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Ultrà del Napoli arrestato: le intercettazioni, i video e le testimonianze che ‘inchiodano’ Fabio Manduca

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Ci sono voluti quasi dieci mesi di indagini, passate per i tentativi di scalfire il muro di “omertà” eretto dai gruppi ultras, per intercettazioni telefoniche, un’analisi minuziosa fotogramma per fotogramma dei video e perizie, per arrivare ad individuare l’investitore di Daniele Belardinelli, il tifoso del Varese travolto e ucciso da un Suv all’inizio degli scontri tra interisti e napoletani del 26 dicembre 2018, a due chilometri da San Siro. In carcere è finito Fabio Manduca, ultrà del Napoli con legami con clan della camorra e con le frange estreme della curva, accusato di omicidio volontario. Quando Manduca, 39 anni e una sfilza di precedenti penali, alla guida di una Renault Kadjar con altri 4 a bordo, ha accelerato verso il gruppo di ultra’ interisti, che stavano assaltando la ‘carovana’ di macchine dei tifosi rivali in via Novara, prima di Inter-Napoli, era “consapevole”, scrive il gip di Milano Guido Salvini, che avrebbe potuto uccidere Belardinelli, ultrà dei ‘Blood and Honour’ gemellati coi nerazzurri. Per questo, nelle indagini dell’aggiunto Letizia Mannella e dei pm Rosaria Stagnaro e Michela Bordieri, è stato contestato l’omicidio volontario con “dolo eventuale”, ossia con l’accettazione del rischio dell’evento. Manduca, infatti, dopo aver sorpassato un’Audi A3, non avrebbe fatto alcunché per evitare gli interisti che avevano invaso la carreggiata con mazze, coltelli, bastoni, ma anzi si è diretto contro di loro, ha “puntato” e centrato Belardinelli, gli è passato sopra e non si è fermato. Salvo scendere con gli altri quattro (anche loro indagati per omicidio volontario) per verificare le condizioni della vettura. “Hanno preso il disgraziato che ha ammazzato mio figlio, non mi cambia la vita, ma spero di vederlo faccia a faccia”, ha scritto la madre della vittima 39enne su Facebook, mentre il padre spera che abbia “una punizione esemplare”. Intanto, qualche mese fa Manduca, sempre accorto nel parlare al telefono e che avrebbe anche fatto pressioni per condizionare la testimonianza di un passeggero dell’auto, si è lasciato andare ad una frase in dialetto napoletano che e’ diventata una delle prove a carico, assieme alle “ammaccature” della Kadjar, al lavoro fatto dalla Digos, guidata da Claudio Ciccimarra, nel ricostruire minuto per minuto la ‘guerriglia’ (finora anche 5 condanne per rissa e un patteggiamento), all’incrocio delle versioni nei verbali. “Qual omicidio, chill se vuttat iss annanz a machin, fra’ (quale omicidio, quello si e’ lanciato lui davanti alla macchina, fratello, ndr)”. Cosi’ diceva intercettato, il 6 aprile, ad un amico, una telefonata dalla quale, per il gip, “emerge con chiarezza che Manduca ha piena consapevolezza dell’investimento”. Lui che su Facebook ha messo immagini di Raffaele Cutolo e post intitolati ‘o’ sistema’, lui che col fratello ha un’impresa di pompe funebri coinvolta in un’inchiesta che ha portato al sequestro di società “riconducibili alla famiglia Cesarano, legata a sua volta ai clan camorristici dei Nuvoletta e dei Polverino di Marano”. Ed ha un “forte legame” con Giancarlo Franco, fratello di Vincenzo Franco, leader del gruppo ultra’ dei ‘Mastiffs’ “che riveste un ruolo nel ‘sistema’ di spaccio di droga di cui era a capo” Gennaro De Tommaso, meglio noto come ‘Genny a carogna’, “predecessore del Franco alla guida degli ultras e la cui famiglia e’ legata” al clan Giuliano di Forcella. Intanto, l’avvocato Dario Cuomo è pronto a ricorrere al Riesame sulle esigenze cautelari (“metterlo in galera un anno dopo i fatti non ha senso”) e chiede che resti a Poggioreale, perché nelle carcere milanesi “é a rischio”.

Fabio Manduca però avrebbe anche fatto pressioni su un altro tifoso che era in macchina con lui, affinché non fornisse elementi utili agli investigatori. Emerge dall’ordinanza firmata dal gip Guido Salvini. Particolarmente “grave e significativo”, secondo il gip, e’ “il comportamento mantenuto da Manduca” nei confronti di un ragazzo che era in auto. “E’ evidente che i contatti e gli appuntamenti fissati da Manduca – scrive il gip – per incontrare il testimone” prima della “sua audizione in Questura a Milano e la circostanza di recarsi alla stazione ferroviaria di Napoli con Franco Giancarlo”, fratello di un capo curva, “all’esito della stessa, erano finalizzati ad incidere sulla genuinità delle sue dichiarazioni”. Per il gip, poi, solo con altre testimonianze se arriveranno, si potrebbe approfondire “un dolo diretto”, ossia la eventuale “scelta volontaria di passare sopra il corpo steso a terra con esiti quasi inevitabilmente letali”. Marco Piovella, detto ‘il Rosso’, uno dei capi curva interisti già condannato per la rissa in via Novara, aveva spiegato a verbale: “Ho visto una vettura, che definirei una berlina di colore scuro, passare sopra con la ruota anteriore destra e quella posteriore destra a un ragazzo steso a terra e anche per un momento fermarsi prima di superare ‘l’ostacolo'”. Il “rallentamento a ridosso del corpo di Belardinelli”, scrive il gip, “seguito dalla scelta di accelerare sarebbe infatti certamente un elemento indicativo di un dolo diretto”. Per ora, però, è stato contestato il ‘dolo eventuale’ nell’omicidio volontario, anche perché di questo fatto ne ha parlato solo Piovella, mentre “nessuno degli altri tifosi interisti certamente presenti ha inteso fornire in alcun modo agli investigatori e agli inquirenti la descrizione di ciò cui aveva assistito”. Nell’ordinanza, con l’analisi delle immagini (anche un video di una residente in zona), viene fornita, minuto dopo minuto, la “ricostruzione della dinamica” dell’investimento che si concentra sulle uniche due auto, la Kadjar di Manduca e un’Audi, che non si fermarono quando gli ultrà interisti partirono all’assalto, con la prima che sorpasso’ l’altra, non appena gli interisti invasero la carreggiata e punto’ dritta su di loro e travolse Belardinelli. L’auto venne anche ripresa in una via vicina: 5 persone scesero a controllare le condizioni della vettura. “Il suv – ha raccontato un passeggero dell’Audi – dopo avermi sorpassato, ha proseguito la sua marcia a velocità sostenuta senza frenare e non ha fatto alcuna manovra per scansare corpi o mezzi”. Nell’ordinanza anche delle “piantine” per ricostruire l’accaduto e gli esiti di una perizia dalla quale sono emerse “numerose ammaccature” sulla parte inferiore della Kadjar, “pienamente compatibili” col passaggio “sopra un corpo”. L’esito delle perizie, conclude il gip, comunque “e’ stato inferiore rispetto agli esiti” previsti “a causa della disattenzione” con cui le auto sequestrate sono state tenute nelle “strutture che a Napoli le avevano in custodia”, lasciate “per settimane e settimane in un parcheggio a cielo aperto esposte alla pioggia e agli altri agenti atmosferici, nonché alla merce’ di chiunque”.

“Io non ho buttato nessuno per terra. ma chi se n’é accorto! Ma se pure l’ho buttato non ce ne siamo accorti”. Al telefono con la sorella, il 14 gennaio di un anno fa, Fabio Manduca parla dell’incidente in cui è morto Daniele Belardinelli, negli scontri scoppiati prima di Inter – Napoli. “Bravo, in mezzo a quella baraonda”, risponde la sorella e lui: “Con le mazze in mano. Mazze, bombe..ma come fai ad accorgertene?”. Dalle telefonate tra Manduca e la sorella, scrivono i pm nella richiesta di arresto poi convalidata dal gip, “emergono i primi riferimenti dell’indagato all’investimento di Belardinelli; di fronte alle domande della sorella, Manduca tenta di convincerla della sua totale estraneità alla vicenda e tenta di trasferire ogni responsabilità sullo stato di generale disordine causato dallo svolgimento della rissa”. E ancora: “Quale omicidio, quello si è lanciato lui davanti alla macchina, fratello”. Cosi’ Fabio Manduca si è rivolto a un amico in una telefonata del 6 aprile 2019, riportata nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Guido Salvini. Da questa telefonata, si legge nel provvedimento, “emerge con chiarezza che Manduca ha piena consapevolezza dell’investimento di Belardinelli”. In una conversazione successiva, Manduca “per giustificare l’investimento, descrive la modalità secondo cui Belardinelli si sarebbe buttato sotto l’auto con la chiara intenzione di escludere la propria responsabilità”.

Cronache della Campania@2019


Napoli, preso a Capodichino il ‘cassiere’ del boss Zagaria, tornava dalla Romania

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Nella serata di ieri, all’interno dell’aeroporto internazionale di Capodichino, la D.I.A. di Napoli ha eseguito un’Ordinanza applicativa di misura cautelare personale della custodia in carcere, emessa dal Tribunale di Napoli, Ufficio GIP, su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, che ha coordinato l’intera attività investigativa, nei confronti di  Vincenzo Inquieto,di 50 anni originario di Aversa, perché ritenuto responsabile del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. (partecipazione all’associazione per delinquere di tipo mafioso denominata clan dei casalesi – fazione Zagaria).
Le attività d’indagine, che si sono avvalse di intercettazioni telefoniche ed ambientali (con la collaborazione del N.I.C. della Polizia Penitenziaria per le attività di specifica competenza), di accertamenti patrimoniali e bancari e delle significative propalazioni di numerosi collaboratori di giustizia, hanno consentito di appurare che i principali affari del clan dei casalesi sono stati gestiti, negli ultimi anni, da un nucleo delinquenziale di imprenditori aggregatosi soprattutto attorno alla famiglia Zagaria: in tale contesto, è emerso come i componenti della famiglia Inquieto (con particolare riferimento ai fratelli Nicola e Vincenzo) siano stati tra i più vicini a Zagaria Michele, avendone retto per anni la latitanza.
Inquieto Vincenzo, infatti, veniva tratto in arresto il 7 dicembre 2011 unitamente a Zagaria Michele, proprio per aver favorito la lunga latitanza del boss. Condannato per favoreggiamento aggravato ad anni 4 di reclusione, lo stesso veniva scarcerato in data 26.04.2015 per espiazione pena.
Il suo ruolo è stato anche quello di coadiuvarlo nelle relazioni esterne: riceveva ed inviava pizzini per conto del boss ed interagiva con gli altri componenti della famiglia Zagaria.
Più in particolare, le attività consentivano di ricostruire come Inquieto Vincenzo, fino al 2011, attraverso due aziende, operanti entrambe nel settore edile, idraulico ed elettrico e della distribuzione del gas, venisse favorito nell’affidamento di commesse pubbliche e private, nell’intero agro aversano, per intercessione del suo capo , Zagaria Michele.
L’operazione odierna segue quella del 12 aprile 2018 quando, in esecuzione ad un analogo provvedimento restrittivo, fu tratto in arresto, a Pitesti (Romania), su ordine dell’A.G. italiana, Inquieto Nicola, fratello di Vincenzo, poi condannato in primo grado dal Tribunale di Napoli Nord ad anni 16 di reclusione lo scorso maggio, per la partecipazione al sodalizio casalese, fazione Zagaria. In quel contesto, fu eseguito uno dei più importanti sequestri operati dalla magistratura italiana all’estero (oltre 400 appartamenti, tre società, tutti riconducibili a Zagaria Michele e gestiti, per suo conto, da Inquieto Nicola). Dopo l’arresto del fratello – tuttora ristretto in carcere in Italia poiché in regime di consegna temporanea da parte delle autorità romene – Vincenzo, che si era trasferito a Pitesti subito dopo la sua scarcerazione, era diventato il nuovo rappresentante della famiglia Inquieto in territorio romeno, dove dimorava ormai stabilmente, facendo raramente rientro in Italia. Le attività di localizzazione poste in essere dalla DIA su delega della DDA di Napoli, consentivano di mantenere un costante monitoraggio sugli spostamenti dell’imprenditore aversano il quale, giunto in Italia con un volo proveniente da Bucarest ed atterrato a Capodichino, ha trovato ad accoglierlo gli agenti della DIA di Napoli i quali, con l’ausilio dell’ufficio di Polizia di Frontiera, dopo avergli notificato il provvedimento restrittivo emesso a suo carico, l’hanno poi condotto nel carcere di Secondigliano . Contestualmente, è stato disposto dall’Autorità Giudiziaria partenopea il sequestro di un immobile di proprietà dell’INQUIETO e fittiziamente intestato ad una persona deceduta.

Cronache della Campania@2019

Slitta a domani l’interrogatorio del tifoso del Napoli arrestato

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E’ stato rinviato a domani l’interrogatorio di Fabio Manduca, il 39enne ultrà napoletano arrestato venerdì scorso con l’accusa di omicidio volontario per aver investito e ucciso Daniele Belardinelli all’inizio degli scontri tra ultras del 26 dicembre scorso, prima di Inter-Napoli. L’ultrà napoletano è stato portato dagli agenti di polizia penitenziaria al settimo piano del Tribunale milanese, mentre i suoi legali non hanno potuto essere presenti e, dunque, il gip di Milano Guido Salvini ha deciso di fissare nuovamente l’interrogatorio per domani in tarda mattinata.
Manduca, che era stato arrestato venerdì scorso nella sua casa di Napoli, è accusato di omicidio volontario. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti della Digos coordinati dai pm Rosaria Stagnaro e Michela Bordieri, sarebbe stato lui a investire in auto il coetaneo Belardinelli, leader del gruppo di estrema destra “Blood and Honour” della curva del Varese (la cui tifoseria è gemellata con quella dell’Inter) durante l’assalto sferrato in Via Novara, a circa due chilometri di distanza dallo stadio Meazza, da parte di un gruppo di ultrà interisti alla “carovana” delle auto dei tifosi napoletani che stava percorrendo Via Novara, a circa due chilometri di distanza dallo stadio, in direzione San Siro. Per quegli scontri cinque tifosi nerazzurri (tra cui Marco Piovella detto ‘il Rosso’, ritenuto uno dei capi del gruppo dei Boys, e Nino Ciccarelli, fondatore e storico capo del gruppo dei Viking) sono stati condannati in primo grado a pene comprese tra i 2 anni e 6 mesi e i 3 anni e 8 mesi di carcere e per loro è ora in corso il processo d’appello.

Cronache della Campania@2019

Camorra: indagata per ricettazione anche l’ex moglie del ‘cassiere’ di Zagaria arrestato a Capodichino

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Domani, dinanzi al gip Federica De Bellis, nel carcere di Secondigliano è stato fissato l’interrogatorio di garanzia per l’imprenditore 51enne Vincenzo Inquieto di Aversa arrestato, sabato sera, a Capodichino, dagli uomini della Dia di Napoli. Era appena sceso dall’aereo e proveniva da Pitesti in Romania. E’ ritenuto responsabile di partecipazione all’associazione per delinquere di tipo mafioso al clan dei Casalesi frazione Zagaria. Il 7 dicembre 2011 era stato già arrestato, nel corso della cattura del capoclan Michele Zagaria, proprio per aver favorito la lunga latitanza del boss. Condannato per favoreggiamento aggravato ad anni 4 di reclusione, lo stesso veniva scarcerato in data ad aprile 2015. Il suo ruolo, secondo le nuove accuse, ricostruite dagli investigatori con intercettazioni telefoniche ed ambientali con la collaborazione della Polizia Penitenziaria per le attività di specifica competenza, è stato anche quello di aver continuato a coadiuvare nelle relazioni esterne il clan dei Casalesi: riceveva ed inviava pizzini per conto del boss ed interagiva con gli altri componenti della famiglia Zagaria e avrebbe investito i soldi del clan in Romania. Nella nuova misura eseguita sabato, risulta essere indagata per ricettazione aggravata anche la ex moglie Rosaria Massa. Domani Inquieto sarà assistito dagli avvocati Nicola Marino e Sergio Cola.

Cronache della Campania@2019

Il prefetto di Salerno: ‘Niente sospensione per il sindaco di Sarno condannato, non si applica la legge Severino’

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Non si applica la legge Severino per il sindaco di Sarno, Giuseppe Canfora (Pd), condannato in primo grado per tentata concussione. La Prefettura di Salerno ha chiarito che “alla luce della normativa vigente – si legge – si ritiene che, nel caso specifico, vada esclusa l’applicabilità della misura della sospensione a carico del sindaco Giuseppe Canfora”. L’attuale primo cittadino di Sarno era stato condannato qualche settimana fa, dal Tribunale di Salerno, insieme al suo ex direttore generale, per pressioni fatte sul presidente dell’Asi di Salerno, quando era a capo dell’amministrazione provinciale di Salerno. Condanna che aveva aperto ad una possibile sospensione della carica per effetto della legge Severino. La nota della Prefettura, però, esclude tale provvedimento. “E con orgoglio, fierezza, commozione e con tutta la forza della fiducia nella giustizia che resto Sindaco della Città di Sarno e continuo questa battaglia di verità – dichiara il primo cittadino di Sarno – Non spenderò parole per chi in queste settimane ha inteso fare un inutile quanto vile tiro al bersaglio, a chi è garantista a giorni alterni, a chi ha utilizzato termini amari, esasperati, inopportuni”.

Cronache della Campania@2019

Era in malattia ma fu trovato a giocare al calcetto: confermato il licenziamento

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Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Napoli, ribaltando una precedente decisione, ha dichiarato legittimo il licenziamento di un dipendente dell’Eav (azienda dei trasporti in house della Regione Campania, ndr) che, secondo le contestazioni sollevate dall’azienda, si e’ recato a giocare una partita di calcio di Prima Categoria malgrado risultasse in malattia. Lo rende noto l’Ente Autonomo Volturno, in un comunicato. “Il giorno 27 ottobre 2017, – spiega l’Eav – pur avendo comunicato di essere in malattia, alle ore 13, lasciava, in compagnia di un’altra persona, la sua abitazione per ritornarvi alle ore 17,35. Dopo pochi minuti, lasciate a casa alcune buste della spesa, si recava in compagnia di altre persone in Via V. , facendo ritorno alla sua abitazione alle ore 19,00; che il giorno 28 ottobre 2017 usciva da casa con un borsone da calcio, salendo su un auto, recandosi prima in localita’ Agnano, dove prelevava altri due uomini suoi coetanei, anche loro con borsoni da calcio e si dirigeva al Centro Sportivo a Cardito, dove alle ore 13,00 iniziava la partita di calcio della quarta giornata del girone A del torneo di Prima Categoria della Regione Campania, alla quale il ricorrente partecipava come calciatore, indossando la maglia numero 10 di una delle squadre impegnate nella competizione sportiva”. Per questa ragione, evidenzia la nota, il lavoratore e’ stato “sospeso dal soldo e dal servizio, e invitato a presentare le proprie giustificazioni” in quanto ritenuto responsabile di avere “gravemente contravvenuto agli obblighi di correttezza, lealta’ e diligenza”. “L’Azienda – e’ scritto ancora nel comunicato – aveva accertato tale comportamento attraverso il ricorso ad investigatori privati con lo scopo di prevenire fenomeni truffaldini a danno della pubblica amministrazione. Il lavoratore si giustificava allegando un certificato di malattia, per le giornate del 27.10.2017 e del 28.10.2017, inviato all’Inps, recante la diagnosi di ‘cervicalgia cefalea’”. “In particolare, secondo il Tribunale, – continua il comunicato – con il suo comportamento il lavoratore aveva aggravato le conseguenze della propria malattia, tenendo una condotta oggettivamente inidonea a garantirsi la rapida guarigione e la ripresa del servizio”. Per il presidente di Eav, Umberto De Gregorio, “e’ sempre doloroso procedere al licenziamento di un lavoratore, ma siamo particolarmente soddisfatti dell’esito della vicenda perche’, dalla magistratura del lavoro, attraverso una corretta interpretazione delle norme che regolano il rapporto di lavoro, giunge il sostegno alle iniziative di Eav volte a contrastare fenomeni negativi quali l’assenteismo ovvero la repressione di gravissimi fenomeni di malcostume a danno dei lavoratori onesti di Eav (la stragrande maggioranza), dei cittadini e degli utenti del servizio pubblico”. “Peraltro – ha detto ancora De Gregorio – i Tribunali del Distretto di Corte di Appello di Napoli hanno sempre largamente confermato la validita’ delle scelte in tale campo operate dall’Azienda, affermando la legittimita’ delle misure volte a prevenire e reprimere fenomeni truffaldini di malversazione del denaro pubblico che peraltro incidono sull’efficienza e la qualita’ del servizio, nonostante gli straordinari sforzi profusi dalla maggior parte dei lavoratori di Eav”. “Il Tribunale di Napoli – ha commentato il legale di Eav, l’avvocato Marcello D’Aponte – ha affermato, in linea con l’interpretazione delle giurisprudenza di Cassazione e, nei giorni scorsi, della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la piena legittimita’ dei controlli difensivi esercitati tramite strumenti di videosorveglianza, quando siano finalizzati a reprimere abusi e reati. D’altra parte – proseguito ll’avvocato – le inziative adottate da Eav come da diverse altre aziende in house che ho assistito in numerosi procedimenti, la finalita’ specifica di garantire la stragrande maggioranza dei lavoratori che svolge correttamente il proprio lavoro e gli utenti dei servizi pubblici affinche’, come nello specifico caso di Eav, siano garantite condizioni di efficienza della gestione”.

Cronache della Campania@2019

Omicidio dell’innocente Romanò: chiesto l’ergastolo per Marco Di Lauro

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Napoli. Fine pena mai per l’ex boss ‘fantasma’ Marco di Lauro: è questa la richiesta del Procuratore generale della Corte di Appello di Napoli, Carmine Esposito per l’omicidio dell’innocente Attilio Romanò. L’omicidio si consumò il 24 gennaio 2005 nel negozio di telefonini dove lavorava, nella zona di Capodimonte, a Napoli, per un errore di persona. Marco Di Lauro, figlio del fondatore dell’omonimo clan Paolo di Lauro, è accusato di essere il mandante di quel raid nel quale, in realtà, sarebbe dovuto morire il nipote del boss degli “scissionisti”, Rosario Pariante,  titolare dell’esercizio commerciale. Marco Di Lauro era stato condannato all’ergastolo in primo grado e in appello,  poi assolto con rinvio dalla Cassazione. per l’omicidio Romanò è stato condannato in via definitiva all’ergastolo Mario Buono, detto topolino, mentre ha deciso di pentirsi Vincenzo Lombardi, l’altro killer. Ora il processo all’ex ‘fantasma’, latitante per 12 anni, che dovrà stabilire se fu lui a dare l’ordine di uccidere per dare un segnale di vita della cosca di “Miez all’arco” a Secondigliano, dopo l’arresto del fratello maggiore Cosimo che aveva innescato la sanguinosa faida e la scissione. La sentenza è attesa per domani.

Cronache della Campania@2019

Manduca si difende: ‘Non ho investito Belardinelli, non sono tifoso del Napoli, mi piace l’Inter, ho pure la tessera’

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“Non sono stato io a investire Daniele Belardinelli. Guidavo la macchina ma al momento degli scontri mi sono limitato a seguire la volante della polizia giunta sul posto”. Si è difeso così Fabio Manduca, il 39enne in carcere da venerdì scorso con l’accusa di aver travolto e ucciso, mentre era alla guida della sua auto, il tifoso del Varese Daniele Belardinelli durante gli scontri tra ultrà scoppiati poco lontano dallo stadio di San Siro il 26 dicembre scorso prima della partita di campionato tra Inter e Napoli. Nell’interrogatorio di garanzia davanti al gip di Milano Guido Salvini, l’uomo (che ha una dozzina di precedenti penali per associazione a delinquere, truffa, ricettazione, furto e lesioni) ha in pratica respinto tutte le accuse, proclamandosi completamente estraneo. Manduca ha perfino negato di tifare Napoli, arrivando a definirsi un simpatizzante dell’Inter: “Non sono un vero ultrà. Mi piace l’Inter, tanto che avevo fatto la tessera il 23 dicembre. Sono andato anche a Barcellona a seguire i nerazzurri”. Quanto alle altre quattro persone che si trovavano in auto con lui, Manduca ha ammesso di conoscere soltanto Giancarlo Franco, fratello di Vincenzo Franco, ritenuto uno dei leader del gruppo ultrà “Mastiffs” della curva partenopea. In particolare, l’arrestato conoscerebbe Giancarlo Franco, fratello di uno dei leader del gruppo ultrà ‘Mastiffs’ della curva partenopea. “Gli altri 3 – ha fatto mettere a verbale il 39enne – li avevo conosciuti quella stessa mattina”. Manduca deve rispondere di omicidio volontario.

Cronache della Campania@2019


Napoli, ragazzina abusata sullo ‘scoglione’ di Marechiaro: reato estinto per alcuni minori

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Il gup presso il Tribunale dei Minorenni di Napoli dottoressa Ferrara ha emesso sentenza di non luogo a procedere nei confronti di alcuni dei minorenni arrestati in quanto ritenuti colpevoli di una violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazzina minorenne, avvenuta nel maggio del 2017 sugli scogli di Marechiaro, a Napoli. La decisione e’ stata presa oggi all’esito positivo della “messa alla prova”. Altre analoghe posizioni che riguardano altri ragazzini (complessivamente 11 quelli coinvolti nella vicenda) verranno prese in esame dal giudice il prossimo gennaio in quanto i rispettivi legali hanno aderito allo sciopero dei penalisti iniziato lunedi’ scorso e deciso dall’Unione delle Camere Penali italiane. Le richieste di messa alla prova furono complessivamente otto su undici. Tre di questi ragazzini, quelli destinatari di una misura cautelare, hanno di recente completato il percorso avviato circa quattro anni fa, coadiuvati da un assistente sociale. Per alcuni si e’ pero’ reso necessario un ulteriore periodo di osservazione.

Cronache della Campania@2019

Processo Olimpo, ‘Greco stava bene con tutti’, il racconto in aula dell’ispettore che ha svolto le indagini

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Castellammare di Stabia. “Stava bene con tutti, era in buon rapporto con tutti e lo dimostrano le centinaia di conversazioni telefoniche che abbiamo intercettato. Era una persona considerata da tutti saggia” – a dirlo è l’ispettore di Polizia Giudiziaria, Carmine Mascolo, che ha deposto come teste nel corso dell’udienza celebrata questa mattina al tribunale di Torre Annunziata nell’ambito dell’inchiesta Olimpo. “Chiunque sia si recava da lui, da persone di spessore, quali politici, professionisti e magistrati, al “popolino”, per chiedere informazioni, un consiglio o un parere. Lui riusciva a dialogare con tutti. Non aveva una vita sociale ma aveva molte relazioni sociali. Cercava di starsene a casa quanto più possibile, era però un buon imprenditore – dice l’ispettore rispondendo alle domande degli avvocati – il primo ad andare in azienda la mattina e l’ultimo a tornare a casa. Difficilmente si vedeva per strada. Usciva alle 7 del mattino e rientrava alle 3 del pomeriggio. Non era lui che si rivolgeva agli altri, erano gli altri a cercare lui”. Alla domanda se ci fossero presunti affari di Adolfo Greco con la criminalità organizzata il teste ha risposto di no. “In questa parte dell’indagine non ci sono elementi per dire che Greco Adolfo abbia fatto affari con la criminalità organizzata”. Inizia quindi ad emergere la figura di Adolfo Greco che è rinchiuso nel carcere di Secondigliano perché ritenuto il collante tra imprenditori e criminalità organizzata egemone sul territorio di Castellammare e Monti Lattari. Hanno assistito all’udienza gli imputati Raffaele Carolei, Michele Carolei, Luigi Di Martino, Umberto Cuomo, Attilio Di Somma, Di Somma Attilio e Carolei Michele detenuti nella stessa casa circondariale. Presente, in viedeoconferenza, Di Martino Luigi detenuto nel carcere di Milano in regime del 41 bis, ovvero carcere duro. Presenti in aula il pm Cimmarotta, gli imputati Carolei Raffaele e Cuomo Umberto. Adolfo Greco, invece, è risultato assente per la quarta volta di seguito perché “non è nelle condizioni di salute – riferiscono gli avvocati Stravino e Maiello – per partecipare”. Una condizione di salute che anche i consulenti del penitenziario di Secondigliano descrivono – sempre a detta degli avvocati – di grave entità. “Adolfo Greco – esordisce Stravino – è affetto da una patologia grave che rischia di sfociare in patologia psicotica. E’ in una condizione drammatica, il suo stato di salute è peggiorato e non vi è adeguatezza del trattamento in carcere rispetto alla patologia” nonostante Greco sia stato trasferito in infermeria. I legali chiedono “per rispetto della giustizia” di procedere velocemente e di valutare la rimodulazione della carcerazione preventiva e pensare ad un trasferimento in una clinica specializzata capace di offrire il dovuto sostegno medico”. Il tribunale, sostiene il Presidente del collegio giudicante Fernanda Iannone, è al corrente della situazione. “Questa condizione – afferma Maiello – influisce sulle sue capacità (riferendosi a Greco ndr) di difendersi. Non può partecipare attivamente alla difesa”. Nel corso dell’udienza è stato ascoltato, nella prima parte, l’ispettore capo di Polizia del Commissariato di Castellammare di Stabia, Carmine Mascolo, che ha coordinato uno dei pool investigativi. Poi, come da programma, è stata ascoltata Emilia Imperati, figlia di Giuseppe Imperati, imprenditore caseario di Agerola, che ha subito il furto di due camion carichi di merce ritrovati poi in giornata ma vuoti a Torre Annunziata. La figlia dell’imprenditore ha ribadito più volte che il rapporto tra le due famiglie, Greco e Imperati, era nato per soli fini commerciali infatti gli Imperati acquistano panna da Greco. Poi dal rapporto imprenditoriale ne è nato uno personale. Nell’occasione Imperati, in virtù anche del rapporto di stima ed amicizia reciproca, chiese aiuto a Greco per cercare di risolvere quel problema. Il rapporto tra i due si è consolidato quando Greco Adolfo ha fatto da testimone di nozze alla figlia di Imperati celebrate nel 2007. Nel corso del dibattimento si è affrontato anche questo episodio: difesa, tribunale ed accusa hanno posto alcune domande al teste di polizia giudiziaria. In quel frangente Adolfo Greco aveva consigliato – come emerge dall’informativa – ad Imperati di versare una somma di circa 5mila euro prima e 50mila poi ad Afeltra Raffaele e a Giovanni Gentile, esponenti del clan locale. Secondo la Procura Greco avrebbe agevolato l’attività del clan degli Afeltra. Durante il dibattimento è emerso che Adolfo Greco da questo episodio non avrebbe tratto alcun beneficio sia di natura economica che di altra natura.
Un altro episodio affrontato è l’estorsione subita da Adolfo Greco da parte del clan Cesarano. In quell’occasione l’imprenditore versò una somma di circa 4mila euro, composta da banconote di 50 euro, al Clan egemone a Ponte Persica e dintorni. Si trattava della tranche del mese di agosto consegnata nelle mani di Falanga Aniello e Cesarano Giovanni. Non solo il clan Cesarano, anche il clan D’Alessandro aveva mire sull’imprenditore stabiese. Nel corso dell’udienza, nell’ambito della posizione offesa di Adolfo Greco, l’ispettore di polizia ha risposto alle domande inerenti all’episodio che ha visto Teresa Martone, moglie del defunto boss D’Alessandro Michele, indurre Greco a corrispondere prima una somma di 5mila euro al Clan e poi una somma di danaro maggiore. Adolfo Greco, nell’ambito dello stesso procedimento, è considerato sia soggetto attivo che vittima ed infatti si è costituito parte civile contro i clan sia nel procedimento ordinario che nei confronti degli imputati che hanno scelto di essere giudicati con rito abbreviato. Nella successiva udienza sarà eseguito il controesame all’altro teste di polizia giudiziaria, l’ispettore Albrizio della squadra mobile di Napoli ed un altro teste. Le intercettazioni telefoniche non sono ancora state ancora depositate dai periti che hanno ottenuto dal tribunale una proroga di diverse settimane dopo la consegna dei brogliacci avvenuta la scorsa settimana.

Cronache della Campania@2019

Casapesenna, i consulenti tentano di smontare le accuse a Don Barone: ‘La ragazza è inattendibile’

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La ragazzina di 14 anni vittima degli abusi da parte di Michele Barone, l’ex prete del Tempio di Casapesenna, sarebbe “inattendibile”. Questa la conclusione a cui sono arrivati i consulenti dei genitori della giovane e dell’ex sacerdote, Eduardo Giordano ed Antonino Iaccarino.
Per i due psichiatri la ragazza sarebbe stata “isterica”, o meglio affetta da “disturbo di conversione” ed “amnesia dissociativa”. Patologie che avrebbero avuto conseguenze sulle sue attività fisiologiche, “guarite” per un effetto emozionale. Insomma la suggestione le avrebbe fatto scomparire i sintomi.
I due professionisti hanno provato così a smontare le tesi dello psichiatra nominato dalla Procura, Raffaele Sperandeo, che aveva parlato di amnesie provocate dai traumi subiti per gli esorcismi violenti. Per Iaccarino, invece, i traumi sarebbero sopravvenuti in un secondo momento, dopo che la ragazza avrebbe concluso il suo percorso con Barone.
Il processo riprenderà all’inizio di novembre quando dovranno sottoporsi all’esame i genitori della 14enne ed il dirigente del commissariato di Maddaloni, Luigi Schettino. Nell’udienza successiva, invece, si sarà l’atteso esame di Barone.Secondo l’accusa l’ex sacerdote avrebbe provocato lesioni all’orecchio della ragazza durante pratiche esorcistiche medievali. Barone risponde anche di violenza sessuale nei confronti di altre due fedeli.

Cronache della Campania@2019

Napoli, l’inchiesta sulle ‘nozze trash’: Tony Colombo incontrò Claudio de Magistris per parlare del flash mob

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Documenta anche un incontro la mattina dello scorso 13 marzo, tra il cantante Tony Colombo e Claudio de Magistris, fratello del sindaco di Napoli, e un fitto scambio di messaggi e telefonate, l’informativa dei carabinieri presentata al Tribunale del Riesame nell’ambito dell’indagini sulle cosiddette “nozze trash” tra il neomelodico e Tina Rispoli, vedova dello scissionista Gaetano Marino. Lo rendono noto stamani i quotidiani Il Mattino, Repubblica e Corriere del Mezzogiorno,. Tony Colombo e Claudio de Magistris, figurano tra le otto persone indagate dalla Procura Antimafia per il concerto non autorizzato tenutosi in piazza del Plebiscito la sera dello scorso 26 marzo ma segnalato all’apposito ufficio del Comune come un flash mob. L’incontro è avvenuto lo stesso giorno in cui all’apposito ufficio del Comune di Napoli è giunta la richiesta, via mail, di autorizzazione del flash mob, che poi si rivelerà un vero e proprio concerto, quindi un evento con caratteristiche estremamente difformi dal flash mob. Per gli inquirenti il fratello del sindaco avrebbe favorito il concerto del cantante neomelodico. Secondo i militari, è quell’incontro il momento in cui la condotta illecita che viene contestata agli indagati inizia a concretizzarsi. Il Tribunale del Riesame dovrà pronunciarsi sul dissequestro dei telefoni cellulari e degli altri dispositivi passati al setaccio in queste settimane da inquirenti e forze di polizia.

Cronache della Campania@2019

Salumiere di Napoli morì di infarto durante la rapina: bandito assolto dall’accusa di omicidio

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Napoli. Condannato per il reato di tentata rapina e assolto dall’accusa di omicidio: Luigi Del Gaudio, il pregiudicato 46enne che il 7 dicembre del 2018, rapinò Antonio Ferrara detto Pietruccio, salumiere della Pignasecca a Napoli, è stato condannato a 8 anni di reclusione. Il pm Rosa Volpe ne aveva chiesti 12 stabilendo un nesso di casualità tra il reato e la morte dell’uomo colpito da infarto durante la rapina nel suo negozio, ma i giudici sono stati di avviso contrario. Il bandito Del Gaudio entrò in orario di chiusura nel negozio del popolare quartiere napoletano impugnando una pistola giocattolo il 7 dicembre 2018. Pietruccio reagì d’istinto opponendosi al rapinatore, per poi morire d’infarto pochi minuti dopo. Quattro giorni dopo il 46 enne si consegnò alle forze dell’ordine, prima mascherando le sue responsabilità con un alibi che fu contraddetto dagli elementi raccolti dagli inquirenti, poi ammettendo le sue responsabilità. Era imputato di tentata rapina e omicidio come conseguenza di altro reato, ma è stato assolto da quest’ultima accusa.

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Cassazione, la Commissione convoca i candidati per la sostituzione del Pg Fuzio

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La Commissione per gli incarichi direttivi del Csm ha disposto l’audizione di tutti i nove candidati alla nomina di procuratore generale della Cassazione, posto rimasto scoperto a luglio scorso con le dimissioni di Riccardo Fuzio. Fuzio ha lasciato in anticipo la magistratura dopo essere stato iscritto nel registro degli indagati per rivelazione di segreto d’ufficio, a latere dell’inchiesta per corruzione a carico del pm romano Luca Palamara. Tre sono i candidati “esterni” alla Corte di Cassazione: i Pg di Roma, Giovanni Salvi, di Napoli, Luigi Riello e di Venezia, Antonello Mura. Gli altri concorrenti sono tutti magistrati della Suprema Corte. Un gruppo nutrito appartiene alla procura generale. Si tratta degli avvocati generali Luigi Salvato, Marcello Matera (già consigliere del Csm ) e Renato Finocchi Ghersi (in passato dirigente al ministero della Giustizia) e del sostituto Pg Giovanni Giacalone. Completano l’elenco i presidenti di sezione Giuseppe Napolitano e Giacomo Fumu.

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Aziende violate dagli hacker per sottrarre i bonifici, scoperta una truffa milionaria: 10 indagati tra Barra e Ponticelli

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Aziende violate dagli hacker per sottrarre i bonifici, scoperto una truffa milionaria. Dieci gli indagati nel mirino della Procura, vittime oltre 50 società finite nella rete di un gruppo di 10 pregiudicati, di età compresa tra i 20 ed i 42 anni e con base operativa nella zona orientale di Napoli (nei quartieri di Barra e Ponticelli), ritenute responsabili a vario titolo di riciclaggio, auto-riciclaggio, truffa ed accesso abusivo nei sistemi informatici.

I Carabinieri della Compagnia di Montella, a conclusione di un’articolata attività d’indagine coordinata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, hanno proceduto alla notifica degli “avvisi di conclusione delle indagini preliminari” emessi nei confronti di 10 soggetti, di età compresa tra i 20 ed i 42 anni, con base operativa nella zona orientale di Napoli ed, in particolare, nei quartieri di Barra e Ponticelli.

Le 10 persone, tutte gravate da numerosi precedenti contro il patrimonio, sono ritenute responsabili – a vario titolo – di riciclaggio, auto-riciclaggio, truffa ed accesso abusivo nei sistemi informatici.

I prolungati e complessi approfondimenti investigativi consentivano di accertare che, nell’anno 2017, il sodalizio criminale, ripetendo un modus operandi consolidato nel tempo, aveva consumato centinaia di truffe a molteplici complessi aziendali attraverso i nuovi canali tecnologici (i cosiddetti di “computer’s crimes”).

Tutto è nato da una denuncia sporta dal titolare di un’azienda dell’Alta Irpinia il quale lamentava di non aver ricevuto il denaro da parte di un suo cliente che, invece, sosteneva di aver regolarmente effettuato il saldo della fattura. Scoperta la singola truffa, i Carabinieri di Montella, notavano che il conto corrente sul quale era finito il bonifico, presentava strani accrediti e altrettanti prelievi dell’equivalente importo.

L’attività investigativa, sviluppata con il coordinamento della III Sezione “Criminalità Economica” della Procura della Repubblica di Napoli, si estendeva inevitabilmente anche sui titolari degli altri conti correnti collegati. Meticolosi accertamenti documentali e bancari permettevano, così, di acquisire gravi indizi di colpevolezza a carico degli odierni indagati i quali, a vario titolo, sono ritenuti responsabili di reiterate e plurime operazioni truffaldine. Quasi 150, infatti, sono stati i casi accertati in cui, sistematicamente, i 10 truffatori:

–      si introducevano nei sistemi informatici di numerose società operanti sull’intero territorio nazionale, captando l’e-mail scambiate, nell’ambito di rapporti commerciali, tra le società hackerate e le ditte fornitrici;

–      inviavano e-mail “manipolate”, con le quali si sostituivano alle ditte aventi diritto ed indicavano degli IBAN che facevano capo al sodalizio, sui quali effettuare i pagamenti delle forniture già avvenute;

–      trasferivano le somme di denaro illecitamente acquisite (circa 200.000 euro) su ulteriori conti bancari, per reimpiegarle, impedirne il recupero ed ostacolare l’identificazione della provenienza illecita.

Proprio su uno di questi conti correnti venivano accertate oltre 1.600 operazioni, con una movimentazione di denaro, nell’arco dell’anno, superiore ai tre milioni di euro.

Ad essere truffate oltre una cinquantina di aziende, non solo delle province di Avellino, Napoli e Caserta ma di tutta Italia (dalla Puglia al Veneto, dalla Sicilia alla Lombardia ma anche società laziali, umbre ed abruzzesi).

Durante la medesima attività di indagine, inoltre, venivano scoperte una trentina di “truffe contrattuali”, poiché gli stessi indagati:

–      ponevano in locazione, su noti siti internet di annunci, appartamenti di cui non avevano disponibilità in diverse e svariate città italiane (Bologna, Venezia, Brescia, Verona, Pistoia, Bergamo Ferrara e Cagliari);

–      inducevano le vittime a farsi accreditare, con artifici e raggiri, gli importi pattuiti;

–      si rendevano irreperibili, dopo aver trasferito, anche in questo caso, le somme indebitamente percepite (complessivamente circa 25.000 euro) su altri conti correnti.

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Per la Consulta l’ergastolo ostativo è incostituzionale: i boss festeggiano nelle carceri italiane

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La mancata collaborazione con la giustizia non impedisce i permessi premio per chi è sottoposto all’ergastolo ostativo, purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità organizzata. Lo afferma la Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che a conclusione della discussione le questioni sono state accolte nei seguenti termini. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In questo caso, la Corte – pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti – ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica.

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Chiesti 9 anni di carcere per l’uomo che ferì il baby calciatore alla vigilia di Natale

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Il pm della Procura di Napoli Nord ha chiesto 9 anni di carcere per il 35enne Vincenzo Russo, ritenuto colui che ferì gravemente alla testa con un colpo di pistola il baby calciatore 14enne Luigi Pellegrino, mentre stava camminando nel centro del comune di Parete  con alcuni amici la vigilia di Natale del 2017. Russo fu arrestato dai carabinieri quasi un anno dopo il fatto, nel novembre 2018, con l’accusa di lesioni gravi e detenzione illegale di armi comuni da sparo. La vicenda provocò tanta commozione; il giovane, promessa del calcio, era in via Vittorio Emanuele quando stramazzò improvvisamente al suolo colpito alla testa da un proiettile vagante; una scena ripresa da una telecamera di video sorveglianza presente in zona. Nei giorni successivi, i carabinieri coordinati dalla Procura di Napoli Nord, si fecero consegnare dai cittadini numerose armi da fuoco per sottoporle agli esami balistici; dalla complicata consulenza emerse la compatibilità tra l’arma di Russo e il proiettile che aveva raggiunto il 14enne. Secondo la Procura diretta da Francesco Greco, Russo quel giorno, all’interno di un terreno agricolo di sua pertinenza a circa 300 metri di distanza dal punto in cui era il minore, esplose tre colpi con una pistola semiautomatica illegalmente detenuta. Voleva esercitarsi. Uno dei proiettili colpì un veicolo in transito, fortunosamente senza ferire nessuno, un secondo raggiunse Luigi alla testa, un terzo andò a vuoto. L’adolescente restò in coma per un pò, poi ha dovuto sottoporsi ad una lunga riabilitazione.

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Caivano, la Dda ordina perquisizioni a casa di ex amministratori e funzionari del comune

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Oggi i Carabinieri del Nucleo Investigativo di Castello di Cisterna, su disposizione della D.D.A. di Napoli, hanno eseguito una serie di perquisizioni presso i domicili e gli uffici di cinque soggetti, tra cui figurano ex amministratori e funzionari del comune di Caivano, nonché tecnici del posto. Le perquisizioni sono state finalizzate alla ricerca di atti e documenti afferenti alla gestione delle abitazioni del rione “Parco Verde” di Caivano ad opera della criminalità organizzata.
Il materiale sottoposto a sequestro è al vaglio dell’autorità giudiziaria.

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Piazze di spaccio nel Casertano: sei condanne per 26 anni di galera

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Il giudice ha inflitto 5 anni e 8 mesi a testa per i coniugi Armando Spada e Rita Franzese, di Pietramelara; 6 anni e 10 mesi per Francesco D’Angelo, 38 anni di Caivano ; 4 anni e 4 mesi a Vittorio Simoniello, 31 anni di Piedimonte Matese; 1 anno e 1 mese per Alessio Simoniello; 2 anni e 6 mesi per Alfredo Montefusco, 50 anni di Piedimonte Matese. Accolte parzialmente le richieste dei difensori con il giudice che ha condannato gli imputati con pene più miti rispetto alle richieste delle Procura (per Spada e Franzese erano stati chiesti ben 12 anni).
L’inchiesta riguardava lo spaccio di stupefacenti, cocaina, marijuana e hashish, ed in particolare le piazze di spaccio attive tra Pietramelara e Piedimonte Matese. Secondo quanto accertato dagli inquirenti la droga veniva acquistata a Caivano per poi essere rivenduta nel casertano.

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Camorra, pizzo e pace: i due ‘dictat’ del boss Montescuro. Estorsioni anche ad un notaio e alla coop di ex detenuti

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Napoli. Un’estorsione ad un notaio e ad una coop di ex detenuti: sono questi alcuni dei particolari contenuti nelle 1194 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Napoli Alessandra Ferrigno che ha disposto oggi l’arresto di 23 persone ritenute legate alla camorra napoletana. A perpetrarla sono Carmine Montescuro, 84 anni, e Nino Argano, 55 anni, entrambi finiti in carcere. Dalle intercettazioni contenute nel provvedimento emerge che Montescuro cerca di pretendere 100mila euro da un notaio, proprietario di due capannoni che si trovano nella “sua” zona di competenza, e cioè in via Breccia a Sant’Erasmo. Capannoni che il professionista ha affittato ad imprese italiane e cinesi. Durante la conversazione, che vede protagonisti Montescuro e Argano, i due rivelano anche una vecchia storia, ritenuta ambigua dal gip, tra il notaio e l’84enne, riguardante una ingente somma di denaro non restituita.
Insieme con un’altra persona arrestata, Nino Argano, 55 anni, Carmine Montescuro, 84 anni, ritenuto dalla Dda capo di un gruppo camorristico napoletano di Sant’Erasmo, avrebbe poi imposto il pizzo anche a una cooperativa di ex detenuti, la “Salus”. Si tratta di una corresponsione continua di denaro ottenuto minacciando ritorsioni. Il pizzo, mensile, ammontava a tremila euro, corrisposti fino a quando la sede della cooperativa si trovava nel “territorio” del gruppo camorristico. In una intercettazione ambientale che risale al maggio 2017, gli interlocutori (Nino Argano e Carmine Montescuro) sono in una auto e dalla conversazione si evince che la cooperativa di ex detenuti a causa del fitto troppo alto aveva lasciato la sede di Sant’Erasmo ma nella zona dove si erano spostati pagavano al gruppo criminale locale un pizzo più alto. Nino Argano (anche lui tra gli arrestati, ndr): “O’ zi’, io so che pagavano (la cooperativa, ndr) assai? e adesso hanno trovato una cosa di meno?”. Carmine Montescuro: “?a noi pagavano 3mila euro al mese?” Nino Argano: “?quando mai ? 0′ zi’, qua pagavano 12mila euro al mese a Napoli. Ottomila o 12mila euro al mese..”. Carmine Montescuro: “?Arga’, quelli (la cooperativa) stanno piangendo che vogliono tornare ?”. Nino Argano: “…perchè stanno troppo lontano, là pagano…” Carmine Montescuro: “…sì, sì, si prendono di più”.
Nell’ordinanza cautelare che ha colpito la cosca di Montescuro viene tracciato anche il profilo del boss. Nel suo quartiere, a Sant’Erasmo, appunto vigono due regole: la prima è la pac, la seconda il pagamento del pizzo. Tutti, anche con poco, ma devono piegarsi alla regola imposta anche perchè Carmine Montescuro, detto ‘Zio Menuzzo’ ha il vizio del gioco e spesso è a Montecarlo a spendere il suo ‘stipendio’ da capoclan. E nonostante la veneranda età di 84 anni, il gip Ferrigno del tribunale di Napoli ha autorizzato il suo arresto e il trasferimento in carcere. Perchè è da Montescuro che tutti i capiclan passano per chiedere non solo ‘consigli’ ma anche autorizzazioni. Per fare le guerre, per conquistare territori, per saldare o chiudere alleanze. Montescuro ha guidato il suo quartiere, il rione cuscinetto tra piazza Mercato e i quartieri Ponticelli, San Giovanni e Gianturco, per circa 40 anni, senza mai perdere un uomo in un omicidio e senza faide. Da lui nel 2000 si sedettero allo stesso tavolo i Misso, i Mazzarella e i Contini che si stavano combattendo in ogni quartiere con 200 agguati mortali l’anno. Da lui poi si sedettero i Sarno, che avevano perso il controllo del rione Ponticelli dopo i pentimenti dei capoclan. Con lui ha avuto rapporti Marco Mariano, boss pentito dei Quartieri Spagnoli durante la faida degli anni Novanta. Un personaggio “pericoloso” e “rischioso” come lo ha definito il gip motivando la misura cautelare più dura nonostante la sua età.

Cronache della Campania@2019

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