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Arresti per droga, Cannavacciuolo riforniva le piazze di Scafati e Boscoreale con hashish albanese. TUTTI I NOMI

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Scafati. Droga per le piazze di spaccio di Scafati e Boscoreale proveniente dall’Albania: quattro le persone finite in carcere, uno ai domiciliari. Sono 21 gli indagati nell’ambito dell’inchiesta che ha portato stamane la Squadra Mobile di Salerno ad arrestare cinque persone. Tra gli arrestati anche Roberto Cannavacciuolo, il 51enne scafatese, assurto agli onori della cronaca nel giugno del 2015 quando fu inseguito dai carabinieri da Salerno a Nocera e arrestato perchè trovato in possesso di 30 chili di hashish diviso in panetti. Proprio lui ha portato gli agenti della squadra mobile sulle tracce dei trafficanti albanesi e dei sodali-acquirenti scafatesi e campani finiti nell’inchiesta della Dda di Salerno. Stamane, gli agenti della squadra mobile di Salerno, oltre ad eseguire l’ordinanza del Gip Alfonso Scermino del tribunale di Salerno, hanno anche effettuato numerose perquisizioni tra Scafati, Boscoreale e i paesi vesuviani. Nel corso delle indagini, gli inquirenti hanno registrato una serie di piccole cessioni di droga, oltre al sequestro di ingenti quantitativi di stupefacente, in particolare hashish, arrivati in Italia attraverso l’Albania. Nel corso dell’inchiesta, infatti, erano stati individuati e in alcuni casi arrestati proprio i trafficanti albanesi con i quali gli scafatesi erano in contatto. Tra i promotori dell’organizzazione, non raggiunto dalla misura cautelare, figura anche Vincenzo Alfano, fratello di Carmine ‘bim bum bam’, il quale gestiva – attraverso una serie di pusher – la piazza di spaccio di Scafati e quella del Piano Napoli di Boscoreale, insieme Roberto Cannavacciuolo, Domenico Galletti e Salvatore De Riso. I referenti del gruppo criminale per l’acquisto di droga erano GjeGja Dritan, detto Tani, albanese e Mariani Antonio, referente del canale pugliese.

In carcere sono finiti:
Cannavacciuolo Roberto, 51 anni, di Scafati
Giordano Pasquale, 56 anni, di Oristano
Franzese Francesco, 52 anni di Ottaviano
Galletti Domenico, 35 anni di Boscoreale
Ai domiciliari:
Pagano Massimo, 52 anni di Scafati

Indagati:
ALFANO Vincenzo, Scafati
BELBA Bruno, Albania
CRISTALDI Gaetano, Catania
DE ANGELIS Marcello, Siegen (Germania)
DE RISO Catello, S. Antonio Abate
DE RISO Salvatore, Gragnano
DESIDERIO Francesco, Boscoreale
FRROKU Petrit alias TITO, Albania
GJEGJA Dritan alias TANI, Albania
GJEGJA Elton, nato in Albania
KOCI Renato, Durazzo (Albania)
MARIANI Antonio alias TONI, Gioia del Colle
PAGANO Mario, Scafati
PRISCO Gianluigi, San Giuseppe Vesuviano
RIZZO Pasquale, Dortmund (Germania)
VITIELLO Vincenzo, Scafati

Cronache della Campania@2018


Camorra, clamorosa scadenza termini: scarcerati gli imprenditori dei Lo Russo. ‘Liberi’ anche Vincenzo o’ signore e De Angioletti

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Erano stati tutti condannati a pene alte, accusati di essere gli imprenditori della camorra che gestivano gli affari dei Lo Russo di Miano, quartiere Nord di Napoli, negli ospedali cittadini. Servizi di pulizie, di manutenzione per alcuni dei nosocomi piu’ importanti della citta’. Ma la quinta sezione penale della corte di Appello di Napoli, presidente Maurizio Stanziola (a latere Pia Diani e Maria Delia Gaudino) ha emesso un’ordinanza con la quale scarcera gli imputati per scadenza dei termini di fase, quelli cioe’ che vanno dalla sentenza di primo grado alla fissazione dell’appello. Scaduti da un mese. Tornano del tutto liberi, Francesco Orru’, condannato in primo grado a sei anni, Antonello Festa, condannato a 8. Restano detenuti per altri reati, ma libero su questo processo, il boss Vincenzo Lo Russo detto “‘o signore”, condannato in primo grado a 10 anni, Giulio De Angioletti che era stato condannato a 16 anni. L’istanza e’ stata presentata dall’avvocato Domenico Dello Iacono che ha dimostrato che i termini di fase fossero scaduti da un mese. La sentenza di primo grado fu emessa lo scorso anno il 27 novembre del 2017. Il giudice annuncio’ il deposito della sentenza in 90 giorni. Automaticamente i termini di fase aumentavano di tre mesi. Ma subito dopo la sentenza di primo grado era intervenuta la Corte di Cassazione che aveva deciso che l’automatismo della “dilatazione” dei termini non sarebbe piu’ avvenuta automaticamente, com’era prima di novembre dello scorso anno, ma solo se espressamente richiesto dal giudice che emetteva sentenza. Questo e’ stato il black out che ha generato la scadenza termini. Il processo d’Appello e’ stato infatti fissato per giovedi’ scorso ma mentre la Procura generale riteneva che i termini erano stati prorogati fino a febbraio la difesa ha dimostrato che erano scaduti da un mese.

Cronache della Campania@2018

Camorra, il pentito Romano: ‘Vi racconto il clan Tommaselli’. 14 indagati. TUTTI I NOMI

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Napoli. Sono complessivamente 14 gli indagati del clan di Carlo Tommaselli che negli ultimi anni avevano cercato di prendere il controllo delle attività illecite su Pianura e Soccavo spodestando le cosche locali come i Vigilia, i Sorianiello, i Pesce-Marfella e i Mele. Ma l’arresto del boss avvenuto nell’agosto del 2014 ha scompaginato i piani e così il clan è passato nelle mani de figlio Filippo. Stamane i carabinieri su richiesta del gip Anna Imparato hanno dato esecuzione a cinque ordinanze di custodia cautelare in carcere e una agli arresti domiciliari. Nelle 162 pagine dell’ordinanza  si fa la cronistoria grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti.Si parla dell’ascesa del nuovo sodalizio camorristico capeggiato da Tommaselli Carlo, operante soprattutto nei quartieri di Pianura
e Soccavo in Napoli e nato dalla scissione del Tommaselli da precedenti organizzazioni di cui faceva parte (clan “Lago” e successivamente “Marfella”) al fine di contrapporsi alle stesse e acquisire il controllo del citato territorio, dedito a diversi reati contro il patrimonio, in materia di armi, contro la persona, e di spaccio di sostanze stupefacenti. A tale proposito le dichiarazioni del ras pentito Salvatore Romano, muoll muollo fanno un quadro ben preciso di quello che è stato Carlo Tommaselli:

“Durante il periodo della latitanza di Tommaselli Carlo egli voleva uccidere Pasquale Pesce perchè questi aveva preso il sopravvento criminale a Pianura; tale suo proposito però non andò a buon fine in quanto i Foglia, Vincenzo e Giuseppe che in un primo momento appoggiavano il Tommaselli gli si rivoltarono contro e riferirono al Pesce i propositi dello stesso Tommaselli. Da quel momento Pesce Pasquale fece sapere al Tommaselli Carlo attraverso il figlio Filippo che i loro rapporti erano ormai rotti. Sempre con riferimento a Tommaselli Carlo devo riferire che quando Tommaselli à stato arrestato nell‘agosto del 2014 le forze dell’ordine rinvennero in via Jannelli di Napoli una Lancia Musa di colore blu con all’interno un Kalashnikov AK 47 cromato ed un fucile automatico a canne mozze che erano nella disponibilità mia e del Tommaselli. Quest ‘auto era appoggiata presso un garage nella disponibilità del consuocero di Tommaselli Carlo cioè del suocero di filippo Tommaselli che aveva anche le chiavi dell ‘auto. A seguito dell ‘arresto e del rinvenimento dell ‘auto con le armi, rinvenimento che non fu attribuito a nessuno di noi, e cioè nè a noi Romano, nè tanto meno a Tommaselli in quanto l’auto fu rinvenuta in strada ed era di provenienza delittuosa io fui accusato da Filippo Tommaselli di essere stato proprio io tanto a far arrestare il Tommaselli Carlo quanto ad aver fatto trovare 1 ‘auto in quanto ero 1 ‘unico a sapere dove si trovava 1 ‘autovettura che io stesso avevo condotto insieme a Filippo Tommaselli presso il garage del suocero di Filippo Tommaselli e sapevo anche dove abitava il Tommaselli a Fuorigrotta dove poi fu arrestato. Naturalmente non sono stato io afar arrestare il Tommaselli nè tanto meno a far rinvenire l’auto con learmi e contestai a Filippo Tommaselli che era suo suocero ad avere la chiavi dell’auto e non io e che i ‘auto era stata spostata sulla strada dal garage dove poi era stata rinvenuta. ADR Preciso che le armi rinvenute nell ‘autovettura erano di Carlo Tommaselli ma nella disponibilità mia e del gruppo all ‘epoca vicino a Tommaselli “.

GLI INDAGATI

1) TOMMASELLI Carlo, nato a Napoli il 22/01/1962,  IN CARCERE
2) TOMMASELLI Filippo, nato a Napoli il 14/02/1986, IN CARCERE
3) CALCAGNO Enrico, nato a Napoli il 27/06/1985, IN CARCERE
4) DE LUCA Carmine, nato a Napoli il 12/11/1966,
5) DE VITA Fabio, nato a Napoli il 19/09/1985,
6) LUONGO Pasquale, nato a Frattaminore (NA) il 13/04/1967,
7) MARINIELLO Franca, nata a Napoli il 16/03/1962,
8) MEGALI Antonio, nato a Venafro (IS) il 06/09/1984, IN CARCERE
9) MINICHINI Francesco, nato a Napoli il 10/06/1970, IN CARCERE
10) QUARANTA Antonio, nato a Napoli il 18/08/1992,
11) QUARANTA Pasquale, nato a Napoli il 06/08/1965, AI DOMICILIARI
12) ROMANO Salvatore, nato a Napoli il 03/11/1980,
13) SORRENTINO Maria, nata a Napoli il 04/07 /l 961,
14) VANACORE Antonio, nato a Napoli il 07/02/1987

Cronache della Campania@2018

Usura bancaria a un imprenditore: a processo due funzionari della Bnl di Salerno

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Per il pm vi erano gli estremi per l’archiviazione; il gip, invece, ha ordinato la restituzione degli atti alla Procura perche’ provveda ad elevare l’imputazione coatta per favoreggiamento nei confronti di due funzionari dell’istituto di credito Bnl che avrebbero fornito al consulente tecnico del pm, nel corso di un procedimento penale per usura bancaria in corso al tribunale di Salerno, un prospetto contabile con dati ‘ricalcolati’ al fine di non far rilevare il reato. La vicenda nasce dalla denuncia di Francesco Peluso, titolare dell’azienda Fratrotek, su presunte condizioni usurarie riguardanti diversi rapporti bancari intercorsi con l’istituto di credito. Nel gennaio 2016, vengono rinviati a giudizio diversi funzionari della banca. Nel marzo dello scorso anno, poi, Peluso sostenne che nel corso delle indagini la banca avrebbe trasmesso al consulente tecnico del pm, chiamato a verificare gli interessi applicati, dei prospetti modificati rispetto agli avvisi di pagamento da lui ricevuti, con lo scopo di “nascondere le reali condizioni praticate onde sfuggire al controllo giudiziario”. Il gip ha rilevato che il consulente tecnico del pm “riferiva che la documentazione presa in esame era stata acquisita via mail da un dipendente della Bnl” e che un altro consulente della Procura ha verificato “effettivamente” una discrasia tra gli interessi praticati e quelli dichiarati e consegnati alla Procura. Per questo, secondo quanto si legge nell’ordinanza del gip, vi sarebbe “una evidente responsabilita’” da parte di due funzionari della Bnl a titolo di favoreggiamento, “in quanto, mediante la formazione e trasmissione di prospetti contabili modificati negli importi, al fine di nascondere i maggiori tassi di mora praticati dalla Banca in quanto usurai, si cercava di aiutare i responsabili dell’Istituto ad eludere le investigazioni con riguardo al possibile reato di usura loro ascrivibile e in tal modo si metteva in pericolo il regolare svolgimento delle indagini”. “Siamo convinti che il giudice abbia visto bene e il comportamento della banca non era rispondente al rapporto con il cliente”, commenta all’Agi l’avvocato di Peluso, Silverio Sica del foro di Salerno, secondo cui si tratta della “prima volta a livello nazionale che emerge con tale chiarezza l’esistenza di una procedura nella banca che ricalcola i conti”.

Cronache della Campania@2018

Camorra, torna in libertà il patron del centro commerciale Jambo: per la Dda è il socio di Zagaria

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Arriva la svolta attesa per il patron del Jambo Alessandro Falco, sotto processo nell’ambito dell’inchiesta sugli interessi del clan dei Casalesi, in particolare della fazione guidata dal boss Michele Zagaria, nel centro commerciale di Trentola Ducenta. Il presidente della prima sezione collegiale del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Roberto Donatiello, dinanzi al quale si sta celebrando il processo, ha disposto la scarcerazione di Falco, ristretto agli arresti domiciliari, accogliendo l’istanza formulata dall’avvocato difensore dell’imprenditore Paolo Trofino. Falco, per la Dda, è il «socio» di Michele Zagaria in quanto titolare dello shopping center di Trentola Ducenta che, sempre secondo i magistrati, è la «creatura economica» del capoclan casalese. Falco, dunque, torna libero ma il giudice per lui ha disposto il “confino” fuori regione. Una misura necessaria per tenerlo lontano dal luogo di commissione del reato a lui contestato, il Jambo appunto, con il patron del centro commerciale che dovrà stare alla larga da Trentola Ducenta.

 Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Droga nel carcere di Porto Azzurro, assolto l’agente scafatese accusato di spaccio

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Scafati. Droga nel carcere di Porto Azzurro all’isola d’Elba: assolti i due agenti della polizia penitenziaria Domenico Puolo, 35enne, di Scafati e Massimiliano Brianza di origini siciliane. I due erano accusati di spaccio per aver gestito – secondo l’accusa – un fiorente giro all’interno della struttura carceraria, accuse gravi per le quali il sostituto procuratore Daniele Rosa aveva chiesto la custodia cautelare in carcere, richiesta poi respinta dal Gip livornese che aveva applicato per i due la sospensione dal servizio per la durata di tre anni. Ad inizio dell’anno 2014, il carcere di Porto Azzurro era finito nell’occhio del ciclone perché vi era stata la morte per overdose del detenuto Alderigo Rossi e di un altro cittadino di origine slave oltre che il ritrovamento di droga ad un altro detenuto e dello stupefacente nella disponibilità del figlio di un agente di polizia penitenziaria. La Procura di Livorno aveva attivato un’indagine per scovare gli spacciatori del carcere di Porto Azzurro. Un fenomeno diffuso, secondo le cronache dell’epoca, tanto che il comandante della struttura, Alessia Assante, aveva dovuto ammettere di essere impotente dinanzi alla situazione. L’attività investigativa prese spunto dalle dichiarazioni spontanee rilasciate da un detenuto, Nicolosi, che raccontò di essere vittima di un giro di droga che puntualmente avveniva all’interno del carcere. Dalle indagini era emerso che alcuni detenuti per approvvigionarsi di sostanze stupefacenti, da spacciare all’interno del carcere, utilizzavano vari sistemi, alcuni dei quali molto creativi e fantasiosi. A volte venivano spediti nell’Istituto penitenziario pacchi postali contenenti principalmente derrate alimentari, all’interno delle quali veniva nascosta la droga. Altre volte erano i familiari ammessi ai colloqui a portare lo stupefacente, occultato nella carne cotta, sulla persona, negli indumenti intimi, nelle suole delle scarpe o incollato nei lembi dei plichi destinati ai detenuti. Il vice-comandante della Polizia Penitenziaria del carcere, Davide Militello, redasse un’informativa nella quale paventava il coinvolgimento di due agenti di giovane età, uno dei quali di origine campana, di nome Mimmo che avrebbero introdotto nella struttura dietro compenso di denaro, attraverso la complicità di alcuni familiari di detenuti, che effettuavano accreditamenti su carte di credito prepagate intestate a terzi. La Procura supportata dalla guardia di Finanza e dagli agenti penitenziari di Porto Azzurro mise sotto osservazione l’agente Domenico Paolo, considerato la figura apicale dello spaccio sull’isola. Si scoprì che quest’ultimo si serviva di due minori, figli di due agenti penitenziari, che usavano il garage in uso ai loro genitori, all’interno della cittadella, per occultare lo stupefacente. Gli inquirenti appurarono che Puolo aveva rapporti illeciti con altra figura di spicco dell’area nocerino sarnese Alfonso Ferrante, infermiere presso l’ospedale di Sarno assurto agli onori delle cronache giudiziarie perché sebbene condannato per associazione finalizzata allo spaccio con conseguente interdizione perpetua dai pubblici uffici era stato assunto presso il presidio ospedaliero salernitano. Ferrante, poi, è stato anche coinvolto in un’inchiesta per furti di medicinali dall’ospedale di Sarno. Le indagini portarono a ritenere che Puolo si rifornisse da “amici” dell’agro nocerino e soprattutto da Alfonso Ferrante e Giovanni Visco. In parecchie conversazioni gli agenti penitenziari parlavano liberamente di droga e di forniture di stupefacente. Nel corso del processo che si è svolto al Tribunale di Piombino, dinanzi al giudice Elena Nadile, sono stati ascoltati numerosi testimoni tra i quali i finanzieri che seguirono le indagini e il comandante della polizia penitenziaria, Alessia Assante che aveva puntato il dito contro Puolo e Brienza. La difesa dell’agente penitenziario  scafatese, rappresentata dall’avvocato Gennaro De Gennaro, ha incentrato la sua strategia difensiva sull’uso personale dello stupefacente dimostrando che le pseudo prove raccolte dall’ufficio di procura non erano sufficienti a convalidare l’accusa. Tesi difensiva che è stata accolta dal giudice del Tribunale di Livorno che ha assolto con formula piena i due agenti che ora potranno così ritornare in servizio dopo la fine di un lungo calvario giudiziario e tre anni di sospensione.

Cronache della Campania@2018

Castellammare, il superpentito Cavaliere:’Greco non pagò il pizzo sui lavori e noi gli incendiammo le auto’

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Castellammare. È stata fissata per martedì prossimo l’udienza del tribunale del Riesame chiamato a decidere in merito ai ricorsi presentati dai legali del noto imprenditore stabiese Adolfo Greco e Giovanni Cesarano, detto “Nicola”. Entrambi erano stati arrestati nell’operazione Olimpo di due settimane fa insieme ai vertici dei clan D’Alessandro ( con gli arresti domiciliari a  Teresa Martone, vedova del defunto padrino Michele) e quelli deli clan Cesarano e Afeltra-Di Martino. Contro la misura cautelare in carcere emessa dal gip del tribunale di Napoli, Tommaso Perrella, gli avvocati di Greco e Cesarano avevano presentato l’istanza al Riesame immediatamente, ottenendo così la fissazione dell’udienza per martedì prossimo. Ma nelle prossime ore si attende la fissazione delle udienze per tutti gli altri arrestati. Le udienze dovrebbero tenersi comunque tutte entro Natale. Il Tribunale sarà chiamato a confermare o meno le misure cautelari.
Restano sempre latitanti invece i due boss Antonio Di Martino figlio di Leonardo o’ lione e Raffaele Afeltra, o’ burraccione. Intanto dall’inchiesta e dall’ordinanza emergono altre accuse nei confronti dell’imprenditore Greco. Come quelle del super pentito del clan D’Alessandro, Renato Cavaliere. Il killer reo confesso, del consigliere comunale del Pd, Gino Tommasino, in una delle sue prime deposizioni datata 9 luglio del 2015 ha raccontato: “Greco Adolfo mi è stato presentato da Verdoliva Luciano. Io sono andato con Verdoliva Luciano all’ingrosso dove Greco faceva yogurt e latte. L’ingrosso di Greco Adolfo si trovava ai confini tra Castellammare di Stabia e Ponte Persica. Verdoliva Luciano mi ha spiegato che Greco Adolfo era stato indagato per il castello di Cutolo ed era molto amico del padre Verdoliva Giuseppe. In precedenza a tenere i contatti con Greco Adolfo era stato Verdoliva Giuseppe, al quale Greco dava i soldi per il clan. Io e Verdoliva Luciano abbiamo raggiunto la struttura di Greco Adolfo, che si trovava forse a via Schito e comunque tra Ponte Persica e via Schito, con una motocicletta. Siamo entrati e abbiamo parlato a Greco Adolfo nel suo ufficio. Ricordo che, all’epoca, Greco Adolfo aveva i capelli neri ed era scuro di carnagione. Verdoliva Luciano mi ha presentato a Greco Adolfo dicendo che io ero il cumpariello di Luigino D’Alessandro e che a Castellammare di Stabia c’ero io. Greco Adolfo mi ha allora chiesto che cosa poteva fare per il clan ed io gli ho risposto che, se faceva qualche lavoro a Castellammare di Stabia, doveva portare i soldi al clan. Greco Adolfo mi ha assicurato che era a disposizione e mi ha detto che però dovevamo evitare di incontrarci e che io dovevo evitare di andare da lui nella sua struttura, perché potevo essere visto dai suoi operai. Greco Adolfo mi ha detto che il tramite tra noi doveva essere Verdoliva Luciano. Infatti Verdoliva Luciano, ai confini con Ponte Persica, che era zona dei Cesarano, aveva l’appoggio dei fratelli, soprannominati Pezze ‘n culo, che avevano una concessionaria di automobili nella via Schito. Dopo una settimana, Verdoliva Luciano mi ha detto che aveva un appuntamento con Greco Adolfo e, successivamente, mi ha comunicato che Greco gli aveva mandato ventimila euro. Diecimila euro abbiamo deciso di dividerli tra di noi, il cognato D’Agostino Massimo, Belviso Francesco e Guerriero Vincenzo. Ricordo che abbiamo preso mille e cinquecento euro per ciascuno. Diecimila euro li abbiamo mandati alle palazzine e a Partoria e, quindi, alla famiglia di D’Alessandro Michele ed alla famiglia di D’Alessandro Luigi senior, come del resto veniva fatto per tutte le estorsioni. Il mio primo incontro con Greco Adolfo è avvenuto certamente dopo l’omicidio di Verdoliva Giuseppe e dopo la mia scarcerazione del 2006.
Dopo la consegna dei ventimila euro, io ho fermato un lavoro che era in corso in via Tavernola in un palazzo vicino all’abitazione di Romano Catello, un po’ più avanti. Il lavoro consisteva nella demolizione e nella ricostruzione del palazzo. Io sono andato sul cantiere e ho parlato con gli operai, ai quali ho chiesto chi stava facendo il lavoro. Gli operai mi hanno risposto che a fare il lavoro era don Adolfo Greco, che abitava proprio di fronte a quel palazzo. Io sono andato da Verdoliva Luciano e gli ho detto che, mandandoci ventimila euro, Greco Adolfo ci aveva mandato soltanto gli spiccioli. Il lavoro di via Tavernola infatti era molto grosso. Io ho chiesto a Verdoliva Luciano di fare l’imbasciata a Greco Adolfo per comunicargli che doveva mandare i soldi. Verdoliva Luciano è stato poi arrestato. Fino al momento dell’arresto di Verdoliva, Greco Adolfo non aveva mandato i soldi. Io per due o tre giorni ho dormito a casa di Romano Catello per vedere a che ora Greco Adolfo usciva di casa. Ho così accertato che Greco Adolfo usciva di casa verso le 6,30 del mattino e che ad aspettarlo fuori casa c’era un suo autista. Sono quindi sceso da casa di Romano Catello e ho fermato Greco Adolfo sotto la sua abitazione, mentre stava uscendo la mattina. Io ero armato. Io ho detto a Greco Adolfo che stavo aspettando proprio lui e che non doveva impaurirsi. Ho anche detto a Greco Adolfo di fermare il suo autista, facendogli capire che altrimenti gli avrei sparato. Ho quindi chiesto a Greco Adolfo di chi era il palazzo e Greco mi ha risposto che era una cosa della sua famiglia. Io gli ho detto che doveva comunque mandare i soldi a Scanzano. Greco Adolfo mi ha risposto che lui aveva mandato i ventimila euro ed io gli ho detto che doveva dare il 5% sulla struttura e gli ho dato quarantotto ore di tempo per mandare i soldi. Gli ho detto che doveva mandare cinquantamila euro. Durante quell’incontro ho anche detto a Greco Adolfo che, se stava facendo altri lavori, doveva dirmelo. Greco Adolfo mi ha assicurato che avrebbe mandato da me un operaio a Scanzano per consegnarmi il denaro. Poiché non si è presentato nessuno, io ho detto a Romano Catello che dovevamo incendiare la macchina di Greco Adolfo. Romano Catello mi ha detto che Greco Adolfo posava l’Audi di colore grigio metallizzato chiaro del figlio in un garage che si trovava subito dopo l’ingresso di via Tavernola. Questo garage, dove c’erano pure un meccanico ed un lavaggio, era proprio collegato all’abitazione di Greco Adolfo. La sera Romano Catello ha scavalcato il muretto e con la benzina ha bruciato più macchine, che si trovavano all’interno di quel garage. Io ho assistito alla scena da casa di Romano Catello. Da casa di Romano Catello ho visto anche l’intervento dei vigili del fuoco. Dopo l’incendio Greco Adolfo si è rivolto a Vitiello Antonio, che praticava molto Ponte Persica e che conosceva Greco. Vitiello Antonio mi ha infatti chiamato e mi ha detto che, dopo l’incendio, Greco Adolfo si era rivolto a lui dicendogli di essere preoccupato per il figlio. Io ho detto a Vitiello Antonio che Greco Adolfo doveva portare i soldi. Greco Adolfo ha poi consegnato cinquantamila euro a Vitiello Antonio, che mi ha dato trentamila euro che io ho a mia volta consegnato a Belviso Francesco per dividerli tra le palazzine e Partoria…”.

5. continua

Cronache della Campania@2018

Camorra, Nicola Schiavone: ‘L’interro dei rifiuti una pratica immorale’. Pronto a svelare la nuova Terra dei Fuochi

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Per il pentito Nicola Schiavone, figlio maggiore del famigerato Francesco ‘Sandokan’, ex capo dei Casalesi, “l’interro di rifiuti pericolosi o addirittura tossici sul territorio casertano” rappresentava una pratica che lui stesso colloca “tra la fine degli anni 80 inizi anni 90”. “Questo modo di fare – ha detto Schiavone ai magistrati – è stato da me sempre contrastato in quanto ritenevo del tutto immorale oltre che stupido arrecare un danno all’ambiente così grande che avrebbe avuto dei riflessi sulla nostra stessa salute. Molti miei parenti sono titolari di aziende bufaline oltreché agricole sicché trovavo assurdo che con queste condotte si potesse arrecare danno a noi stessi che su quel territorio vivevamo”.
Nicola Schiavone vede di cattivo occhio la pratica di interrare rifiuti nel territorio casertano e si dice “disponibile” a raccontare ai magistrati tutto quello che conosce sulla vicenda.

Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018


Condannato a 15 anni per estorsione ad un caseificio, la Cassazione ha deciso sul ricorso di Tommaso Vitolo

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CASTEL VOLTURNO – Come per ogni sentenza, l’ultima speranza per ricevere una revisione della decisione dei giudici nei primi due gradi di giudizio, in questo caso uno sconto di pena, è alla Cassazione. Ed è a questa corte che si è rivolto Tommaso Vitolo. Sessantenne e ritenuto legato al gruppo camorristico facente capo al killer dei Casalesi Giuseppe Setola, è stato condannato per un’estorsione ai danni di un caseificio, uno dei tanti della zona, venendo condannato a 15 anni e 6 mesi di reclusione. La Cassazione ha ritenuto adeguata la pena rispetto al valore del reato e ha quindi confermato la condanna all’esponente del clan camorristico.

Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Camorra, pentiti inattendibili: il boss De Micco evita l’ergastolo

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Ha evitato l’ergastolo il baby boss di Ponticelli, Salvatore De Micco, capo dei  famigetari “Bodo” e con lui anche il killer Gennaro Volpicelli. Entrambi erano accusato di essere gli esecutori materiali dell’omicidio di Massimo Imbimbo, assassinato il 6 dicembre del 2011 a Ponticelli. La Corte di Assise d’Appello di Napoli ha condannato entrambi a 30 anni di carcere accogliendo la tesi degli avvocati Stefano Sorrentino e Claudio D’Avino che avevano sottolineato l’occasionalità dell’omicidio e la mancanza della programmazione e quindi premeditazione. In primo grado i difensori avevano fatto notare le incongruenze di uni dei pentiti che accusava i due. Ovvero Antonio Sarno detto “polpetta”, figlio di Luciano (morto la scorsa settimana dopo una lunga malattia). “Quel giorno mi trovavo in mac­china, stavo parlando al telefono con la mia fidanzata, quando ho visto uno scooter passare a tutta velocità e ho assistito al delitto. Ho riconosciuto De Micco e Volpicelli. E anche De Micco ha ri­conosciuto me”, aveva spiegato durante il processo il giovane pentito. Gli avvocati fecero nootare come il collabora­tore di giustizia Antonio Sarno, alias “polpetta”,avesse sostenuto di essersi trovato sulla scena del de­litto pochi istanti dopo l’agguato  In quella circostanza il figlio di Luciano Samo avrebbe dunque visto e riconosciuto sia De Micco che Volpicelli. Una testimonianza chiave. Ma nei mesi precedenti  lo stesso pentito aveva sostenuto che quel giorno si sarebbe trovato in compagnia del­l’omonimo cugino, Antonio detto “spillo”. Ma quest’ultimo, che invece non è collaboratore di giustizia, ha invece spiegato di aver incontra­to il proprio congiunto soltanto due giorni dopo la morte di Im­bimbo e che, anche in questo frangente, non gli avrebbe riferito al­cunché in merito all’omicidio. I giudici del collegio della Corte di Assise d’Appello di Napoli (presieduta da Alfonso Barbarano) hanno quindi accolto la tesi dei difensori e condannato a 30 anni di carcere Salvatore De Micco e Gennaro Volpicelli.

Cronache della Campania@2018

La Cassazione condanna il ‘custode’ delle armi dei Casalesi

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Arriva la condanna definitiva per l’operaio “armiere” del gruppo Schiavone. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 1 anno e 8 mesi per Salvatore Tana, 31enne originario di Santa Maria Capua Vetere, accusato di possesso di armi all’interno di una casa.
Salvatore Tana aveva Il ruolo di custode. Custode del deposito di armi del clan, utilizzate per minacciare tutti quegli imprenditori e commercianti che non rispettavano il loro volere. Era stato arrestato a Tornimparte. 28enne originario di Teverola in provincia di Caserta, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa a seguito di indagini dirette dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli a carico de Casalesi. Il ruolo contestato dalla Procura distrettuale napoletana a era quello di essere il custode e armiere del gruppo di fuoco risultando incaricato del deposito di armi utilizzate per gli atti intimidatori in pregiudizio di imprenditori e commercianti, nonché di spacciare sostanze stupefacenti per conto dell’associazione criminale. L’associazione per delinquere camorristica utilizzava corrieri che consegnavano lo stupefacente in Italia e vedeva Salvatore Tana. in seno all’organizzazione essere incaricato delle attività di stoccaggio, custodia e distribuzione dello stupefacente. Le indagini dei Carabinieri, avviate nel 2010 a seguito di un attentato intimidatorio all’abitazione dell’allora Sindaco di Teverola, hanno fatto anche luce sull’omicidio di un affiliato al clan da ricondursi a motivi di equilibrio interni al clan stesso. Salvatore Tana era stato individuato nell’aquilano, dove lavorava alle dipendenze di una ditta edile casertana impegnata nella ricostruzione post-sisma.

 Gustavo Gentile

Cronache della Campania@2018

Indagine sulla sezione Fallimentare del Tribunale di Napoli

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La Procura di Roma indaga su un presunto giro di corruzione alla sezione Fallimentare del Tribunale di Napoli così come anticipa il Mattino. I giudici capitolini non hanno dubbi anche se a fermarli è il gip che boccia le conclusioni investigative a carico degli indagata. A finire al centro di un’ inchiesta è Enrico Caria, in anni alla fallimentare del tribunale partenopeo, con lui anche altri professionisti indicati di volta in volta come consulenti. Il gip dice no agli arresti proposti dalla Procura romana sottolineando la carenza di indizi di colpevolezza. Nella giornata di venerdì il Fava, titolare del fascicolo, potrà replicare a questo tipo di censure. Caria è accusa di aver veicolare nomine di consulenze in cambio di favori, in questa vicenda sono coinvolti oltre venti professionisti per il loro intervento in pratiche fallimentari.

Cronache della Campania@2018

Napoli, altro sequestro per la società che gestisce il teatro Sannazaro

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Napoli.La Guardia di Finanza di Nola ha sequestrato le quote sociali della società Tradizione e Turismo srl, società che attualmente gestisce l’azienda Teatro Sannazaro e, secondo gli investigatori, utilizzata quale strumento per distrarre beni societari in danno dei creditori. Il decreto di sequestro preventivo, emesso dal gip di Nola, scaturisce dalle indagini coordinate dalla Procura nolana che hanno portato alla luce il delitto di bancarotta fraudolenta della società La.Ma.Ing srl, fallita nel 2016. Nell’ambito delle indagini, che hanno già portato al sequestro della società Esmeralda srl e dei beni utilizzati per l’organizzazione e lo svolgimento delle rappresentazioni artistiche, ulteriori approfondimenti hanno consentito di accertare che la società fallita, allo scopo di sottrarre alla garanzia dei creditori il Teatro Sannazaro di Napoli, ha utilizzato la società Tradizione e Turismo per dissimulare il compendio aziendale mediante distrazione di beni societari. Il gruppo familiare ha così continuato a gestire il Teatro Sannazaro avvalendosi del nuovo soggetto economico, condotta che ha determinato, secondo la Procura di Nola, un danno ai creditori quantificato in 1,5 milioni di euro. Inoltre è stato rilevato nel corso delle indagini che la società Tradizione e Turismo srl è stata beneficiaria di un contributo pubblico di 440mila euro da utilizzare per l’organizzazione delle attività artistiche, la cui assegnazione è stata sospesa.

Cronache della Campania@2018

Mugnano, il gup: ‘Giuseppe voleva allontanarsi e non uccidere Alessandra’. Le motivazioni della sentenza

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“L’intenzione di fondo dell’imputato era quella di allontanarsi velocemente da quella discussione e non quella di percuotere o ledere la ragazza”. Lo scrive il gup di Napoli Antonino Santoro nelle 38 pagine di motivazioni della sentenza di condanna a quattro anni e otto mesi inflitta per omicidio colposo inflitta a Giuseppe Varriale, l’ex di Alessandra Madonna, morta l’otto settembre 2017 nell’ospedale di Giugliano in Campania, trascinata dalla vettura dell’ex fidanzato. Il pm aveva chiesto la condanna a 30 anni per omicidio volontario. Non di questo avviso il gup. “Si e’ invece di fronte – scrive – ad un fatto colposo dovuto alla negligente-imprudente condotta dell’imputato per aver accelerato nonostante la presenza di Alessandra in aderenza al veicolo, nel corso di una accesa discussione, in tal modo mettendo in pericolo la sicurezza della ragazza”. Il gup scrive inoltre: “Decisiva inoltre la condotta successiva di Varriale che si e’ immediatamente fermato dopo essersi accorto che qualcosa era successo, ha soccorso la vittima come poteva, l’ha portata in ospedale nell’estremo tentativo di salvarla. E’ evidente – conclude il gup – che tale atteggiamento cozza con una eventuale volonta’ di uccidere”. Nelle motivazioni della sentenza il giudice sottolinea “uno dei punti deboli dell’attivita’ investigativa”, ovvero che le “dichiarazioni iniziali di Varriale con le quali riferiva che la vittima si era aggrappata alla sua vettura non sono state verbalizzate a parte della Pg ma risultano sottoforma di riassunto che condiziona in senso negativo la comprensione, non essendo state verbalizzate le precise parole in quei momenti”. Il nuovo avvocato della famiglia di Alessandra Madonna, l’avvocato bresciano Massimiliano Battagliola, spera ora nel ricorso in appello da parte del pubblico ministero. Mi auguro e credo proprio che il pm, che aveva chiesto la condanna a 30 anni, depositi appello. Dal mio punto di vista – prosegue il legale – per la dinamica e per il rapporto tra i due ragazzi siamo in presenza di un omicidio volontario e non colposo o stradale”.

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Camorra, la Dda indaga sul summit tra Casalesi e clan Mallardo: due arresti e 20 indagati

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ì Figura anche quello che per gli inquirenti e’ stato un summit di camorra nell’inchiesta della Procura Antimafia di Napoli che vede 20 persone nella veste di indagati per le accuse, a vario titolo, di associazione camorristica, corruzione, estorsione, intestazione fittizia e turbata liberta’ degli incanti. L’inchiesta della DDA di Napoli e dei carabinieri di Caserta passa al setaccio una serie di appalti sui quali, a parere degli inquirenti, si stavano concentrando gli interessi della camorra. Solo due le misure cautelari notificate ad altrettanti indagati – il gip non ha ritenuto adottare provvedimenti piu’ pesanti – a cui il Tribunale impone il divieto di esercitare attivita’ di impresa e professionale. Tra gli indagati figurano anche un fratello di Francesco “sandokan” Schiavone, ex boss del clan dei casalesi e l’imprenditore che avrebbe acquistato da un poliziotto la pen drive di Swarovski trafugata dal bunker di Casapesenna dove fu stanato Michele Zagaria. Il summit in questione risale all’8 gennaio del 2015. I carabinieri di Caserta tengono sotto controllo due cugini (che figurano tra gli indagati e sono legati da vincoli di parentela alla famiglia Schiavone). Si recano a un incontro in una nota tenuta di proprieta’ di un parente acquisito del fratello di Sandokan, nel comune di Giugliano in Campania. Una riunione a cui, sempre secondo gli inquirenti, partecipano persone ritenute a capo di due fazioni del clan dei casalesi e del clan Mallardo, organizzazione malavitosa che fa affari illeciti proprio in quella zona dell’hinterland a nord di Napoli. I militari rilevano il segnale gps della macchina dei due cugini e le intercettazioni sono piuttosto chiare riguardo la natura della riunione. Uno dei due, infatti, propone di non portarsi dietro i cellulari, “di lasciarli fuori” perche’ “sono pericolosi”. L’incontro dura due ore. Due ore durante le quali si parla di denaro, di centinaia di migliaia di euro, e di appalti, anche nel settore dei rifiuti. Dall’analisi delle conversazioni dei due cugini intercettate al termine della riunione, emerge che qualcosa non e’ andata per il verso giusto e che uno degli interlocutori, verosimilmente colui che sarebbe il vertice del clan Mallardo, si sarebbe irritato per il coinvolgimento di una persona legata da stretti vincoli di parentela con Michele Zagaria, tirato in ballo proprio dai due cugini.

Cronache della Campania@2018


Uccise il compagno dell’ex: fine pena mai

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Uccise il compagno dell’ex, condanna all’ergastolo con l’isolamento diurno per sei mesi per Giovanni Calenzo. L’omicidio si consumò il 10 giugno del 2017. La vittima, Giuseppe Capraro, imprenditore 56enne fu colpito 90 volte al volto, al torace e al collo nella ex abitazione di Calenzo. L’uomo quella mattina si apprestava a fare colazione con la sua compagna, l’ex moglie di Giuseppe Capraro. La donna era fuggita dal marito che si rivelava violento nei suoi confronti. Nella giornata di ieri è arrivata la sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. I giudici hanno confermato che l’omicida in quel momento era capace di intendere e di volere ed è per questo che i giudici hanno disposto anche una serie di pene accessorie tra cui il risarcimento delle parti civili. Prima del delitto l’uomo scrisse una lettere a sorella e familiari dicendo anche che si sarebbe ucciso. Voleva uccidere l’intera famiglia e per questo ha ricevuto anche la condanna per tentato omicidio della figlia e dell’ex moglie.

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Camorra, società interinali usate dal clan per assunzioni e riciclaggio: arrestati il boss e l’imprenditore

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Societa’ di lavoro interinale come ‘appoggio’ per un clan. E’ lo scenario ipotizzato dalla Direzione distrettuale antimafia di Salerno che, in un’indagine delegata al Gico della Guardia di Finanza, ha fatto luce sui legami e sul patrimonio di un imprenditore di Pontecagnano Faiano, Giovanni Attanasio, detto ‘il presidente’. Questa mattina, le Fiamme Gialle hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di Attanasio e di un pregiudicato, Enrico Bisogni. Ottiene, invece, il beneficio dei domiciliari uno stretto suo collaboratore, Sergio La Rocca. A tutti viene contestata l’associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, all’intestazione fittizia di beni, alle false attestazioni all’autorita’ giudiziaria e al compimento di reati tributari. L’inchiesta nasce nel 2014 da una verifica sul patrimonio di Attanasio e sull’eventualita’ che imprese di somministrazione di lavoro interinale e di logistica fossero riconducibili a lui, uomo che il procuratore di Salerno facente funzioni, Luca Masini, definisce “dominus, nonostante non figuri tra gli organigrammi delle societa’”. Nell’estate 2015, i baschi verdi avevano gia’ accertato un’evasione fiscale di 8 milioni di euro, poi in parte saldata al Fisco, da parte di una delle societa’, la Lavoro.doc, per la quale era stato disposto ed eseguito un sequestro preventivo del patrimonio a disposizione di Attanasio, tra cui immobili, azioni, conti corrente, denaro contante, orologi preziosi e quadri d’autore. Per gli inquirenti, il ‘presidente’, cosi’ era chiamato l’imprenditore, sarebbe il titolare del vasto patrimonio immobiliare, societario, mobiliare e finanziario in gran parte intestato in maniera fittizia a prestanome. I pm sostengono che tutti questi beni siano stati accumulati, sia “attraverso la sistematica evasione fiscale del gruppo facente capo all’indagato”, ma anche grazie “all’appoggio del clan Pecoraro-Renna”. Bisogni, gia’ detenuto perche’ imputato con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso nell’ambito delle inchieste ‘Omnia’ e ‘Perseo’, e’ a capo di un gruppo criminale legato proprio a quella cosca; e proprio Bisogni avrebbe avuto un ruolo di primaria importanza all’interno della S.V.A., una societa’ cooperativa riconducibile ad Attanasio. Bisogni, che ha ricoperto, dal 2012 al 2016, il ruolo di addetto alla distribuzione di abbigliamento antinfortunistico, avrebbe acquisito “un’autonomia decisionale sul reclutamento e sull’impiego dei dipendenti del gruppo delle societa’ facenti capo all’Attanasio”, scrivono gli inquirenti. Per il comandante provinciale della Guardia di Finanza, il generale Danilo Petrucelli, sarebbe avvenuto “uno scambio di favori” tra il mondo dell’imprenditoria e quello della criminalita’ organizzata. L’uomo dei Pecoraro-Renna avrebbe procurato attestati falsi di impiego lavorativo nelle imprese di Attanasio a numerosi pregiudicati, con i quali era possibile a ciascuno di loro ottenere benefici durante l’esecuzione della pena. Sarebbero 10 le persone assunte che avrebbero legami con il clan, ma le posizioni vagliate sono circa un centinaio. Risultano assunti figli di esponenti della criminalita’ organizzata. Per la procura distrettuale, “con l’assunzione di alcuni componenti del gruppo criminale e di altre persone da questi ultimi raccomandate, Giovanni Attanasio ha concorso ad accrescere il loro potere e la loro influenza criminale, cosi’ determinando un rafforzamento del clan”. In cambio, il ‘presidente’, tra l’altro, in due occasioni, nel 2015 e nel 2016, avrebbe sedato con intimidazioni due manifestazioni sindacali, di cui una nella sede di Vicenza. Da Salerno, in quel caso, parti’ un pullman con a bordo 25 persone inviate a calmare gli animi dei lavoratori in protesta. Le attivita’ imprenditoriali di Attanasio, nel tempo, da Pontecagnano, sede principale dei suoi affari, si sono estese anche a Roma, Ancona, Avellino, Bari, Catania, Napoli, Prato, Parma, Trapani, Varese e Vicenza. E poi anche all’estero, in Danimarca e in Estonia, dove si sono registrati investimenti e dove avrebbe acquisito le quote di due societa’, impiegando, secondo i pm, “parte dei proventi illeciti provenienti dall’ingente evasione fiscale”. Durante le perquisizioni di stamane, i militari della Guardia di Finanza hanno rinvenuto, tra la sede della societa’ e a casa di Attanasio, diversi quadri riportanti le firme di Picasso e Monet per i quali sono in corso le verifiche di autenticita’, 8 anelli del valore di 1.500 euro ognuno, un assegno di 5.000 euro e 5.000 euro in contanti, tutto sotto sequestro. Nella borsa di Attanasio, c’era un appunto relativo alla struttura societaria del suo gruppo che, tuttavia, non esiste documentalmente, e sul quale si lavora. Il pm che ha coordinato l’indagine, Vincenzo Senatore, spiega che “il punto di svolta dell’inchiesta e’ rappresentato dalla ricostruzione degli organigrammi delle varie societa’”, che sarebbero 60 per 30 aziende e definendo “una selva” le quote societarie. Dalle verifiche svolte dalla Guardia di Finanza, il fatturato ammonta a 100 milioni di euro e 1000 sono i dipendenti assunti.

Cronache della Campania@2018

Concorsi truccati nelle forze dell’ordine e nell’esercito: avviso di conclusione indagini per 15 persone

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La Guardia di Finanza ha notificato 15 avvisi di conclusione indagini ad altrettante persone ritenute responsabili di avere messo in piedi un sistema per ricavare e vendere le risposte esatte ai concorsi per volontario in ferma prefissata di 4 anni (VFP4) che consentono l’accesso nelle fila delle forze armate e dell’ordine. L’indagine della Procura di Napoli, coordinata dal pm Giancarlo Novelli, ha portato, lo scorso 17 ottobre, alla notifica di una quindicina di misure cautelari di arresti domiciliari nei confronti di altrettante persone per le quali ora si profila all’orizzonte il rinvio a giudizio. I concorsi passati sotto la lente degli investigatori riguardano l’anno 2016 (prima e seconda immissione). Gli inquirenti ipotizzano, a vario titolo, i reati di associazione per delinquere, rivelazione di segreto d’ufficio in relazione alla divulgazione dei quiz prima del giorno dell’esame, truffa, ricettazione, riciclaggio ed autoriciclaggio. Tra le persone arrestate lo scorso ottobre figura Luigi Masiello, il generale in pensione dell’Esercito Italiano. Per gli inquirenti alcune centinaia di candidati avrebbero acquistato, con cifre cospicue, una formula attraverso la quale era possibile ottenere la risposta giusta ai quesiti proposti, diversi da quelli di matematica e logica. Per questi ultimi, invece, le risposte venivano fornite su carta. Gli indagati hanno ora venti giorni di tempo per presentare memorie difensive e documentazione, per farsi interrogare oppure per rilasciare dichiarazioni.

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Camorra a Castellammare: il Riesame decide giovedì sull’istanza di scarcerazione dell’imprenditore Adolfo Greco

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Castellammare. Annullamento dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere o, in seconda istanza, la concessione degli arresti domiciliari: sono le richieste avanzate dagli avvocati Vincenzo Maiello e Michele Riggi ai giudici del Tribunale del Riesame di Napoli nell’interesse dell’imprenditore Adolfo Greco, finito due settimane fa in prigione nell’ambito dell’operazione ‘Olimpo’ sulle estorsioni imposte dai clan D’Alessandro, Cesarano, Afeltra e Di Martino a commercianti e imprenditori nel circondario stabiese. Lo scorso 5 dicembre la Polizia di Stato ha eseguito 13 arresti (9 in carcere e 4 ai domiciliari) e contestato agli indagati una serie di delitti contro il patrimonio (estorsioni), la persona (violenza privata) e l’ordine pubblico (violazioni in materia di armi ed esplosivi), tutti aggravati dal metodo e/o dalla finalita’ mafiosa. Secondo l’accusa, Greco e’ un imprenditore ‘bordeline’ che da vittima del pizzo e’ diventato connivente dei malavitosi finendo per mediare nelle estorsioni imposte ad altri titolari di attivita’ economiche. La difesa, invece, ha sostenuto che Greco e’ solo una vittima che ha trattato con i malavitosi allo scopo di riuscire a pagare tangenti di minori importi per salvare la sua attivita’, e che lo stesso tipo di intervento lo ha portato a termine per aiutare altri imprenditori finiti nel mirino della criminalita’ organizzata. Il Tribunale del Riesame decidera’ entro giovedi’.

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Camorra: fine pena mai per l’ex boss degli Scissionisti e il capo della Vanella Grassi

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Napoli. Era considerato l’erede dei boss della camorra dei quartieri di Napoli di Scampia e Secondigliano, ma a venti anni decise di ritagliarsi piu’ spazio e dichiaro’ guerra al clan Di Lauro a cui si era legato e cosi’ sanci’ l’alleanza tra gli Amato-Pagano e la Vanella Grassi. Il gup Emila Di Palma ha condannato all’ergastolo Mariano Riccio per aver ordinanto la morte di Pasquale Malavita, ucciso il primo ottobre del 2010 a Giugliano. Carcere a vita anche per Fabio Magnetti, a capo dei cosiddetti ‘Girati’, per Alessandro Grazioso, considerato il killer, e trent’anni per Umberto De Vitale. Queste sono state le pene che il pm della Dda Maurizio De Marco aveva chiesto al giudice per le udienze preliminari. Gia’ due mesi fa aveva firmato il decreto di giudizio immediato dopo aver raccolto decine di dichiarazioni di collaboratori tutte convergenti tra le quali quelle di Rosario Guarino detto Joe banana, uno dei capi della Vanella Grassi, poi passato dalla parte delle Stato.

Cronache della Campania@2018

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