Arzano. L’arresto del dirigente comunale Saverio Francesco Barone provoca un vero e proprio terremoto politico-amministrativo. In attesa dell’interrogatorio di garanzia dell’uomo finito agli arresti domiciliari per la falsificazione di una pratica, gli inquirenti hanno acquisito altri documenti presso l’ufficio di Barone, la segreteria del Comune di Arzano e presso gli uffici di vi Ferrara presso il settore Attività produttive. Nell’inchiesta potrebbero finire nomi eccellenti. Ma gli investigatori cercano l’intermediario tra il dirigente e il beneficiario della pratica finita nel mirino della magistratura e che ha portato all’arresto di Barone e all’iscrizione nel registro degli indagati di diversi indagati. A condurre le indagini gli uomini della Tenenza dei carabinieri di Arzano, coordinati dalla Procura di Napoli Nord, che hanno acquisito il dossier relativo allo scioglimento per camorra nel quale sono elencati una serie di episodi ora al vaglio della magistratura. Gli inquirenti sperano nella collaborazione di Barone, il funzionario dirigente ad interim dell’Area Pianificazione e Gestione Territoriale del comune, accusato di falsa attestazione nel certificato di agibilità, rilasciato nel giugno 2013, per locali dell’immobile situato ad Arzano in via Caravaggio e destinati a ospitare l’istituto scolastico Giovanni Paolo II. Barone ha attestato che la documentazione prodotta dal richiedente per il rilascio del certificato contemplasse atti in realtà mai presentati e, comunque, non giacenti presso il relativo ufficio comunale. Nell’atto si attestava che il legale rappresentante dell’istituto fosse legittimato a presentare la dichiarazione inizio attività (Dia) in quanto locatario, anche se in realtà – secondo la Procura – non lo era. A Barone vengono contestate le accuse di falso ideologico e abuso d’ufficio. La condotta del dirigente avrebbe permesso al rappresentante legale della scuola, già assessore comunale, di proseguire, illegittimamente l’attività scolastica nei locali di via Caravaggio che avevano una destinazione urbanistica diversa. L’ordinanza nei confronti di Barone evidenzia come alcuni dirigenti, già citati nel decreto di scioglimento per camorra del Comune, rivestano ancora ruoli di primo piano all’interno dell’amministrazione e alcune ditte – citate nel decreto come contigue ai clan – continuano a gestire numerosi appalti pubblici.
Inchiesta al Comune di Arzano, acquisiti nuovi atti presso gli uffici comunali. Si attende l’interrogatorio di Barone
Qualiano: per il “pizzo di Natale” condanne per 75 anni a boss e gregari del clan Pianese-D’Alterio
Per il pizzo di Natale nei confronti dei commerciati di Qualiano sono stati condannati a 75 anni di carcere gli affiliati al clan Pianese-D’Alterio. Le condanne in Appello riguardano Caterina Pianese, figlia di Nicola o’ mussuto e Raffaella D’Alterio anche detta “a’ miciona”, che in primo grado era stata condannata a 8 anni di reclusione. Emanuele Forestiero condannato a 5 anni di reclusione Ramon Pizzo 6 anni , Biagio Micillo 8 anni, Domenico Russo 2 anni, Giuseppe Iodice 12 anni di reclusione, Vincenzo Iuffredo 7 anni, Palumbo Sergio 10 anni di carcere, Nicola Poerio 6 anni e, Angelo Conte 6 anni. I fatti risalgono al 2008 periodo in cui il clan di Nicola Pianese attraverso i suoi affiliati imposero con la forza a tutti i commercianti di Qualiano l’acquisto di gadget natalizi.
(nella foto da sinistra Biagio Micillo e Caterina Pianese)
Torre del Greco, cancellato l’ergastolo per il boss Ciro Grieco e Raiola: “solo” 20 anni per l’omicidio del boss Gaetano Di Gioia
Cancellato l’errgaostolo per Ciro Grieco, detto Cirotto ‘a marchese, capo dell’ala scissionista del clan Falanga di Torre del Greco e Francesco Paolo Raiola, entrambi accusati dell’omicidio del boss di Torre del Greco, Gaetano di Gioia avvenuto il 31 maggio del 2009. Nello stesso agguato che segnò la nascita della cosidetta ala degli “scissionisti” del clan fu ferito il figlio Isidoro oggi collaboratore di giustizia. In primo grado i due imputati erano stati condannati all’ergastolo. Ieri è arrivata la sentenza di Appello (prima sezione, presidente Monaco) che cancella il carcere a vita per mandante e killer. Venti anni di carcere. Una vittoria importante per le difese che in primo grado avevano scelto il rito abbreviato ma del quale non si tenne conto. Il boss Gaetano Di Gioia dopo un lungo periodo di detenzione Di Gioia era tornato libero e aveva ripreso le redini del clan affidando al figlio Isidoro la gestione della droga, avocando a se i proventi delle estorsioni e la gestione delle liquidità.Tale logica, non condivisa, era sfociata nell’agguato, con il quale padre e figlio erano stati puniti ed stata sancita la scissione dal clan di appartenenza e la formazione di un gruppo criminale a sé stante, appunto gli “scissionisti del clan Di Gioia”.
(nella foto il luogo dell’agguato e il boss Gaetano Di Gioia)
Castellammare: è già in semilbertà il macellaio che uccise e decapitò l’assicuratore Giuliano Vanacore
E’ tornato in libertà, anzi in semilbertà, dopo 11 anni di carcere Carmine Caiazzo il macellaio di Castellammare che uccise, decapitò e fece a pezzi e poi buttò nella spazzatura l’assicuratore Giuliano Vanacore. Era il 5 maggio maggio del 2005. Un delitto atroce di cui ancora oggi si parla nella città stabiese perché la vittima appartiene a una delle famiglie più in vista di Castellammare. Carmine Caiazzo è in semilibertà, sta godendo di permessi premio e sconti di pena per la sua buona condotta in carcere. Ha anche aperto un profilo facebook (dal quale è tratta la foto). Nonostante debba scontare ancora 16 anni da detenuto. Per il momento entra ed esce dalla casa circondariale di Rebibbia e nel “tempo libero” risiede alle porte di Roma, in periferia. Lì dove incontra i figli e cerca di ricostruire la sua vita. Nel frattempo ha anche studiato e si è diplomato presso l’istituto magistrale del carcere di Rebibbia, risultando avere una buona condotta all’interno della casa circondariale. Per questo ha poi via via ottenuto sempre più permessi premio. Qualche anno fa ottenne, attraverso l’allora difensore Arturo Cola, uno sconto di pena per effetto dell’indulto. Sconto che non gli era stato calcolato al momento della sentenza in via definitiva di 30 anni in Corte d’Appello. La condanna è quindi scesa a 27 anni, anche se dopo appena 10 anni di carcere gode sempre più di permessi per la “libera uscita”. Nelle memorie difensive dei suoi legali infatti si racconta una condotta carceraria modello, ottenendo il permesso di frequentare la scuola di Rebibbia convenzionata con la casa circondariale.
Sant’Anastasia: revocato il carcere duro al boss Aniello Anastasio
NapolI, aggressione ai familiari del pentito Esposito: assolto Scarpato del clan De Micco
E’ stato assolto Vincenzo Scarpato, uomo del clan De Micco e condannato in primo grado a 7 anni di reclusione per la detenzione e porto di armi nel corso dell’aggressione in danno dei familiari del collaboratore di giustizia Domenico Esposito alias ’o cinese. I giudici della quarta sezione della Corte di Appello lo hanno assolto per il reato per la detenzione di armima non per il tentativo di violenza privata condannandolo ad una pena di anni due e sei mesi già scontati. Scarpato resta in carcere perché detenuto per altri reati. Fu arrestato nel giugno del 2013 dopo che il raid intimidatorio fu ricostruito nei dettagli. Un commando di 7 affiliati al clan De Micco di Ponticelli, alleato dei Cuccaro di Barra, sparò contro due donne e un uomo imparentati con la convivente dell’allora neopentito di camorra Domenico Esposito “’o cinese”. I tre si trovavano in via Argine e solo per caso non ci fu il morto. Le vittime chiesero aiuto alla polizia denunciando l’accaduto. L’obiettivo delle intimidazioni era di riuscire a scoprire dove fosse stato rinchiuso ’o cinese.
(Nella foto Vincenzo Scarpato)
Napoli; il pentito Overa parla delle rapine e dei rapporti tra i Mariano dei Quartieri Spagnoli e il clan di Ciro Gallo di Caivano
Tra i racconti messi a verbale dal pentito dei Quartieri Spagnoli, Maurizio Overa ci sono alcune pagine dedicate agli affari del clan e in modo particolare alle rapine, al traffico di droga e ai rapporti strettissimi con il clan Gallo di Caivano. “…Per quanto riguarda il settore delle rapine, vi posso dire che una quota della rapina fatta tra il 2013 e il 2014 al Monte di Pietà del Banco di Napoli di via Roma fu versata a Marco Mariano e a Giacomino “’e fraulella”. La quota gli fu versata da Arcangelo Trongone ed era di 15mila euro a testa. Mi risulta che Arcangelo partecipò personalmente alla rapina insieme ad un’altra persona di Santa Chiara detto “Gennaro ’o veloce” ed altre persone di San Giovanniello e Secondigliano. Aggiungo che nell’ultimo periodo, era intenzione di Marco Mariano e degli altri componenti del sistema dei Quartieri Spagnoli, ovvero Esposito, Saltalamacchia, Ricci e Masiello, di imporre alle paranze dei rapinatori il pagamento di una quota in denaro, ovvero imponendo la partecipazione alla rapina di una persona di fiducia del clan che garantiva il pagamento della quota”.
GLI AFFARI CON I GALLO DI CAIVANO
“…I rapporti tra Marco Mariano e Ciro Gallo nacquero da un’amicizia, tant’è che Marco fece da padrino al figlio di Massimo Gallo. I nostri rap- porti con loro riguardavano da un lato i rapporti del traffico di cocaina e dall’altro un’alleanza criminale in base alla quale noi li dovevamo aiutare nella guerra contro i loro avversari e in particolare contro Atonio “’a munnezz”, capozona del parco Verde di Caivano. Ricordo che circa un anno prima del nostro arresto, i fratelli Gallo furono tratti in arresto e noi mandammo a prelevare le armi a Caivano da Antonio che era il marito della sorella della moglie di Umberto Frattini. Questo Antonio, di cui non ricordo il cognome ma che saprei riconoscere in foto, è anche lui di Brusciano e fu messo assieme ai fratelli Gallo per aiutarli a vendere cocaina e per ordine di Marco Mariano. Le armi erano nascoste in una Fiat 600 che fu por- tata da Antonio a Pianura presso l’officina del nostro affiliato Ciro Romano, anche lui indagato con me e figlio di una mia defunta cugina a nome Lucia D’Agostino. Sicuramente, i soldi di cui si parla nelle intercettazioni ambientali a casa di Marco Mariano a Brusciano che riguardano i fratelli Gallo, dovrebbero riferirsi alla partita di droga che noi gli avevamo venduto. Ma quella non era l’unica fornitura che avevamo fatto ai fratelli Gallo in quanto in passato gli avevamo fornito altri quantitativi di hashish e cocaina che acquistavamo da Raffaele Bastone e Luigi Montò che furono ritrovati uccisi e carbonizzati a Secondigliano. L’alleanza con i fratelli Gallo, per le attività illecite della droga è durata fino a settembre del 2015, cioè quanto siamo stati arrestati. Le armi furono poi restituite a Ciro Gallo che fu scarcerato dal Riesame”.
(nella foto il boss marco mariano)
Napoli, intercettazione choc: il boss Di Biase ucciso e sciolto nell’acido
Il boss Michele Di Biase, detto “paparella” sarebbe stato ucciso e sciolto nell’acido. E’ questo lo scenario raccapricciante che emerge dalle indagini sull’omicidio condotte dalla squadra mobile di Napoli e secondo il racconto di due affiliati al clan Mallardo di Giugliano intercettati dagli investigatori e i cui contenuti vengono pubblicati dal quotidiano Il Roma in edicola oggi. Il reggente sul territorio di Giugliano della cosca dei mallardo per conto della famosa “Alleanza di Secondigliano” per gli investigatori ufficialmente è vittima della lupara bianca. Paparella subì un’agguato nella notte tra il 2 e il 3 ottobre scorso. I due affiliati ai Mallardo in più passaggi registrati dagli investigatori fanno espliciti riferimenti a “Paparella”, chiamato con il soprannome con cui era conosciuto a Giugliano, e al figlio. Indicando, esplicitamente, il presunto movente: l’attività di spaccio che l’uomo ucciso avrebbe gestito in città nonostante il clan non volesse.
Ecco altri brani della conversazione intercettata in ambientale
Uomo: “E quello dice tu già stavi di là con i “Piripicci” ( gruppo criminale di Giugliano, prima alleato dei Mallardo e poi antagonista, all’epoca capeggiato dai fratelli D’Alterio, poi decimato in seguito alla loro uccisione nel giugno 1991), di là sei passato di qua”.
Altro uomo: “Paparella sta cacato sotto, alle nove di sera si ritirano, padre e figlio”.
Uomo: “Già all’epoca da là è passato di qua? E già gli hanno fatto lo sconto perché, comunque, sta da tanti anni in mezzo alla strada e cose. Ora un’altra volta? Secondo me lo stendono, lo stendono, ora ci hanno detto insieme a noi e cose, perché comunque Paparella sta da 30 anni in mezzo alla strada…Lo uccidono proprio”.
Altro uomo: “No, lo sciogliamo proprio, ha detto…”
Per l’omicidio di Michele Di Biase, che naturalmente resta presunto fino a quando non si trova il corpo- come scrive Il Roma- non ci sono indagati. Il boss 58enne di Giugliano, arrivò a via D’Avalos a bordo di una Panda a cavallo della mezzanotte tra il 2 e il 3 ottobre 2015. Probabilmente era da solo e i sicari lo affiancarono mentre era seduto al posto di guida e non era ancora sceso dalla macchina.
Uno o entrambi i proiettili esplosi centrarono il ras soprannominato “Paparella” alla testa. La polizia trovò molto sangue all’interno dell’autovettura e un cappellino con visiera forato sul lato sinistro. Il finestrino, sempre dal lato guida, era stato infranto in due punti e i colpi avevano sforacchiato anche il vetro dall’altro lato. Nell’abitacolo c’erano anche un paio di occhiali, anch’essi sporchi di sangue. Sotto il parasole, gli investigatori trovarono la sua patente di guida. La macchina infatti è intestata al fratello Antonio, che ai poliziotti dichiarò di non utilizzarla mai. “Abitualmente ce l’ha mio fratello”, avrebbe detto quando gli uomini della Mobile lo rintracciarono nel cuore della notte. La ricostruzione più plausibile è che, con la scusa di festeggiare il compleanno insieme, qualcuno attirò Michele Di Biase in una trappola in via D’Avalos. Poi, ferito mortalmente il bersaglio designato, i sicari l’avrebbero caricato sulla loro vettura e scaricato altrove, sotterrato o sciolto nell’acido.
(nella foto il boss scomparso Michele Di Biase “paparella”
Casalesi: 110 anni di carcere al clan di Nicola Di Martino
Il gup del Tribunale di Napoli ha inflitto, complessivamente, 110 anni di reclusione a dieci componenti del gruppo camorristico del clan dei Casalesi capeggiato da Nicola Di Martino, detto “Nicola 23” operante nel Casertano, tra i comuni di Teverola e Carinaro. “Così noi festeggiamo la giornata della memoria”, ha commentato il sostituto procuratore della Repubblica di Napoli , Catello Maresca, colui che ha arrestato il superboss Michele Zagaria, che ha coordinato le indagini.
E’ stato rinviato a maggio il processo ai 60 “furbetti del cartellino” del Comune di Acerra
E’ stato rinviato al prossimo 9 maggio il maxi processo per 60 dipendenti del Comune di Acerra, accusati di assenteismo e truffa. Il giudice ha optato per il rinvio riservandosi di decidere l’ammissibilità delle videoriprese effettuate nel Comune nel 2013, che incastrarono i lavoratori. I legali della difesa, infatti, si sono opposti all’ammissibilità della prova video, in quanto hanno sostenuto che per effettuare le riprese doveva essere emesso un decreto del pubblico ministero, perchè ”il Comune – hanno spiegato gli avvocati – aveva vietato con un’ordinanza l’ingresso al pubblico fino alle ore 9, e quindi i luoghi non possono essere considerati pubblici”. Il giudice, però, ha ammesso le altre prove ed i testi dell’accusa, che ora torneranno in aula il prossimo 9 maggio. La vicenda risale a giugno del 2013, quando, in seguito ad un esposto anonimo, gli inquirenti decisero di effettuare le indagini sugli episodi di assenteismo denunciati. Per due settimane i dipendenti comunali furono controllati dall’interno e dall’esterno del Municipio. Sessantuno lavoratori, dei circa 270 in organico, furono accusati di truffa e assenteismo. Il Comune di Acerra è parte civile nel procedimento in corso.
Castellammare: il killer pentito Renato Cavaliere pronto a raccontare al processo d’appello tutta la verità sul delitto Tommasino
Inizierà il 25 maggio prossimo il nuovo processo davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Napoli per due killer di Gino Tommasino, il consigliere comunale del Pd di Castellammare di Stabia ucciso il 3 febbraio 2009 sotto gli occhi del figlio allora 12enne.Alla sbarra ci saranno Catello Romano e Renato Cavaliere (oggi pentito), che avevano incassato l’ergastolo in primo grado poi cancellato dalla Corte di Cassazione nel giugno 2015. La Suprema Corte aveva annullato il “fine pena mai” rinviando tutto in secondo grado. Ora è stata fissata la data di inizio del nuovo processo. Il processo D’Appello con la novità del pentitmento dell’esecutore materiale del delitto promette importanti colpi di scena. Intanto perchè non è stato mai chiarito chi sia stato il mandante e soprattutto perchè Tommasino fu ucciso. Da una attenta lettura dei verbali degli altri due pentiti, Raffaele Polito, condannato a 10 anni in abbreviato, e Salvatore Belviso, condannato a 18 anni e le cui pene sono diventate definitive, emergono delle situazioni contrastanti. Una cosa è comunque certa Gino Tommasino quel giorno non doveva morire. Il fatto che ci fosse il figlio in auto avrebbe dovuto fermare il commando di killer ma un errore di “segnalazione” della staffetta diede il via libera all’esecuzione. Ora il pentitmento di Renato Cavaliere, colui che materialmente fece fuoco, può apririre in fase processuale scenari nuovi e mai conosciuti. Le sue dichiarazioni per il momento sono top secret ma in aula di certo sarà incalzato dalle domande sia dei pm della Dda di Napoli sia dagli stessi difensori degli imputati. E di certo verranno fuori novità interessanti e probabilmente si potrà chiarire in via defintiva tutto il quadro dell’omicidio. Oltre a movente e mandante si vorrà capire anche lo scenario dentro il quale è maturato quell’omicidio e soprattutto perché proprio Gino Tommasino. Le dichiarazioni di Renato Cavaliere oltre che far emergere tutti i particolari inediti sul delitto Tommasino stanno facendo luce su tutte le attività illecite del clan D’Alessandro ma soprattutto sui rapporti con i politici e gli imprenditori collusi. Con la fissazione della data del processo per il 25 maggio prossimo a ridosso delle elezioni comunali di giugno a Castellammare c’è juna sorta di fibrillazione negli ambienti politici stabiesi per quello che potrebbe venire fuori in fase processuale.
(nella foto l’auto con il cadavere di gino tommasino e nel riquadro il killer pentito renato cavaliere)
Vallo della Lucania: chiesto l’ergastolo per il dirigente delle Poste che uccise il correntista al quale aveva rubato 142 milioni
Fine pena mai: è stata la pena richiesta dal pm Katia Cardillo per Pasquale Cammarosano, l’ex dirigente di Poste Italiane di Vallo della Lucania imputato per la morte di Carmine Novelli trovato morto in una enorme busta di platica il 7 marzo del 2001.dalle indagini e dal processo è emerso che Cammarosano si era appropriato dei soldi dei correntisti dell’ufficio postale del quale era dirigente a vallo della Lucania. Ma soprattutto di 142 milioni delle vecchie lire dal conto del correntista Carmine Novelli. Ad incastrare l’assassino sono state le impronte digitali trovate sul busotone di platica nel quale era stato messo il cadavere di Novelli abbandonato sul ciglio di una strada di Moio della Civitella, paesino della vicinanze di Vallo Ieri il pm Cardillo ha quindi chiesto l’ergastolo per l’imputato. Si torna in aula il 18 aprile prossime per le difese. Poi la sentenza attesta 15 anni dai faimiliari della vittima.
(nella foto da sinistra Pasquale Cammarosano e Carmine Novelli)
Salerno: assunzioni pilotate all’Università, indagato il sindacalista Passamano
Una gara d’appalto pilotata per favorire l’assunzione di amici e parenti: il fascicolo d’indagine sull’Università degli Studi di Salerno è il numero 1036/16 della Procura di Nocera Inferiore. La Procura ha iscritto, inizialmente otto persone, e oltre ai nomi del Rettore Aurelio Tommasetti e del direttore generale Attilio Maria Bianchi, figura quello del numero uno del sindacato Cisl, Pasquale Passamano. L’uomo, figlio dello storico Pietro Passamano al quale l’Università di Salerno, ha dedicato una piazza è accusato in concorso con i vertici dell’ateneo di abuso d’ufficio e falso. Ha fatto parte della commissione che ha deliberato l’avvio della gara d’appalto per la somministrazione di lavoro interinale presso le segreterie e le biblioteche dell’ateneo. Passamano, intervistato la scorsa settimana, aveva in qualche modo giustificato quella scelta sostenendo che nel 2014, vista la mancanza di rimesse da parte dello Stato per l’assunzione di personale, il consiglio di amministrazione era stato costretto ad indire la gara pubblica. Il sindacato Cisl, maggioritario se non monopolistico tra i dipendenti dell’Ateneo, secondo quanto accertato dalla Procura, avrebbe avallato le scelte amministrative riguardo la gara affidata alla Lavorint spa, la società interinale di Milano che ha avuto il compito – a partire dal 2014 – di somministrare personale interinale all’Ateneo. Ma proprio il sindacato, secondo quanto accertato fino ad ora dal nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri, avrebbe avuto un ruolo di primo piano all’interno delle vicende oggetto dell’indagine. L’avviso esplorativo della gara – poi affidata alla Lavorint – parte nel maggio del 2014, frutto di una delibera del consiglio di amministrazione dell’università. La procedura negoziata viene avviata con la pubblicazione sulla Gazzetta aste appalti pubblici il 4 giugno del 2014. Secondo l’ipotesi investigativa, i 15 addetti tecnico-amministrativi, assunti a tempo determinato, a partire dal 2014 attraverso le selezioni della società milanese sarebbero collegati a dipendenti dell’ateneo e a sindacalisti. Tra gli indagati figurano esponenti della Cisl. Sindacato, tra l’altro, che fino ad ora non ha mai eccepito nulla al rettore Tommasetti e alla direzione generale. A chiedere,con istanze formali, notizie e spiegazioni sull’appalto pubblico, costato 660mila euro, fu nel 2014 la Uil con una serie di richieste mai esaudite. L’elenco dei nomi dei lavori somministrati, con le relative mansioni alle quali erano stati adibiti, è rimasto lettera morta fino all’inizio dell’inchiesta, partita a gennaio di quest’anno dalla procura di Nocera Inferiore e coordinata dal procuratore capo, Amedeo Sessa. Proprio i 15 assunti a tempo determinato per un biennio, il cui contratto è stato rinnovato, sono stati ascoltati giovedì scorso dai carabinieri del Nucleo investigativo e da quelli della sezione di Pg del Tribunale. «Massimo rispetto per i colleghi delle altre sigle sindacali che hanno denunciato irregolarità – aveva detto Passamano nell’intervista della scorsa settimana – noi non abbiamo elementi tali da poter sostenere una cosa del genere. Ben venga che si faccia chiarezza». Ora, il nome del sindacalista figura nel fascicolo d’inchiesta aperto sulla gara d’appalto e su altre vicende amministrative dell’ateneo salernitano. La Cisl, secondo gli inquirenti, ma anche a detta dei “corvi” che hanno inondato di lettere anonime, dettagliatissime, la procura di Nocera Inferiore, avrebbe avuto un ruolo di primo piano, spartendosi – all’interno dell’ateneo – assunzioni e prebende. Naturalmente accuse che dovranno essere dimostrate dall’indagine in corso. (r.f.)
Giugliano: il clan Mallardo impose il pizzo anche per i lavori all’ospedale. Il Processo
Il clan Mallardo aveva imposto il pizzo su tutti i lavori edili edili del terrtitorio perfino alla ristrutturazione dell’ospedale San Giuliano. E’ quanto è emraso dal processo contro gli esattori del clan che si sta celebrando davanti al Tribuanle di Napoli e in cui oltre agli imprendtori taglieggiati ha parlato anche il pentito Giuliano Pirozzi. Tutti hanno confermate le accuse contro i tre imputati rimasti in vita dell’operazione Crash ovvero Mauro Moraca e Carlo Antonio D’Alterio, rispettivamente genero e nipote di Feliciano Mallardo ‘o sfregiato morto in carcere lo scorso anno, e Giuliano Amicone, braccio destro del boss. Nel corso del proceso i due imprenditori che hanno realizzato il complesso residenziale in via degli Innamorati hanno raccontato insieme con il pentito come furono costretti a pagare il pizzo di 115mila euro per la realizzazione dell’opera, composta da 12 appartamenti: 10mila euro per ogni appartamento realizzato. Somma pagata in tre rate da 75mila euro nel novembre 2009, 20mila euro nel dicembre 2009 e altri 20mila euro nel febbraio 2010. Per recuperare i soldi ver- sati nelle casse del clan, agli impren- ditori non restava altro da fare che au- mentare il costo per la vendita delle abitazioni, dopando il mercato immo- biliare nel Giuglianese dove i prezzi erano più alti rispetto ad altre zone. Vittima del racket anche un altro imprenditore che ha effettuato lavori di ristrutturazione all’interno dell’ospedale San Giuliano di Giugliano. La vittima fu costretta a sborsare la somma di 60mila euro, di cui 55mila per la costruzione di 12 unità immobiliari e 5 mila euro, appunto, per alcune ristrutturazioni edilizie eseguite presso l’ospedale di Giugliano, tra cui il reparto di Radiologia.
Terzigno, proteste per Cava Sar: 7 condanne e 12 assoluzioni
Sono arrivate le condanne per sette tra i rappresentanti dei comitati civici coinvolti nelle proteste di cinque anni fa contro la discarica di rifiuti (ex cava Sari) a Terzigno. Per tutti un anno e due mesi di carcere con pena sospesa. Sette le condanne, dodici le assoluzioni. E’ la decisione dei giudici della seconda sezione penale del Tribunale di Torre Annunziata (presidente Antonio Pepe) che si sono riservati 90 giorni di tempo per le motivazioni. In mattinata c’era stato un sit delle Mamme Vulcaniche al Tribunale che avevano mostrato la propria vicinanza ai rappresentanti dei comitati civici per una “lotta giusta contro i poteri forti”.
LE CONDANNE
Antonio Galasso un anno e 2 mesi;
Francesco Galasso un anno e 2 mesi;
Raffaele Galasso un anno e 2 mesi;
Mario Balzano un anno e 2 mesi;
Paolo Galasso un anno e 2 mesi;
Maria Rosaria Matrone un anno e 2 mesi;
Maria Bruno un anno e 2 mesi
GLI ASSOLTI
Teresa Grillo
Salvatore Grillo
Pasquale Colella
Salvatore Alasci
Francesco Galasso
Virginia Casillo
Luigi Casciello
Vincenzo landolo
Felice Di Matteo
Angelo Maria Genovese
Virginia Cirillo
Torre Annunziata: chiesti 41 anni di carcere per le donne del clan Gionta
La Dda ha chiesto 41 anni di carcere per le donne del clan Gionta. E’ stato il pm Claudio Siragusa a chiedere al gup del Tribunale di Napoli Paola Russo le condanne per Carmela Gionta Annunziata Caso, Gemma junior e Pasqualina Apuzzo. Sono tutte accusate di associazione di tipo mafioso, tentato omicidio, usura ed estorsione. Le richieste sono: 11 anni e quattro mesi di reclusione per Annunziata Caso; 10 anni e otto mesi per Gemma junior e Paqualina Apuzzo; 8 anni invece per Carmela Gionta, la sorella del super boss Valentino.La donna è accusata di associazione camorristica e usura per due prestiti elargiti a imprenditori in crisi di Torre Annunziata: uno di 10mila, l’altro di 15mila euro. Il tasso d’interesse variava tra l’8 e il 10%. Nunzia, Gemma junior e “Lina”, moglie, figlia e suocera del “boss poeta” Aldo Gionta (ora al 41-bis come suo padre) devono rispondere invece del tentato omicidio in concorso dell’anziana zia. Carmela Gionta di 7 1 anni che fu ferita in casa a Largo Grazie il 18 luglio con una coltellata sferratele al volto.
(nella foto a partire da sinistra Annunziata Caso, Pasqualina Apuzzo e Gemma junior, a destra
Carmela Gionta, sorella del superboss Valentino)
Castellammare: riaperte le indagini per il duplice omicidio del boss D’Antuono e Donnarumma. Sarà sentito il pentito Cavaliere
Torre del Greco , notificati gli avvisi di chiusura delle indagini per i fannulloni
Notificati gli avvisi di chiusura delle indagini preliminari per i tredici dipendenti del Comune di Torre del Greco finiti sotto la lente d’ingrandimento della Procura lo scorso autunno. Truffa aggravata ai danni del Comune e del Ministero dell’Interno, prestazioni di lavoro straordinario in occasione della tornata elettorale del mese di giugno del 2014, i reati di cui dovranno rispondere i presunti “fannulloni” in servizio al Comune di Torre del Greco anche loro come altri in altri posti del Bel Paese una volta arrivati in marcavano il badge sul lettore e se ne andavano in giro. Tra gli indagati la situazione più complicata è quella di Antonio Imparato, secondo le indagini svolte il funzionario responsabile del Ced avrebbe attestato falsamente lo straordinario elettorale .
Gli indagati sono :
ACCARDO Giovanni
Torre del Greco 25/09/56
– BELFIORE Ciro
Torre del Greco 14/06/55
– COLAMARINO Mario
Torre del Greco 12/09/50
– COLAMARINO Palmerino
Torre del Greco 24/10/64
– CORIGLIANO Amalia
Torre del Greco 13/10/59
– GENOVINO Catello
Castellammare 21/06/51
– IMPARATO Antonio
Gragnano 11/01/52
– MAGLIACANE Pasquale
Napoli 06/08/59
– MOLINARI Carmelo
Salerno 11/06/66
– PALOMBA Vincenzo
Torre del Greco 14/05/55
– PELELLA Pasquale
Afragola 01/01/54
– SORRENTINO Anna Giulia
Portici 28/09/61
– TODISCO Raffaele
Napoli 10/01/1
Nocera: per la morte in ospedale dell’anziana di Torre del Greco indagati anche i medici della clinica Maria Rosaria di Pompei
Una morte sospetta per la quale sono finiti nel registro degli indagati 28 medici di tre presidi, l’Umberto I di Nocera Inferiore, il Maresca di Torre del Greco e la clinica Maria Rosaria di Pompei. A morire il 9 marzo scorso, nel reparto di rianimazione dell’Umberto I è stata la signora Immacolata Saccone, 72 anni di Torre del Greco. Ieri mattina, il pm Mafalda Daria Cioncada ha affidato al medico legale Giovanni Zotti, l’incarico per effettuare l’autopsia sul corpo dell’anziana che ha avuto una complicata, quanto oscura storia clinica che l’ha portata alla morte. Tutto ha avuto inizio a novembre scorso con un intervento Ercp per l’asportazione di alcuni calcoli alla colecisti, effettuato presso la clinica Maria Rosaria di Pompei. Dopo l’intervento e un breve decorso operatorio l’anziana era stata dimessa. Ma qualcosa non era andato per il verso giusto e la signora, sposata e con sei figli, ha cominciato ad accusare i primi problemi pare si fosse formato una sorta di liquido intorno alla ferita. Per cui è stata ricoverata per ben due volte all’ospedale Maresca, senza risolvere il problema. A febbraio scorso, i familiari decidono di portarla nuovamente alla clinica Maria Rosaria dove è stata operata per accertare quale fosse l’origine di quei continui problemi. È proprio nella struttura privata pompeiana che Immacolata Saccone, già cardiopatica, ha avuto un arresto cardiaco, per cui i medici la intubano e la inviano nel presidio più vicino dotato di sala di rianimazione. Immacolata Saccone arriva all’Umberto I dove, ricoverata in rianimazione, si riprende dopo alcuni giorni tanto da essere trasferita nel reparto di Medicina e da lì in Chirurgia. Il 9 marzo scorso, la 72enne di Torre del Greco va nuovamente in arresto cardiaco e trasportata nuovamente in Rianimazione muore qualche ora dopo. A quel punto i familiari, il marito e i sei figli decidono di presentare un esposto per chiarire le cause della morte della loro congiunta. Inizia così il laborioso lavoro degli inquirenti per ricostruire la storia clinica della donna e acquisire le cartelle cliniche delle strutture dove la donna è stata ricoverata in questi cinque mesi. Il pm Mafalda Daria Cioncada ha iscritto nel registro degli indagati 28 medici, tutti quelli che nelle varie strutture e ognuno per le proprie mansioni hanno assistito la pensionata torrese. Gli avvisi di garanzia hanno colpito professionisti di Pagani, Nocera Inferiore, Salerno, Sant’Egidio del Monte Albino, Torre del Greco, Boscoreale, Pompei, San Giorgio a Cremano e Napoli. Ieri mattina, il medico legale Giovanni Zotti ha effettuato l’esame autoptico, riservandosi il deposito della perizia. Pare che dall’esame non siano emerse grosse criticità e responsabilità, si attendono gli esami tossicologici che potrebbero chiarire definitivamente le cause della morte della donna. A stroncare la vita della pensionata sicuramente è stato un arresto cardiaco, bisognerà chiarire se nelle lunghe degenze tra i vari ospedali i medici abbiano sottovalutato il malessere della donna, senza somministrarle le cure adeguate. Si attende l’esito dell’autopsia. (r.f.)
Calunniò l’ex capo della Mobile di Napoli, Vittorio Pisani: condannato l’ex boss, oggi pentito, Salvatore Lo Russo
Salvatore Lo Russo, ex boss della camorra poi collaboratore di giustizia, accusato di calunnia nei confronti di Vittorio Pisani, ex dirigente della Squadra Mobile di Napoli, del quale il boss era confidente, è stato condannato a due anni e tre mesi di reclusione. Lo Russo, 63 anni, è stato condannato dal tribunale di Benevento anche a risarcire il danno morale e materiale a Vittorio Pisani. L’ex boss dell’omonimo clan aveva dichiarato di aver elargito a Pisani, all’epoca dirigente della squadra mobile della questura di Napoli, 160 mila euro tra il 2005 e il 2007 in cambio di protezione per le sue attività illecite. Nella sentenza si rileva come la copiosa documentazione acquisita per il processo restituisce a Pisani “l’immagine di un funzionario di Polizia non solo onesto e fedele servitore dello Stato, ma anche capace e motivato nello svolgimento delle sue delicate funzioni”. “Pisani – scrivono i giudici – ha coltivato negli anni il rapporto confidenziale con Lo Russo in modo ovviamente riservato ma senza mai mancare di informare i suoi diretti superiori”. Inoltre, si sottolinea come Pisani negli anni “ha perseguito il clan ‘Lo Russo’ con efficacia e determinazione” e come la sua opera abbia portato “a rilevanti misure cautelari reali e personali contro il clan”. Ed è proprio nel desiderio di vendetta per le ordinanze di misura cautelare nei confronti di 54 appartenenti al suo clan, avvenute nel novembre 2010, che il giudice individua la motivazione della calunnia di Lo Russo nei confronti di Pisani, oltre che nel tentativo di non apparire un ‘traditore’, ma solo uno che stava adoperandosi per avere protezioni e coperture illecite.