenne condannare all’ergastolo solo Montella, sorprendentemente assolvendo Papale in accoglimento delle argomentazioni formulate dall’avvocato Dario Vannetiello.
Ma avverso la assoluzione del boss Papale, l’accusa propose appello, impugnazione che è stata oggi condivisa dalla Corte di assise di appello, seppur la condanna inflitta al Papale è stata quella di trenta anni di reclusione, diversa da quella dell’ergastolo richiesta in primo grado dalla Procura Antimafia. Mentre venti anni di reclusione sono stati inflitti a Ciro Montella il quale, difeso dall’avvocato Giuseppe Ricciulli, è stato ritenuto meritevole delle attenuanti generiche alla luce recente confessione del delitto da lui effettuata in data 26.10.17.
Niente “fine pena mai”, quindi, per i due boss seppur condannati per omicidio con la aggravante mafiosa, ergastolo evitato anche grazie alle esclusioni, decise dalla Corte di assise di appello, sia dell’aggravante dei motivi abietti e futili inizialmente contestata, sia della clandestinità dell’arma utilizzata per l’omicidio. Indubbiamente, appare rilevante l’aver da parte dei due boss evitato l’ergastolo, atteso che in futuro potranno cumulare la pena inflitta per tale omicidio con altre condanne già divenute irrevocabili a loro carico, con il rilevante effetto che la pena totale comunque non potrà mai superare in totale gli anni 30 di reclusione.
In ogni caso, per Pietro Papale si tratta ancora di un processo tutto da giocare innanzi alla Corte di cassazione, sia perché costui non ha confessato, sia perché comunque vi sono state due decisioni difformi tra primo e secondo grado di giudizio. Ma vi è una ulteriore circostanza che di fatto fa ritenere ancora incerta la condanna inflitta a Papale. Infatti, laddove, come già invocato con fermezza e con penetranti ragioni giuridiche dall’avvocato Dario Vannetiello, verrà dalla Corte Costituzionale in futuro dichiarata la illegittimità della nuova norma, l’ art. 603 co. 3 bis del codice di procedura penale (che ha consentito, successivamente alla assoluzione dell’imputato in sede di giudizio abbreviato, alla Procura Generale di esaminare durante il giudizio di secondo grado i pentiti Gaudino Ciro, Esposito Gaetano ed Esposito Andrea), l’annullamento della sentenza di condanna di Papale appare quasi inevitabile, con conseguente definitiva assoluzione di costui.
La battaglia giuridica portata avanti dalla difesa del boss Pietro Papale continua e pare proprio non destinata a fermarsi, ove la prima, ma non l’unica, mossa dell’avvocato Dario Vannetiello sarà senz’altro quella di proporre ricorso per cassazione non appena saranno note le motivazioni della sentenza di appello. Vi è un’unica certezza: i due boss hanno evitato l’ergastolo; il resto è ancora da scrivere.
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S. Maria Capua Vetere. Appalti e tangenti a San Felice a Cancello, il sottosegretario alla difesa Gioacchino Alfano conferma le accuse nei confronti dell’ex sindaco di San Felice a Cancello, Pasquale De Lucia imputato insieme ad ex amministratori e a Rita Di Giunta, ex amministratore delegato di Terra di Lavoro spa, per associazione a delinquere, corruzione e altro.
Il sottosegretario alla Difesa Gioacchino Alfano ha deposto in qualità di teste al processo in corso al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che vede imputati anche numerosi ex consiglieri comunali, funzionari pubblici e imprenditori di San Felice. Alfano ha sostanzialmente confermato in aula quanto emerso nel corso delle indagini della Procura Della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, culminate nel settembre 2016 con l’arresto di De Lucia e altre sette persone (per altri 13 indagati furono disposti gli arresti domiciliari). “De Lucia venne da me con la Di Giunta – ha raccontato l’esponente del Governo Gentiloni – chiedendomi di intervenire presso due carabinieri che lo pressavano e che erano sempre in Comune ad indagare rallentando così la macchina amministrativa”. Nell’inchiesta restò indagato anche il comandante della stazione dell’Arma di San Felice, Fraiese. Per l’accusa, dopo il “pressing” di De Lucia su Alfano, episodio che provoco’ “fastidio” al Sottosegretario, De Lucia sarebbe stato isolato da Alternativa Popolare nella corsa alle elezioni regionali del 2015 tanto da non essere eletto. Una ricostruzione che l’avvocato di De Lucia, Federico Simoncelli, ha cercato di smontare chiedendo ad Alfano dei numerosi incontri avuti con l’allora sindaco di San Felice a Cancello nel periodo precedente alle Regionali. Il Sottosegretario ha confermato di aver incontrato parecchie volte De Lucia. L’inchiesta travolse il Comune di San Felice a Cancello; con l’ex sindaco e la Di Giunta furono infatti arrestati tra gli altri il vice-sindaco, il Comandante della Polizia Municipale, consiglieri comunali, oltre ad imprenditori che, secondo l’accusa, avrebbero pagato tangenti alla “cricca” capeggiata da De Lucia per avere licenze edilizie o appalti, soprattutto nel settore della raccolta dei rifiuti. Rilevante la figura della Di Giunta, che al momento degli arresti, oltre ad essere Ad di Terra di Lavoro spa, era tesoriere della Fondazione “Campania Futura”, il movimento politico creato dal sindaco De Lucia. Un personaggio la cui rilevanza è emersa con forza anche nell’ulteriore inchiesta che nel gennaio scorso ha portato al secondo arresto di De Lucia e della stessa Di Giunta; nel mirino della Procura Antimafia, e non di quella ordinaria come nell’indagine del settembre 2016, un altro giro di appalti comunali pilotati, finiti però questa volta alle ditte vicine al clan dei Casalesi. Qualche mese dopo l’indagine, nel maggio scorso, il Comune è stato sciolto per infiltrazioni camorristiche.
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Napoli. Un clan al vertice di un cartello di famiglie camorristiche attivo a Napoli, grazie all’alleanza con i Contini e i Bosti, e nella cintura metropolitana, che reinveste i proventi delle attività illecite nella cosiddetta economia legale, in particolare nel settore dell’edilizia.
Attività estese non solo in Campania, ma anche in Toscana, in Abruzzo, nel Lazio e in diverse altre regioni. E’ questa la ”fotografia” del clan Mallardo, emersa dall’inchiesta che ha portato oggi all’esecuzione da parte della polizia di 19 arresti, al sequestro di 59 immobili, 9 società, ovvero beni per 50 milioni oltre al sequestro ”per equivalenza”, ovvero fino al raggiungimento di una somma di 829 milioni di euro. I particolari dell’operazione sono stati illustrati dal procuratore di Napoli Giovanni Melillo, dal procuratore aggiunto e coordinatore della Dda Giuseppe Borrelli, dal dirigente dello Sco Alessandro Giuliano, alla presenza di dirigenti e funzionari delle squadre mobili di Napoli e Firenze che hanno svolto le indagini.
Al vertice dell’organizzazione il boss Francesco Mallardo al quale l’ordinanza di custodia è stata notificata nel carcere milanese di Opera. Tra i destinatari dei provvedimenti spicca il nome di Antimo Liccardo, ritenuto tra gli elementi di spicco della cosca di Giugliano in Campania e fiduciario del boss. Le indagini hanno anche fatto luce sullo scontro interno al clan con alcuni esponenti che, violando l’ordine impartito dai Mallardo, avevano venduto droga nel territorio di Giugliano.
L’inchiesta – condotta dai pm della Dda partenopea Ilaria Sasso del Verme e Cristina Ribera – si è avvalsa soprattutto di indagini patrimoniali e intercettazioni telefoniche e ambientali, mentre poco rilevante è stato il contributo offerto dai collaboratori di giustizia a dimostrazione – come hanno spiegato gli inquirenti – che il clan Mallardo è un gruppo assai coeso in cui le defezioni sono assai rare o inesistenti. E’ emersa anche una ”non occasionale infiltrazione ma una vera e propria immedesimazione” tra gruppi criminali e appartenenti al mondo politico-amministrativo, testimoniata dai rapporti tra la pubblica amministrazione locale, la camorra e le imprese.
Sono 25 gli immobili sequestrati in Toscana, 9 a Reggello in provincia di Firenze e 16 a Montevarchi nell’Aretino. Secondo quanto emerso dalle indagini, il clan Mallardo avrebbe riciclato il denaro provento di attività illegali anche attraverso due aziende edili con sede a Figline Valdarno (Firenze), intestate a prestanome. Le due società venivano finanziate con denaro proveniente da imprese contigue o da soggetti collegati al clan Mallardo
. Dal 2002 al 2011 le società avrebbero acquistato immobili e terreni nelle province di Arezzo e Firenze per un valore di circa 2,5 milioni di euro, e venduto lotti e unità abitative per un valore dichiarato di circa 8,5 milioni di euro. Nello stesso periodo le società gestite di fatto dalla camorra avrebbero avuto accesso a erogazioni di mutui agevolati da parte degli istituti di credito per 9,5 milioni di euro. Tra gli indagati nell’inchiesta che un 66enne campano residente da tempo in Toscana. Secondo quanto si apprende la polizia avrebbe perquisito anche la casa della sorella del boss, nell’Aretino.
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La cassazione ha confermato in via definitiva la sentenza di condanna a 10 anni e 4 mesi di reclusione, per Gianni Paciello, il 25enne di Sassano, che a settembre del 2014 alla guida della propria Bmw travolse ed uccise quattro giovani. Confermate quindi le accuse di omicidio colposo plurimo. Il giovane ubriaco, piombò ad alta velocità con la sua vettura su di un tavolino di un bar della frazione Silla di Sassano uccidendo i fratelli Giovanni e Nicola Femminella, Daniele Paciello e Luigi Paciello, quest’ultimo fratello dello stesso Gianni Paciello.
I due avvocati del 23enne, Alfonso Giuliano e Gennaro Lavitola, avevano chiesto nel corso dei primi due gradi di giudizio ulteriori perizie sia sull’auto che sulle condizioni fisiche dello stesso Paciello, chiedendo se non fosse stato riaperto il dibattito l’assoluzione per il loro assistito o quanto meno la pena con la quale volevano patteggiare all’inizio del procedimento (5 anni e 4 mesi da scontare di un terzo).
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Il clan ha sempre dimostrato “grande interesse alla realta’ politica giuglianese e una indubbia capacita’ con la famiglia Liccardo di infiltrarsi”. Molti collaboratori di giustizia hanno raccontato che la cosca camorrista ha sempre avuto il controllo dei Comune affinche’ assumesse iniziative a tutela degli interessi dell’organizzazione camorristica.
In particolare, Salvatore Izzo e Giuliano Pirozzi, due ‘gole profonde’ hanno delineato con precisione il ruolo di Antimo Liccardo e le intercettazioni telefoniche a cavallo delle tornate elettorali per l’individuazione dei candidati che si sarebbero dovuti presentare come sindaco. Dall’ordinanza che ha colpito il clan Mallardo, emergono telefonate avvenute durante le elezioni primarie del Pd che si sono svolte nel marzo del 2015, al termine delle quali e’ stato designato quale candidato Antonio Poziello.
In quel periodo ci sono state telefonate tra i cugini Paolo Liccardo, in carcere, e il suo omonimo, consigliere comunale e indagato a piede libero, e l’onorevole del Pd Giovanna Palma – estranea all’indagine -, a sua volta cugina dei Liccardo. “La stessa Palma e poi il consigliere Paolo Liccardo, rivelano apertamente la contiguita’ di Antimo Liccardo con gli ambienti della criminalita’ organizzata”, scrive il gip nella misura cautelare.
La parlamentare, sostiene il gip, si e’ rivolta ai cugini “per reperire voti in favore di Nicola Pirozzi, altro candidato al ruolo di primo cittadino”. La prima conversazione e’ del 26 marzo del 2015 alle ore 15,27 ed e’ tra Paolo e l’onorevole e verte principalmente su argomenti elettorali e sui pessimi rapporti tra lo stesso Paolo e il suo cugino omonimo, descritto come un poco di buono.
(nella foto da sinistra Paolo Liccardo, l’onorevole Giovanna Palma e Nicola Pirozzi)
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Nelle 798 pagine di cui si compongono le due ordinanze emesse dal gip Claudia Picciotti nei confronti dei 18 esponenti del clan Mallardo di Giugliano ci sono moltissime intercettazioni ambientali, ma anche alcune dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia. Emerge in particolare la sete di denaro di Francesco Maliardo, che, nel periodo in cui era in una casa di lavoro di Sulmona, spingeva uno dei nipoti di Antimo Liccardo a inserirsi in una speculazione edilizia a Lago Patria da 900 milioni di euro.
Le complesse indagini sono state svolte dalle squadre mobili di Napoli e Firenze, guidate oggi dai dirigenti Luigi Rinella e Giacinto Profazio, e dallo Sco di Alessandro Giuliano. Dall’operazione arriva la conferma che da Giugliano, storica roccaforte del clan, i Maliardo controllano Napoli attraverso la loro parentela con i Contini e allungano i loro tentacoli fino alla Toscana e all’Abruzzo, dove hanno investito moltissimo denaro.
Dall’ordinanza si evince come i Maliardo (Francesco e suo fratello Giuseppe) siano soliti servirsi di prestanome per gestire le attività di loro interesse. Ecco per esempio cosa racconta il collaboratore di giustizia Giuliano Pirozzi a proposito del parco di divertimenti Magic World: “Ogni fine ottobre Antimo Liccardo è solito farsi accompagnare dal nipote Paolo Liccardo (il consigliere comunale, ndr), titolare dell’agenzia sita in via Licante di Giugliano in Campania, presso l’agenzia immobiliare Invest immobiliare di Luigi Guarino, ex presidente del consiglio comunale di Giugliano, nei pressi di un bar, dove si incontra per effettuare il conteggio degli utili provenienti dall’attività del vecchio Magic World e per programmare gli eventi del periodo natalizio.
Dopo il periodo natalizio i soci di fatto di Giuseppe e Francesco Mallardo hanno sei mesi di tempo per trasferire i loro guadagni mediante consegna di somme contanti nelle mani dello stesso Antimo Liccardo; questi a sua volta le affida al nipote, il quale le detiene come la cassa liquida del clan”.
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Appalti Romeo: una ordinanza di arresti domiciliari è stata eseguita nei confronti di Ciro Verdoliva, direttore generale dell’ospedale Cardarelli di Napoli. Al manager è contestata, secondo quanto si e’ appreso, l’accusa di corruzione. La misura eseguita oggi dovrebbe rientrare nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Romeo.
Nell’ambito dell’inchiesta sono state arrestate 16 persone. L’ordinanza è in corso di esecuzione per reati che vanno dalla corruzione alla frode. Tra i destinatari del provvedimento figurano l’imprenditore Alfredo Romeo e il direttore generale dell’ospedale Cardarelli di Napoli Ciro Verdoliva. Per entrambi sono stati disposti gli arresti domiciliari.
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Napoli. Tre filoni d’inchiesta che riguardano gli appalti al Cardarelli, al Comune di Napoli, e alla Soprintendenza dei beni culturali di Roma sono alla base dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Mario Morra del Tribunale di Napoli. I tre filoni d’inchiesta ruotano intorno alla figura di Alfredo Romeo e riguardano episodi corruttivi per ottenere gli appalti.
L’inchiesta è svolta congiuntamente dalla Dda di Napoli e dalla sezione reati contro il patrimonio della procura partenopea. Le misure cautelari sono state chieste dai pm della Direzione Distrettuale Antimafia Henry John Woodcock e Celeste Carrano, con il coordinamento del procuratore aggiunto Filippo Beatrice; e dal pm della seconda sezione (reati contro la pubblica amministrazione) Francesco Raffaele, con il coordinamento del procuratore aggiunto Alfonso D’Avino.
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Napoli. Appalti e corruzione a Napoli e a Roma: oltre che per l’imprenditore Alfredo Romeo e per il dg dell’ospedale Cardarelli Ciro Verdoliva, sono stati disposti gli arresti domiciliari anche per Giovanni Annunziata, ex direttore generale dell’ufficio patrimonio del Comune di Napoli, e per Ivan Russo, collaboratore dell’imprenditore Romeo. Nei confronti di altri 12 indagati sono state disposte misure interdittive.
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Napoli. Ci sono dirigenti, impiegati, fedelissimi di Romeo ma anche vigili urbani e finanzieri nella lista degli indagati della Procura di Napoli. Stamattina sono scattati gli arresti domiciliari per l’imprenditore già arrestato nel caso Consip, Alfredo Romeo, per il direttore generale del Cardarelli Ciro Verdoliva, per l’ex direttore generale dell’ufficio patrimonio del comune di Napoli, Giovanni Annunziata e per Ivan Russo, stretto collaboratore di Romeo. Ma la lista degli eccellenti è lunga, gli altri 12 destinatari della misura interdittiva sono funzionari, vigili urbani e finanzieri.
In tutti gli appalti oggetto dell’inchiesta, l’ipotesi è che l’imprenditore ottenesse aggiudicazioni attraverso favoritismi. Ad Alfredo Romeo, i pm contestano otto capi di imputazioni con l’accusa di corruzione in atto contrario ai doveri d’ufficio e corruzione a favore di un incaricato di pubblico servizio. Ciro Verdoliva, invece, in qualità di responsabile unico del provvedimento di gara dell’ufficio tecnico del Cardarelli, di corruzione nell’esercizio delle sue funzioni, e corruzione per atti contrari dai doveri d’ufficio. A Giovanni Annunziata, ex direttore generale dell’ufficio Patrimonio del Comune di Napoli, corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, e a Ivan Russo corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Indagati e con provvedimenti di sospensioni dalle loro funzioni, un geometra della II municipalità, un funzionario della Soprintendenza romana, il direttore tecnico dell’ospedale Cardarelli, due responsabili del complesso giudiziario di Napoli e due finanzieri.
Le richieste al gip sono state inoltrate tra il giugno e settembre scorso.
Ipotesi di corruzione anche nei confronti della funzionaria della Sovrintendenza archeologia e Belle arti romana Rossella Pesoli, per quanto riguarda il rapporto con Leandro De Felice, funzionario del Comune di Napoli. Sia la Pesoli che De Felice hanno avuto una sospensione dai pubblici uffici per alcuni mesi. Ipotesi di corruzione a carico di Romeo anche per i rapporti con Emanuele Caldarera, responsabile dell’ufficio speciale del Palazzo di giustizia di Napoli. Plurimi ipotesi di corruzione ipotizzati dai pm anche per i rapporti tra Romeo e dipendenti del Comune di Napoli, tra cui vigili urbani che non elevano multe all’hotel a cinque stelle di Alfredo Romeo, e impiegati comunali. Sono indagati anche due finanzieri che hanno ricevuto una misura interdittiva.
Ecco tutti i nomi delle persone coinvolte in questa prima fase di indagine: Stefania De Angelis, Leandro De Felice, Gennaro De Simone, Achille Tatangelo (per i quali è stata disposta una sospensione per sei mesi); sospensione per quattro mesi per i finanzieri Biagio Castiello e Gennaro Silvestro, indagati per violazione di atti coperti; mentre sono indagati anche Sergio Di Stasio (Nas) e Carmen Minopoli (vigile urbano): per loro il giudice deve decidere sulla misura interdittiva.
Per un altro stretto collaboratore dell’imprenditore Romeo, Enrico Trombetta, è stata disposta l’interdizione dall’attività per sei mesi.
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C’era anche il promemoria del clan, il foglietto con l’elenco delle attività da taglieggiare: è stato trovato il 3 ottobre di un anno fa in casa di Silvano Ciccarelli, arrestato ieri nell’ambito dell’operazione contro il clan Di Biase, i cosiddetti “Paparella” scissionisti del clan Mallardo. II gruppo, punito duramente negli ultimi mesi dai Maliardo per l’eccessiva autonomia (c’è anche un caso di lupara bianca quella del capoclan Michele Di Biase detto “Paparella), non esitava dunque a imporre il pizzo anche ad ambulatori e società di ambulanze. Tredici i destinatari dell’inchiesta che vede coinvolti i promotori della scissione. Alcuni delle persone raggiunte dall’ordinanza già erano in cella, altri sono stati arrestati ieri. Si tratta di Gennaro Catuogno o scoiattolo, Aniello Di Biase, Francesco Di Nardo, Crescenzo Panico, Nicola Ciccarelli, Salvatore Pugliese, Silvano Ciccarelli, Domenico Smarrazzo, Michele De Simone, Raffaele De Simone, Antonio Guarino, Giuseppe D’Alterio. Obbligo di firma per Cdm e Adm.
Per tutti l’accusa è 416 bis, ovvero associazione di stampo camorristico. Quindi secondo la Dda avrebbero formato un nuovo clan per contrastare il gruppo storico dei Mallardo.”MedCenter,Ambulanza, Pullmini, Mercato pulci, Strike”, così era scritto sul promemoria del clan. Il foglietto saltato fuori nel corso della perquisizione è un importante riscontro all’intercettazione ambientale del 29 novembre 2015, quando Gennaro Catuogno, Aniello Di Biase e Francesco Di Nardo conversavano tra loro proprio delle tangenti da im porre.
Aniello: “Ora, quando è lunedì, si deve chiamare a quello dell’ambulanza che caccia i 2000 euro, il Med Center (laboratorio di analisi cliniche, ndr), 5000 euro, poi chi ci stava più?”.
Franco: “A questi ce li siamo presi, a Peppe e a Giuliano”. Annota la polizia: Giuseppe C. e Giuliano N., soci, il primo noleggiatore di videopoker, il secondo titolare di agenzie di scommesse Eurobet. Aniello: “Ah, Peppe e Giuliano si devono mandare a chiamare. Quando è lunedì li prendiamo, ci spostiamo da qua. Ci sediamo io, tu e questo. A Giuliano gli fai tu il discorso, che sei più grande, e noi stiamo vicino a te”.
Con questi metodi, dunque, i Di Biase erano arrivati a infastidire i Maliardo, che perciò li hanno puniti. L’ordinanza che ricostruisce le estorsioni è parallela all’altra che analizza le attività criminali dell’organizzazione madre.
(Nella foto i vertici del clan delle paparelle Nellino Di Biase, Gennaro Catuogno ‘ o scoiattolo e Michele De Simone ‘o capitone)
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La Corte d’assise di Udine ha condannato Giosuè Ruotolo all’ergastolo per il duplice omicidio della coppia di fidanzati, Teresa Costanza e Trifone Ragone, uccisi a colpi di pistola la sera del 17 marzo 2015 nel parcheggio del palazzetto dello sport di Pordenone.
La sentenza, che prevede l’ergastolo con due anni di isolamento diurno, è arrivata dopo oltre due giorni di camera di consiglio. Il 20 ottobre scorso il pm Pier Umberto Vallerin aveva chiesto per Ruotolo l’ergastolo e due anni di isolamento diurno. Ruotolo – difeso dagli avvocati Roberto Rigoni Stern e Giuseppe Esposito – si era sempre proclamato innocente.
Ruotolo ha ascoltato il verdetto con gli occhi bassi al fianco dei suoi avvocati. Alle sue spalle il papà e il fratello.
In aula c’erano anche i familiari delle vittime, i genitori e i fratelli del militare di Adelfia (Bari), Trifone Ragone, e la mamma, il papà e un fratello di Teresa Costanza, l’assicuratrice milanese di origini siciliane.
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