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Camorra: ‘Papà è andato troppo in buona fede là’. Le intercettazioni choc sulla scomparsa del boss di Giugliano, Michele Di Biase

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Il boss scissionista di Giugliano Michele Di Biase “paparella”  sarebbe stato ucciso su ordine del boss Francesco Mallardo ma l’omicidio sarebbe stato eseguito dai “soci” dell’Alleanza di Secondigliano, quelli dell’Arenaccia del gruppo Contini-Bosti. E’ quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare che l’altro giorni ha colpito 13 persone del gruppo guidato da Aniello Di Biase, figlio del ras scomparso da due anni e il cui cadavere non è stato mai ritrovato. “Papà è andato troppo in buona fede là”, disse all’amico e socio Gennaro Catuogno“’o scoiattolo durante una conversazione intercettata. Ma dietro quell’omicidio che ha segnato l’inizio della scissione all’interno del clan Mallardo non ci sarebbe solo la decisione del gruppo Di Biase di non smettere di spacciare a Giugliano. Avrebbe avuto un peso anche il timore che “Paparella”, ras carismatico, potesse mettere in discussione la leadership del clan Mallardo. Lo scrive la Procura antimafia sulla base di una serie di intercettazioni ambientali all’interno dell’abitazione di Gennaro Catuogno “’o scoiattolo”, uno degli arrestati nel blitz. “Il fatto di papà te lo dico io… questo… di Ciccio l0 iniziò a temere un poco”, si sfogava Aniello Di Biase  senza sapere che era intercettato. Era il 3 febbraio 2016.
Scrive la Procura antimafia. “Gennaro Catuogno, Aniello Di Biase e Francesco Di Nardo discorrevano dei motivi che avevano determinato l’uccisione di
Michele Di Biase e dunque delle vicende all’origine della spaccatura interna al clan Mallardo. Dalla conversazione emergono riferimenti al ruolo che Francesco Mallardo  avrebbe avuto in relazione all’uccisione di Michele Di Biase detto “Paparella ”.
Aniello Di Biase: “Ci fece togliere la “roba” da mezzo a noi… Michele, diglielo ai ragazzi… là, se lo è faticato e noi… Francù ti sei dimenticato? Il primo giorno, dissi, questo ha fatto togliere tutta la “roba” da mezzo… si è preso, ha preso il tempo, un anno, due anni di roba. Lo iniziava a temere… perché se questo inizia… dice, quello che si è messo in testa”.
Gennaro Catuogno: “Allora che gli ho detto io”.
Aniello Di Biase: “Dice, se questo Michele si appara, lui e altri 3-4 di loro, dice, questo m’ stut’ a me”.
Michele Di Biase scomparve il 2 ottobre 2015. Quella sera partì da Giugliano, presumibilmente senza dire a nessuno dove andasse, e arrivò a via D’Avalos all’Arenaccia) a bordo di una Fiat “Panda” intestata al fratello, ma spesso nella sua disponibilità.I sicari lo affiancarono mentre era seduto al posto di guida, senza dargli il tempo di scendere lo centrarono alla testa. La polizia trovò molto sangue all’interno della macchina e un cappellino con visiera forato sul lato sinistro. Il finestrino, sempre dal lato guida, era infranto in due punti e i colpi avevano sforacchiato anche il vetro dall’altro lato. e. Nell’abitacolo c’era- no anche un paio di occhiali, anch’essi sporchi di sangue. Sotto il parasole, gli investigatori trovarono la sua patente di guida. L’ipotesi più accreditata è che gli assassini abbiano prelevato il cadavere dalla “Panda”, lo abbiano caricato e trasportato con una macchina rubata in una zona di campagna. Poi l’avrebbero sotterrato, anche se due affiliati al clan Mallardo intercettati facevano riferimento a dell’acido. Ma sarà lo sviluppo dell’inchiesta a chiarire questo mistero.

 

(nella foto da sinistra Nello Di Biase, il padre Michele e Gennaro Catuogno ‘ o scoiattolo)

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Cocaina nei doppi fondi dei tir: 3 secoli di carcere per i clan Gionta, Nuvoletta e Di Gioia. TUTTE LE CONDANNE

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Tre secoli circa di carcere sono stati inflitti dalla Corte d’Appello di Napoli ai 35 imputati dei tre clan della provincia di napoli che importavano dalla Colombia fiumi di droga in Italia. Aceavno creato un cartello criminale con il clan Gionta di Torre Annunziata che guidava l’import di cocaina insieme ai Di Gioia di Torre del Greco e Nuvoletta di Marano, con i quali organizzava le “puntate” e smistava enormi carichi di stupefacenti in tutte le piazze di spaccio
A capo del gruppo c’era Raffaele Sperandeo, cognato del boss Aldo Gionta. I carichi di droga viaggiavano a bordo di tir, grazie a doppifondi nei camion della ditta di Gaetano Antille, imprenditore condannato a 10 anni. La sua azienda è stata confiscata, insieme a terreni e abitazioni degli altri condannati, nonché ad alcuni locali (anche un bar a Napoli).
Poi c’era Salvatore Paduano, l’uomo chiave dell’inchiesta che per i pm riceveva sul telefonino (6 i numeri cambiati da Sperandeo e nel giro di poche settimane, secondo l’ordinanza che l’ha inchiodato) messaggi come…“I vestiti sono pronti e stirati”. Ed allora il camion poteva partire direzione Spagna, per fare il carico da smerciare tra Torre Annunziata, Torre del Greco e Marano.
Mentre Giuseppe Cirillo, 39 anni, era il “broker” della coca di Torre Annunziata (ritenuto vicino ai Gionta e noto col soprannome di “Peppe ’o caprone”.  il 29 ottobre 2014, Cirillo sfuggì al blitz dei carabinieri del nucleo investigativo di Torre Annunziata e di Napoli, che quel giorno sequestrarono 600 chili di cocaina purissima.
Droga nascosta nei doppi fondi di camion in viaggio sulle autostrade di mezza Europa. “Peppe ’o caprone” finì poi la sua corsa in Germania. Dei 35 imputati al processo  per 24 sono arrivate le conferme delle condanne di primo grado. Per altri 11 invece è arrivato lo sconto di pena.
Tra questi Gerardo Pinto, cantante di musica tradizionale napoletana allievo di Sergio Bruni, che si è visto dimezzare la pena – passando dai 6 anni inflitti dal gup Antonio Cairo in primo grado a 3- ed è tornato in libertà, avendo già espiato la pena. Per il 57enne, assistito dagli avvocati Elio D’Aquino e Pasquale Morra, è caduta l’aggravante di avere agevolato un clan di camorra.

TUTTE LE CONDANNE

GAETANO ANTILLE: 10 ANNI
ANIELLO BIANCO: 10 ANNI
ANTONINO BONURA: 6 ANNI
CATELLO BUONDONNO: 8 ANNI
ANTONIO CAPPUCCIO: 9 ANNI E 4 MESI
LUIGI CAROTENUTO: 4 ANNI
LUIGI CELLA: 16 ANNI
SALVATORE CELLA: 10 ANNI
PASQUALE CESARO: 16 ANNI E 8 MESI
SALVATORE CIOFFI: 6 ANNI E 8 MESI
GIUSEPPE CIRILLO: 16 ANNI E 8 MESI
FILIPPO CUOMO: 3 ANNI E 4 MESI (PENTITO)
ISIDORO DI GIOIA: 7 ANNI E 8 MESI (PENTITO)
VINCENZO GIANNETTI: 9 ANNI E 4 MESI
SALVATORE GIORDANO:3 ANNI E 4 MESI
FRANCESCO GIORGIO: 8 ANNI
GIUSEPPE GIORGIO:  8 ANNI
ANIELLO GIUGLIANO: 3 ANNI E 6 MESI
PASQUALE LA CAVA  8 ANNI
LUIGI MANCINI: 1 ANNO E 4 MESI
ANGELO MARIANI: 9 ANNI
LUIGI MASTELLONE: 18 ANNI E 8 MESI
CASTRESE NETTUNO: 9 ANNI
DANIELE NETTUNO: 10 ANNI
VINCENZO NETTUNO: 9 ANNI
ANTONIO NUVOLETTO: 16 ANNI E 8 MESI
OSCAR PECORELLI: 8 ANNI
GERARDO PINTO: 3 ANNI
ENRICO PIRO:  3 ANNI E 4 MESI
VINCENZO SANTILLO: 10 ANNI
VINCENZO SEVERINO:7 ANNI E 4 MESI
RAFFAELE SPERANDEO: 14 ANNI E 8 MESI
PASQUALE TAMMARO: 1 ANNO E 4 MESI
MARIO VERBO:4 ANNI
GIUSEPPE VITIELLO: 3 ANNI E 3 MESI (PENTITO)

 

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Fidanzati uccisi: ergastolo per Ruotolo, i genitori delle vittime: ”Fatta giustizia ma nessuno ci renderà i nostri figli”

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Testa china e occhi lucidi. Giosue’ Ruotolo, l’ex militare di 28 anni di Somma Vesuviana , ha ascoltato in piedi, in silenzio, al fianco dei suo avvocati, la lettura della sentenza con la quale la Corte d’assise di Udine lo ha condannato al carcere a vita. E’ lui, per i giudici friulani, il responsabile del duplice omicidio della coppia di fidanzati Trifone Ragone e Teresa Costanza, uccisi a colpi di pistola la sera del 17 marzo 2015, all’interno della loro Suzuki Alto, nel parcheggio del palazzetto dello Sport di Pordenone.
Sei colpi sparati a distanza ravvicinata dal killer che ha prima diretto l’arma contro il militare di Adelfia (Bari), 28 anni, mentre si stava sedendo sul sedile lato passeggero, e poi contro la sua fidanzata, 30 anni, assicuratrice milanese di origini siciliane, una laurea alla Bocconi in tasca, trasferitasi in Friuli per amore di Trifone. La Corte e’ arrivata al verdetto nel pomeriggio, dopo una camera di consiglio cominciata intorno alle 14.30 di lunedi’ e durata oltre due giorni, nella quale ha rimesso in fila la mole di documenti, indizi e testimonianze raccolte in 45 udienze dibattimentali.
“Ergastolo con isolamento diurno per due anni”, come aveva chiesto, al termine di undici ore di requisitoria, il 20 ottobre scorso, il pm Pier Umberto Vallerin che subito dopo la pronuncia ha espresso “un senso di soddisfazione professionale per il lavoro svolto” dalla Procura e dai Carabinieri di Pordenone. “Ma non di soddisfazione umana – ha subito precisato, ricordando che si tratta solo del primo grado di giudizio – Non possiamo essere felici per una sentenza che vede condannato all’ergastolo un ragazzo di neanche 30 anni per delitti che riguardano due persone offese praticamente coetanee. Ruotolo non va assolutamente “mostrificato”.
“Ho provato pena per lui – ha detto Eleonora Ferrante, la mamma di Trifone – Prima della lettura della sentenza avevo chiesto a Dio di darmi la forza di perdonarlo. Il Signore mi ha accontentato, mi ha fatto perdonare. Ero certa che avesse ucciso Trifone e Teresa ma non provavo piu’ odio. Ora siamo tranquilli perche’ e’ stata fatta giustizia umana ed e’ molto importante”.
“Abbiamo avuto giustizia ma nostra figlia non tornera’ mai. Non avremo mai pace. Un ergastolo non potra’ mai lenire il nostro dolore. Ma almeno sappiamo quello che e’ successo. E un assassino e’ in carcere”, hanno detto con un filo di voce anche i genitori di Teresa, papa’ Rosario e mamma Carmelina, che sente “sempre vicina” la sua Teresa. La Corte, che ha disposto la pubblicazione per estratto della sentenza mediante affissione nei comuni di Udine, Pordenone e Somma Vesuviana, ha condannato Giosue’ Ruotolo al risarcimento danni, riconoscendo provvisionali per oltre 700 mila euro complessivi ai familiari costituiti parte civile.
Una somma di 100 mila euro ciascuno ai genitori dei due ragazzi, 60 mila euro per la sorella minore di Trifone e 50 mila ciascuno per gli altri quattro fratelli di Teresa e Trifone, 30 mila euro per la nonna del militare pugliese e 15 mila per le sue due zie.

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Camorra a Giugliano, il ruolo del Liccardo negli affari dei Mallardo. LE INTERCETTAZIONI

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“Antimo Liccardo a Giugliano comanda più del sindaco”. Sono queste le pa­role di Giuliano Pirozzi, il pentito storico del clan Maliardo, che da anni sta svelando i segreti di una delle cosche più potenti della Campania. Liccardo, dipendente comunale e zio del consigliere comunale Paolo, indagato in questa inchiesta,”era espressione di Giuseppe e Francesco Mallardo e tutti lo sapevano, era al centro degli affari di specula­zioni edilizie alle quali il boss Maliardo era interessato”, ha raccontato Pirozzi. In una intercettazione ambientale del 30 settembre del 2014 tra il capoclan e un altro Liccardo, ovvero Paolo, imprenditore finito in carcere, che emerge con certezza as­soluta degli affari condotti dal­la cosca di Giugliano nel re­sto d’Italia. Oltre al boss erano presenti Maria Teresa Mallardo, Paolo Liccardo, il padre Mario Liccardo, socio della Valdarno Costruzioni.

Francesco: “Ora dico, non ti puoi imbriacare con questa qua”.
Paolo: “Eh, devo vedere chi sono e come possa fare tutto quanto, se ci interessa”.
Francesco: «Siccome dovreb­bero fare un grosso lavoro, a Lago Patria, dovrebbero realizzare novecento milioni di lavoro, qualcuno che”.
Paolo: “Ho capito, ho capi­to”.
Francesco: “Ma tu di Napoli, e questi qua non prendono niente impegni e questo si è stancato, vuole realizzare mil­ le cose, no gli ha dato la cosa in mano a questo qua per, sarebbero sicuro ingegneri”.
Liccardo sul momento non riusciva a capire di quale in­ vestimento si trattasse, ma do po aver finalmente compreso quale fosse l’opera da realiz­zare lo rassicurava, dicendo­ gli che avrebbe chiesto infor­mazioni per valutare il proprio ingresso nel gruppo di lavoro”.
Paolo: “Però io non ho capi­ to qual è l ’operazione. Ah, ho capito”.
Francesco: “Vedi se ti puoi in­ filare in mezzo, poi dopo in somma”.
Paolo: “Mi posso interessare, come devo dire, perché è una buona cosa”.
Francesco: “No, però vedi se ti puoi infilare”.
Paolo: “Sì, ho capito”.
Francesco: “Però penso che si svolga tutto ad inizio gen­naio”.
Eloquente poi è la domanda fatta da Paolo Licardo a Mal­lardo: “Tutto questo va sotto autorizzazione vostra? Perché io lo faccio già, praticamente questa agenzia qua sei, sette anni”.
Mallardo con riguardo alle difficoltà rappresentategli da Paolo Liccardo sugli effettivi ricavi delle operazioni di spe­culazione immobiliare, do­mandava allora allo stesso quali fossero i motivi per cui queste persone stavano por­tando avanti il progetto di La­go Patria. Mallardo aveva pe­rò informazioni che lui non possedeva e ha riferito che di trattava di 200mila metri qua­drati di terreno.

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Clan Mallardo, fondi neri in Toscana grazie a un socio del padre del sottosegretario Boschi

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La Toscana terra di conquista per il clan Mallardo non solo dal punto di vista imprenditoriale con una serie di investimenti immobiliari ma anche per ripulire attraverso il sistema bancario i soldi sporchi della camorra e della potente Alleanza di Secondigliano.
Ed ecco che dalle 798 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Claudia Picciotti che spunta fuori il nome di di Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, ex ministro e attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il banchiere è totalmente estraneo a qualsiasi ipotesi di accusa contenuta nell’inchiesta. Ma il suo nome è venuto fuori nel corso dell’indagine effettuata dagli agenti della sezione criminalità economica della squadra mobile di Firenze.
Gli esperti detective erano a caccia  di come e dove il boss avesse ripulito i milioni di euro guadagnati con traffici illeciti, si sono imbattuti compiendo accertamenti sui conti correnti di un imprenditore toscano, Mario Nocentini.
Due i conti correnti che hanno portato al padre del sottosegretario. Conti accesi presso la Banca del Valdarno. Uno è intestato a più soci, tra i quali Nocentini e Boschi. Un altro risulta intestato soltanto a Boschi e Nocentini. Il riferimento è a una vecchia società che risale a più di venti anni fa, a quando Pier Luigi Boschi era segretario della Coldiretti. Sotto i riflettori la società L’Orcio, che aveva richiesto un finanziamento per la realizzazione di un camping, opera che non fu poi attuata e per la quale è in atto la restituzione della somma.
I pm Ribera e Sasso del Verme, del pool antimafia guidato dall’aggiunto Giuseppe Borrelli, sono riusciti ad individuare un insospettabile imprenditore, Domenico Pirozzi (indagato), attraverso il quale il boss Mallardo ha investito ingenti capitali in Toscana, in particolare ad Arezzo.
E poi due società con sede a Figline Valdarno che secondo l’accusa £sono state create e stabilmente utilizzate per un decennio circa ai fini del riciclaggio e del reimpiego in attività economiche lecite di capitali provenienti dalle casse del clan”. Una delle società è la “Edil Europa 2 srl”.

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Napoli, il vigile urbano andava nella spa dell’Hotel Romeo e in cambio cancellava le multe alle auto del gruppo

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Un reticolato di epoca romana che era stato rinvenuto durante gli scavi in via di Ripetta a Roma, mentre era in corso la ristrutturazione di un immobile di pregio, Palazzo Cappone, sarebbe andato distrutto dopo l’intervento dell’imprenditore Alfredo Romeo, che avrebbe fatto certificare alla responsabile unica del procedimento la datazione del reperto al 1700. Da qui l’ipotesi di corruzione per Rossella Pesoli, funzionaria presso la Sovrintendenza archeologica e delle belle arti di Roma, in concorso con Romeo e con Ivan Russo, dirigente della Romeo.
La funzionaria avrebbe ricevuto un soggiorno presso l’Hotel Romeo per se’ e sua la figlia il 16 aprile del 2016 con percorso spa e cena in un ristorante di lusso, per un valore di 640 euro. E un altro soggiorno, questa volta ad Ischia, per lei e una sua amica per un valore di oltre 5mila euro.
A pagare il contro in entrambi i casi sarebbe stato Alfredo Romeo. Tra i vari capi di imputazione contestati ce n’e’ uno che riguarda un agente scelto della polizia municipale di Napoli che in cambio di multe cancellate o non contestate alle auto di Romeo e dei suoi dipendenti, si sarebbe fatto promettere un percorso spa presso l’Hotel Romeo, con uno sconto del 50 per cento.
Un altro dipendente del Comune di Napoli in cambio di un soggiorno in albergo, avrebbe fatto ottenere a Romeo l’autorizzazione ad installare fioriere davanti all’albergo. In un caso avrebbe anche attestato falsamente di aver ispezionato i dispositivi della struttura alberghiera.

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Corruzione al Cardarelli: Romeo mandò gli operai del Cardarelli a ristrutturare la casa del manager Verdoliva

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L’inchiesta per gli appalti Romeo – il filone napoletano, che non ha collegamenti con la vicenda Consip – riparte con 16 misure cautelari eseguite dai carabinieri del Comando provinciale. Una indagine che riporta agli arresti domiciliari l’imprenditore Alfredo Romeo, al quale sono contestati otto capi di imputazione, e che ripropone in un atto giudiziario l’esistenza del cosiddetto metodo Romeo che consiste, come sottolinea il gip Mario Morra nella sua ordinanza, nella “spregiudicata creazione di rapporti interpersonali, spesso di carattere corruttivo, con pubblici funzionari e rappresentanti delle istituzioni, al fine di aggiudicarsi appalti, superare disguidi o velocizzare procedure burocratiche”.
L’inchiesta chiama in causa anche il direttore generale del Cardarelli, Ciro Verdoliva, anch’egli destinatario di un provvedimento agli arresti domiciliari. Secondo l’accusa avrebbe ottenuto la consulenza gratuita di un architetto, al quale aveva conferito incarichi di consulenza, e utilizzato per lavori di ristrutturazione in un immobile di sua proprietà alcuni operai che venivano cosi’ ”sottratti” dall’ospedale Cardarelli, ospedale presso il quale avrebbero dovuto prestare la loro opera. L’immobile in questione è quello di via Serra a Napoli dove abita Verdoliva.
Secondo i carabinieri della seconda sezione che hanno condotto le indagini alcuni operai impegnati nei cantieri al Cardarelli e quindi pagati con soldi pubblici, sarebbero stati impegnati per la esecuzione della ristrutturazione delle parti del condominio di via Serra in cui abita lo stesso Verdoliva. Originario di Gragnano, il papà è stato per oltre venti anni comandante dei vigili nel comune di residenza, è molto conosciuto e stimato nella zona.
E’ passato per tutte le stagioni politiche: da Bassolino, a Caldoro e ora con De Luca che lo ha consacrato all’opinione pubblica come un “manager del fare” e grazie al quale è stato finalmente aperto l’Ospedale del Mare. L’inchiesta parte sempre da Alfredo Romeo e dagli appalti delle pulizie negli ospedali napoletani. La Procura scopre che Romeo avrebbe pagato lo stipendio ad Antonio Montepiccolo, genero di Giuseppe Lo Russo, uno dei fratelli del famoso clan di Miano a non essersi pentito nonostante sia da anni in carcere.
Scrivono gli inquirenti nella loro richiesta di misura cautelare: “Verdoliva avrebbe fornito sistematiche e consapevoli coperture ogni volta che le suindicate gravi e preordinate inadempienze venivano portate alla loro attenzione, nonostante le specifiche segnalazioni della dottoressa Romano”.  Verdoliva non sono non avrebbe preso i dovuti interventi. Anzi: “Avrebbe dissimulato dolosamente il mancato rispetto delle prescrizioni dell’offerta tecnica presentata in sede di gara”.
Verdoliva si è sempre difeso e ricorda di aver sempre segnalato anomalie o punti critici, sempre nell’interesse della pubblica amministrazione. Poi c’è il capitolo dei rapporti tra Verdoliva e l’architetto Sergio Rosanova (professionista ovviamente estraneo alle indagini). Verdoliva avrebbe ottenuto un aiuto dal professionista per alcuni interventi nella propria abitazione. L’architetto figurava anche come consulente esterno (un incarico da 59mila euro) dello stesso Cardarelli.
Poi ci sono i rapporti con Attilio Coppola. Verdoliva viene inquadrato come direttore dell’ufficio tecnico e dell’ufficio economato del Cardarelli e come responsabile unico della gara per l’aggiudicazione del servizio di supporto ingegneristico, che verrà aggiudicato alla Hospital consulting (siamo nel 2014). Secondo le accuse avrebbe “fatto intendere ad Attilio Coppola, in modo chiaro e inequivocabile, di aver favorito la Hospital consulting nell’appalto (ma anche in altre convenzioni presso la Asl Napoli uno) che da lui e solo da lui dipendeva la gestione del medesimo appalto. Avrebbe indotto il medesimo Coppola ad attivarsi perché un terzo soggetto venisse assunto nell’ambito di un’altra commessa relativa ad un appalto pubblico assegnato dalla Asl di Caserta l’undici luglio del 2016. In questo caso – scrive il gip – l’assunzione sarebbe stata realmente effettuata”.
E infine i rapporti i rapporti con alcuni esponenti delle forze dell’ordine. Secondo alcune intercettazioni ambientali effettuate nell’ufficio di Verdoliva aveva rapporti con il finanziere Gennaro Silvestro (colpito da interdizione dal servizio) il quale avrebbe consigliato a Verdoliva di “tenere l’orecchio per terra” di fronte a indagini della Procura di Napoli sul Cardarelli, in cambio dell’assunzione (solo promessa e non portata a termine) di una persona segnalata da militare nella avveniristica struttura dell’Ospedale del Mare.

 

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Camorra, sequestrati in Toscana i beni del boss latitante Vincenzo Ascione

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La Direzione Investigativa Antimafia di Firenze ha sequestrato beni per un valore complessivo di 2 milioni di euro nei confronti del latitante pluripregiudicato Vincenzo Ascione detto “Babbalaccone”, 62enne di Torre del Greco , referente in Toscana, ed in particolare nella provincia di Prato, del noto clan camorristico Birra-Iacomino.
Il provvedimento, emesso su proposta del Direttore della Dia dal Tribunale di Prato e sostenuto in dibattimento dapm Angela Pietroiusti della Dda di Firenze, scaturisce da complesse investigazioni economico-finanziarie, le quali hanno evidenziato una netta sproporzione tra l’ingente patrimonio accumulato, tra il 1996 e il 2012, da Ascione e dai suoi prossimi congiunti (ritenuto il frutto o comunque il reimpiego di proventi di attività illecite), rispetto alla capacità reddituale dichiarata dagli stessi, che non sarebbe stata sufficiente nemmeno a sostenere le spese necessarie per il vivere quotidiano (base dati Istat). Il destinatario del provvedimento è tuttora ricercato, in virtù di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP del Tribunale di Firenze nel 2013, per i reati di tentata estorsione ed usura in concorso, commessi dal 2008 al 2013, in danno di commercianti pratesi, che gestivano attività commerciali in provincia di Pistoia. Nella citata ordinanza si legge che i reati in questione risultavano aggravati dal metodo mafioso, nella fattispecie perpetrati “intimorendo la persona offesa e i familiari mediante l’uso di linguaggio simbolico e creando così negli stessi condizione di paura e omertà?”. Ascione risulta, inoltre, gravato da numerosi precedenti giudiziari: nel 1980 è stato condannato dal Tribunale di Napoli per contrabbando e dalla Corte d’Appello dello stesso capoluogo per induzione e sfruttamento della prostituzione; nel 2006 è stato condannato dal Tribunale di Prato per violazione delle norme relative alla sicurezza ed alla salute dei lavoratori; nel 2010 è stato condannato dalla Corte d’Appello di Firenze per ricettazione. In ultimo, nel 2011, è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Prato per il reato di estorsione aggravata dall’utilizzo del “metodo mafioso”. Anche alla luce di questo Sezione Misure di Prevenzione, accogliendo l’impianto formulato dalla D.I.A., ha disposto il sequestro, finalizzato alla confisca, di tre immobili ubicati a Prato, di due terreni siti nel comune di Vaiano (Po), di due società con sedi a Prato e Montemurlo (PO) – intestatarie, tra l’altro, di due immobili in provincia di Prato e Pistoia – di due autovetture, nonché di numerosi conti bancari e altre disponibilità finanziarie. Nella circostanza il Tribunale di Prato ha irrogato, altresì, a carico di Vincenzo Ascione la misura di prevenzione personale della Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza per la durata di un anno e sei mesi.

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Duplice omicidio Sebastiano-Bellofiore a Pozzuoli, dopo 21 anni arrestati i quattro responsabili dei clan Longobardi-Beneduce e Del Bivio

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Pozzuoli. Duplice omicidio di Domenico Sebastiano e Raffaele Bellofiore: arrestati quattro capiclan delle cosche Longobardi-Beneduce e Del Bivio. Un gruppo di fuoco con due boss per uccidere altri due boss. E’ la ricostruzione del duplice omicidio avvenuto nel 1997 arrivata dopo indagini dei carabinieri che hanno ricostruito la genesi e l’esecuzione di Domenico Sebastiano e Raffaele Bellofiore, a capo dell’omonimo clan, commesso il 19 giugno di vent’anni fa a Pozzuoli, nel Napoletano, all’interno del rione Toiano. A sparare, oltre a due sicari, i due capo clan dei Longobardi-Beneduce insieme a due elementi del gruppo di camorra Del Bivio. Il contrasto tra le due cosche aveva come obiettivo il controllo totale dei traffici di droga e delle estorsioni nell’area flegrea. Tutte e quattro le misure cautelari sono state notificate in carcere agli indagini, già detenuti. Per quell’omicidio, il gruppo di fuoco arrivò a bordo di un furgone rubato davanti a un bar del rione, i sicari scesero armati di fucile a canne mozze e spararono diverse volte ai loro obiettivi, che avevano tentato invano la fuga tra le colonne di un porticato. Alle indagini, hanno contribuito anche le dichiarazioni di collaboratori di giustizia che hanno militato in entrambe le consorterie, passando dai Sebastiano-Bellofiore ai Longobardi-Beneduce in ossequio alla logica del “transito imposto ai vinti”.

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Furti tra San’Antonio Abate e Vico Equense: i carabinieri arrestano due uomini di San Giorgio a Cremano

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Sant’Antonio Abate. I Carabinieri della Stazione di Sant’Antonio Abate hanno dato esecuzione a San Giorgio a Cremano a un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP di Torre Annunziata a carico di 2 soggetti responsabili di 2 furti aggravati e di un tentato furto. Nel corso di indagini coordinate dalla Procura di Torre Annunziata e basate su estrapolazione e analisi di immagini di circuiti di videosorveglianza, conseguenti individuazioni fotografiche e dichiarazioni delle vittime e di testimoni, i Carabinieri hanno raccolto gravi indizi di colpevolezza a carico dei 2 persone di San Giorgio a Cremano che la mattina del 30 gennaio si erano resi responsabili del furto di utensili per l’edilizia da una abitazione di Vico Equense e il 27 giugno del furto dello stesso tipo di materiale, portandolo via dopo effrazione da un autocarro parcheggiato a Sant’Antonio Abate. È stato inoltre accertato che il 17 giugno, sempre a Sant’Antonio Abate, avevano tentato un furto su altro veicolo commerciale, forzandolo ma senza riuscire nell’intento. Entrambi sono stati portati nella Casa Circondariale di Poggioreale.

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Evasione fiscale, sequestro per un’azienda di automobili in provincia di Caserta

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Caserta. Maxi evasione fiscale: sequestro per 250mila euro per un’azienda di commercio di autovetture e veicoli leggeri. Il Nucleo di Polizia Tributaria di Caserta ha eseguito un decreto di sequestro preventivo, per un valore complessivo di 250.000 euro, emesso dal G.I.P. del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, su richiesta della Procura. II sequestro è stato eseguito su disponibilità finanziarie della società per azioni “AMICA”(attualmente fusa per incorporazione nella società “QUADRIFOGLIO” S.r.l.), con sede in provincia di Caserta, nonché il patrimonio del relativo rappresentante legale, Giovanni Palmesano. L’adozione della misura cautelare reale è intervenuta a seguito dell’esecuzione di specifiche indagini effettuate dalla Guardia di Finanza, che hanno consentito di accertare che la società aveva omesso il prescritto versamento all’Erario di Iva per l’anno d’imposta 2013, realizzando così un’ingente evasione fiscale.
Considerato l’elevato valore indiziario degli elementi raccolti nel corso dell’attività d’indagine, questa Procura -in virtù della normativa che prevede la possibilità di applicazione della “-confisca per valori equivalenti” – ha avanzato richiesta di sequestro, al fine di inibire il consolidamento del vantaggio economico derivante dall’evasione e la conseguente reimmissione nel mercato di capitali illeciti.
Il G.I.P., aderendo alla predetta richiesta, ha disposto il sequestro preventivo delle disponibilità liquide della società e, per equivalente, dei beni nella disponibilità del suo amministratore. Pertanto, sulla base di tale provvedimento cautelare, il Nucleo di Polizia Tributaria di Caserta ha
sequestrato beni immobili, rapporti finanziari e quote societarie per un valore di circa 250.000 euro. Gli esiti dell’indagine costituiscono un’ulteriore testimonianza del costante presidio economico-fìnanziario esercitato dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, in stretta sinergia con il Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Casetta, per la repressione del grave fenomeno dell’evasione fiscale, a tutela dei cittadini e degli imprenditori rispettosi delle regole, onde assicurare l’equità sociale quale condizione fondamentale del benessere della collettività.

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Camorra a Giugliano, il boss voleva ‘zittire’ il pentito Pirozzi. LE INTERCETTAZIONI

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Voleva zittire il pentito che lo stava accusando. Francesco Mallardo, boss di Giugliano e uomo del vertice della potente Alleanza di Secondigliano, aveva deciso di chiudere la bocca al collababoratore di giustizia Giuliano Pirozzi. L’inquietante retroscena è contenuto nelle circa 800 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare emesse dalla Dda di Napoli che l’altro giorno ha fatto finire in carcere una ventina tra boss, affiliati e colletti bianchi della cosca.
In una conversazione intercettata il 7 settembre del 2014 nella casa di Sulmona dove il boss scontava gli arresti domiciliari mentre discute di affari con la moglie Anna Aieta. Parla del pentito:
“E comunque, però, io glielo spiegai… dissi, questo (Pirozzi) fa le dichiarazioni là… questo qua per dire la prendono… insomma, come… lo abbiamo minacciato. Dissi, noi una cosa che per dire… a vedere i figli di questo che vogliono fare… che quando questo, per dire, va a prendere i figli… una cosa, lo chiamano e dicono ‘scornacchiato, per prima cosa vedi che devi combinare qui’ , ma sempre sotto il fattore che questo ha accusato gente innocente, che non conosce proprio. Questo è quello… no, che per dire che lo mando a minacciare perché deve tornare indietro… no, perché sta facendo un sacco di calunnie”.

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Fidanzati uccisi, il difensore di Ruotolo: ”Vive la disperazione degli innocenti”

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“E’ la disperazione di una persona che si e’ sempre proclamata innocente, ma che e’ anche consapevole che in questo momento bisogna combattere per far emergere una verita’ che e’ alternativa rispetto a quella indicata dalla Corte d’Assise di Udine”.
Lo afferma l’avvocato Roberto Rigoni Stern, uno dei difensori di Giosue’ Ruotolo assieme al collega Giuseppe Esposito, riferendosi allo stato d’animo del giovane di Somma Vesuviana all’indomani della condanna all’ergastolo emessa nei suoi confronti dalla Corte d’Assise di Udine per il duplice omicidio di Trifone Ragone e della fidanzata Teresa Costanza. Ruotolo aveva atteso la decisione della Corte con la “speranza – spiega Rigoni Stern – di uscire da fatti di questo tipo laddove si parla di un omicidio indiziario e laddove gli elementi in possesso della Corte non erano cosi’ dirimenti, a nostro avviso, da pronunciare una condanna netta, soprattutto per quanto riguarda il movente”.
I legali, che nei prossimi giorni torneranno a trovare Ruotolo, si dicono “curiosi di leggere le motivazioni e da queste cercheremo di capire come la Corte si sia formata un tale convincimento sulla responsabilita’ di Ruotolo”.

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Camorra, gli assassini di Genny Cesarano confessano in aula: ”Siamo stati noi”

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“Siamo stati noi, confessiamo di aver partecipato all’omicidio di Genny Cesarano”. Sono racchiuse in queste poche parole le ammissioni di due dei quattro killer che la notte del 6 settembre del 2015 uccisero il 17 enne del rione Sanita’ a Napoli sparando a un gruppo di persone.
Un raid armato voluto da Carlo Lo Russo, ex boss del quartiere di Miano ora pentito che in uno dei suoi primi verbali aveva fatto riferimento alla ‘stesa’ che aveva ordinato per punire un affronto del capoclan nemico Pietro Esposito – poi ucciso l’anno successivo – che aveva osato far sparare colpi di pistola nel suo quartier generale al rione don Guanella.
Questa mattina, prima delle discussioni degli avvocati difensori, due imputati hanno preso parola: Luigi Cutarelli, ventenne che ha gia’ un ergastolo alle spalle, e Mariano Torre, anch’egli con una condanna al carcere a vita. Hanno ammesso di aver partecipato all’omicidio costato la vita al ragazzo colpito da un proiettile vagante mentre provava a scappare.
Nella scorsa udienza Ciro Perfetto, altro imputato, aveva inviato una lettera alla famiglia di Genny chiedendo perdono per quello che aveva fatto quella notte. Alla sbarra ancora Antonio Buono che per ora non ha deciso di confessare. Il pm Enrica Parascandolo nella scorsa udienza aveva chiesto per tutti la pena dell’ergastolo tranne che per Carlo Lo Russo, che da pentito, gode delle attenuanti con una richiesta a sedici anni. La sentenza e’ prevista per fine mese.

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Torre Annunziata, tentò di uccidere lo zio materno: processo immediato per il figlio del boss

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La Procura di Torre Annunziata ha chiesto il giudizio immediato per Raffaele Gallo, 18 an­ni, detto Lello ’o pisiello, e il suo complicE Vincenzo Falanga, 19 anni, alias ’o gemello. Sono accusati di tentato omicidio e porto abusivo di arma da fuoco. Gallo è il figlio del boss Francesco ‘o pisiello al 41 bis da alcuni anni e famoso perché insieme con i genitori fece un’estorsione ai vertici di Cattleya che utilizzarono la sua sfarzosa villa al parco Penniniello di Torre Annunziata per girare numerose puntata della prima serie di Gomorra.
Secondo le accuse lo scorso 27 gennaio Gallo junior insieme con il complice in via Cuparella esplose diversi colpi d’arma da fuoco contro una Mercedes Classe B a bordo della quale c’erano lo zio di Gallo junior, l’incensurato Salvatore lovene di 31 anni, e un giovane di 19 anni, Vittorio Nappi.
Quest’ultimo rimase gravemente ferito al torace. “Se avessi voluto ucciderlo, sarei tornato indietro e avrei sparato ancora”, senza timori. Come un boss in carriera Raffaele Gallo “pisiello”, parlava al telefono con la nonna senza sapere di essere intercettato e spiegava il mancato agguato allo zio Salvatore Iovene.  Gallo junior voleva vendicare l’onta che la madre aveva arrecato al clan guidato dal padre allacciando una relazione extraconiugale con un elemento di spicco di un gruppo camorristico avversario, i Gionta e per questo che aveva tentato di uccidere lo zio materno.
Una vendetta trasversale per “punire” la madre che non solo si era permessa di lasciare il padre, il boss Franco Gallo. La madre si era legata sentimentalmente con il figlio dell’ergastolano Umberto Onda, uno dei killer più spietati del clan Gionta e per un periodo reggente dei “Valentini”.
I due hanno lasciato da tempo Torre Annunziata perché la donna aveva paura che il figlio potesse ucciderla.

 

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Colpo di scena al processo, il boss Cimmino: ”Mi dissocio dalla camorra”

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Come si ricorderà, all’esito del giudizio di primo grado la Procura Distrettuale Antimafia aveva chiesto al G.u.p. presso il Tribunale di Napoli di infliggere al boss Luigi Cimmino, accusato di aver ricostituito il clan che porta il suo nome, la pesante condanna ad anni 18 di reclusione per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, due episodi di estorsione ed un reato di falso afferente ad alcune certificazione mediche di cui avrebbe beneficiato il boss per ritornare a Napoli durante il periodo di libertà vigliata con obbligo di dimora in Cassino.
Ma, in accoglimento di alcune questioni di diritto e di fatto prospettate dall’ avvocato Dario Vannetiello del Foro di Napoli, Cimmino fu assolto da uno dei due episodi di estorsione e riportò la mite condanna totale per anni 7 di reclusione per ben tre gravi reati di cui fu ritenuto responsabile.
Eppure Cimmino aveva la qualità di promotore ed organizzatore del gruppo mafioso nonché l’essere soggetto recidivo per essere stato in passato già per ben due volte condannato per associazione camorristica.
Puntuale l’impugnazione proposta dal P.M. della direzione distrettuale antimafia considerata la notevole differenza tra quanto chiesto e quanto irrogato con la sentenza emessa il 12 ottobre 2016 dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Napoli, dott. Umberto Lucarelli, oltre a dolersi della mancata applicazione dell’aumento della pena per la recidiva, pure di spessore.
Nel giudizio di appello, la tesi della Antimafia è stata condivisa e portata avanti in pieno dalla Procura Generale presso la Corte di appello che ha chiesto ai giudici di aumentare ad anni 18 al Cimmino, mentre ha chiesto di confermare la pena inflitta in primo grado a Palma Pasquale (anni 4 e mesi 8), Ferrante Pellegrino ( anni 5 e mesi 4) Montalbano Raffale (anni 5 e mesi 4) e Festa Luigi (anni 6).
Successivamente al pesante inasprimento della pena formulata dal Procuratore Generale, Cimmino ha avvertito la necessità di far sentire la propria voce.
Nel processo di appello che si sta svolgendo innanzi alla terza sezione della Corte di Appello di Napoli, presieduta dal dott. Carbone, Cimmino Luigi ha chiesto alla Corte di rendere dichiarazioni.
Collegato in videoconferenza dal carcere di Milano “Opera” in quanto detenuto in regime di carcere duro, con tono educato ma deciso ha tenuto immediatamente a precisare di essere dissociato dal crimine.
Una valanga di parole, le sue.
Determinato a cambiare vita, ha riferito di aver da anni deciso di trapiantare la sua vita altrove, lontano dalla città di Napoli, ove è ritornato solo in occasione della nascita del nipotino.
Colui che è stato più volte condannato per essere un camorrista di vertice ha tenuto a sottolineare che il clan Cimmino non esiste più, debellato dalle forze di polizia nel lontano anno 2001, oltre ad essere stato soppiantato dall’avvento di altri nuovi gruppi che hanno messo radici in quel quartiere chic della città, come dimostrato dalle inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia che sono sfociate in tre blitz che hanno portato all’arresto di persone che con il clan Cimmino non hanno mai avuto nulla a che fare.
Il veterano ha ulteriormente spiegato ai giudici che un dissociato in quanto tale è oramai spogliato di caratura criminale e di credibilità, spiegando che per tali ragioni non potrebbe più né di ricompattare il clan, né avere rapporti con soggetti orbitanti nella malavita.
Ribadendo alla Corte di appello di essere un uomo “illibato”, mai fermato con pregiudicati, a riprova della sua redenzione, Cimmino ha rappresentato ai giudici che, nonostante ci fosse stata la richiesta di aggravamento della misura di libertà vigilata, la difesa solo qualche anno orsono riuscì a far dichiarare persino a far dichiarare cessata la sua pericolosità, revocando nei suoi confronti la misura di sicurezza cui era sottoposto.
Indubbiamente, le sue parole sono state ascoltate in aula con la dovuta attenzione, sia per la caratura del personaggio, sia per la pertinenza delle sue dichiarazioni rispetto ai fatti di cui è causa, sia per il tono calibrato con il quale sono state pronunziate, senza neppure alcuna sbavatura linguistica.
La prossima udienza è fissata per il giorno 20 novembre ove è prevista la discussione dell’avv. Riccardo Ferone in difesa di Montalbano.
La conclusione del processo di appello è prevista per il giorno 11 dicembre ove termineranno le conclusioni dei difensori, momento nel quale, tra l’altro, si stabilirà se e di quanto la pena inflitta al Cimmino dovrà essere aumentata.
Ma impegneranno non poco l’Autorità Giudiziaria i consistenti atti di impugnazione proposti dalla difesa, la quale chiede la piena assoluzione di chi ritiene non essere più un boss, oltre a proporre sottili questioni giuridiche per cercare di contrastare e compensare l’ articolata impugnazione proposta dalla direzione distrettuale antimafia.
Si intuisce che l’accusa ha molte ragioni a sostegno dell’essere inadeguata per difetto la pena inflitta a chi ha contribuito a scrivere gli ultimi 30 anni di camorra nella città di Napoli, se sol si pensi all’omicidio di Silvia Ruotolo e le ragioni che lo provocarono di cui giustamente si sono occupati per anni le cronache nazionali

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Assolto dall’accusa di omicidio non può lasciare il carcere: non c’è posto nel centro di cura

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Scafati. Assolto dall’accusa di omicidio volontario perché incapace di intendere e di volere ma da 15 giorni circa è ancora rinchiuso nel carcere di Poggioreale.
La corte d’Assise di Salerno aveva assolto Pasquale Balzano dall’accusa di omicidio volontario, l’uomo aveva infatti ucciso a colpi di fobici un suo amico e il socio Giuseppe Desiderio. In primo grado ebbe una condanna a venti anni ma, da una nuova perizia disposta dal tribunale, aveva dimostrato di essere incapace di intendere e di volere durante i fatti.
La stesa corte nella sentenza aveva richiesto l’automatica scarcerazione per un successivo trasferimento verso un centro di cura per la durata di 10 anni. Tutto questo, a 15 giorni dell’emissione della sentenza, non è ancora avvenuto. La perizia parò di una patologia “tale da condizionare scivolamenti psicotici acuti in grado di far scemare fino ad annullarla la capacità di intendere e di volere”.
La vittima fu colpita da Balzano dopo un litigio. A ritrovare l’assassino furono i carabinieri di scafati che arrestarono l’uomo a Pompei mentre era a casa di un amico.

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Il boss pentito ai killer di Genny: ”Non vi avevo ordinato una stesa, ma l’omicidio di Pierino Esposito”

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Ora il boss pentito Carlo Lo Russo ultimo reggente dei famigerati “Capitoni”  di Miano ha paura per i suoi familiari rimasti in giro nel quartiere a Nord di Napoli e senza protezione. Lo scritto in una lettera consegnata ieri durante l’ennesima udienza del processo per l’omicidio della vittima innocente Genny Cesarano avvenuto nel settembre del 2015 al rione Sanità.
L’ex padrino (la lettera non è stata fatta leggere in aula) avrebbe spiegato che in pericolo ci sono le sue figlie e per i generi e avere motivi per credere che possano ricevere minacce o ritorsioni. Ha fatto anche i nomi di chi potrebbe mettere in atto una vendetta contro la sua decisione di collaborare con la giustizia.
Prima di lui avevano parlato il suo killer prediletto Luigi Cutarelli, dalla cui pistola partirono i colpi mortali che uccisero Genny Cesarano. Ha ammesso le sue colpe, così come fece gli omicidi di Pasquale Izzi e del boss Pierino Esposito, sperando di non ricevere la terza condanna all’ergastolo. “Carlo Lo Russo per me era come un re. Eseguivo tutti i suoi ordini.
Quella notte facemmo una stesa, non doveva succedere, non doveva morire quel ragazzo. Spero che un giorno possiate perdonarmi” ha aggiunto, rivolgendo lo sguardo verso il papà di Genny. Anche Mariano Torre altro killer del gruppo ha ammesso le sue colpe raccontando di aver agito soggiogato dal carisma criminale dell’allora boss Lo Russo e per il timore di quel che sarebbe potuto accadergli se avesse rifiutato di obbedire alle disposizioni date dal capoclan. Anche lui ha invocato il perdono per l’omicidio di Genny, un innocente.
Poi ha preso la parola l’ex boss  pentito Carlo Lo Russo che ha quasi ammonito i suoi ex fedelissimi: “Non vi avevo ordinato una stesa, avevo ordinato l’omicidio di Esposito”, ha detto con voce forte e decisa. E nell’aula è calato il silenzio. Poi ha consegnato la lettera ai giudici.
La pm della Dda Enrica Parascandolo nella scorsa udienza aveva chiesto l’ergastolo per Luigi Cutarelli, Antonio Buono, Ciro Perfetto e Mariano Torre, mentre 16 anni e’ la richiesta nei confronti di Carlo Lo Russo, che ha collaborato con gli inquirenti. Il processo si svolge con rito abbreviato davanti al gup Alberto Vecchione.

 

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Napoli, cittadinanze false per i calciatori brasiliani: 4 misure cautelari

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Figurano anche giocatori di calcio che militano in divisioni professionistiche del calcio italiano, francese e portoghese, tra i 300 brasiliani che dietro compenso, grazie un giro di pratiche false, sono riusciti a ottenere la cittadinanza italiana in virtu’ dello ius sanguinis, senza pero’ avere i requisiti previsti dalla Legge.
Oggi, i carabinieri di Castello di Cisterna hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP di Nola – divieti di dimora e di frequentare pubblici uffici a Brusciano a carico di quattro indagati tra cui il responsabile dell’Ufficio di Stato Civile di un Comune del napoletano e il titolare di un’agenzia di disbrigo pratiche amministrative.
Sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di corruzione, falsita’ ideologica e materiale commessa da Pubblico Ufficiale in atti pubblici e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Con questo sistema i calciatori “carioca” sono riusciti ad aggirare i vincoli di tesseramento previsti dalle normative.
I provvedimenti notificati oggi dai militari di Somma Vesuviana, emessi dal gip di Nola su richiesta della locale Procura, sono da mettere in relazione con una piu’ ampia operazione che i carabinieri hanno eseguito lo scorso 7 aprile, sempre nel Napoletano. Uno dei calciatori, Gabriel Boschilia, ha anche militato nel Monaco (Ligue 1 francese), altri nei campionati di serie A e B di futsal (calcio a 5) italiani.

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Camorra: ‘Papà è andato troppo in buona fede là’. Le intercettazioni choc sulla scomparsa del boss di Giugliano, Michele Di Biase

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Il boss scissionista di Giugliano Michele Di Biase “paparella”  sarebbe stato ucciso su ordine del boss Francesco Mallardo ma l’omicidio sarebbe stato eseguito dai “soci” dell’Alleanza di Secondigliano, quelli dell’Arenaccia del gruppo Contini-Bosti. E’ quanto emerge dall’ordinanza di custodia cautelare che l’altro giorni ha colpito 13 persone del gruppo guidato da Aniello Di Biase, figlio del ras scomparso da due anni e il cui cadavere non è stato mai ritrovato. “Papà è andato troppo in buona fede là”, disse all’amico e socio Gennaro Catuogno“’o scoiattolo durante una conversazione intercettata. Ma dietro quell’omicidio che ha segnato l’inizio della scissione all’interno del clan Mallardo non ci sarebbe solo la decisione del gruppo Di Biase di non smettere di spacciare a Giugliano. Avrebbe avuto un peso anche il timore che “Paparella”, ras carismatico, potesse mettere in discussione la leadership del clan Mallardo. Lo scrive la Procura antimafia sulla base di una serie di intercettazioni ambientali all’interno dell’abitazione di Gennaro Catuogno “’o scoiattolo”, uno degli arrestati nel blitz. “Il fatto di papà te lo dico io… questo… di Ciccio l0 iniziò a temere un poco”, si sfogava Aniello Di Biase  senza sapere che era intercettato. Era il 3 febbraio 2016.
Scrive la Procura antimafia. “Gennaro Catuogno, Aniello Di Biase e Francesco Di Nardo discorrevano dei motivi che avevano determinato l’uccisione di
Michele Di Biase e dunque delle vicende all’origine della spaccatura interna al clan Mallardo. Dalla conversazione emergono riferimenti al ruolo che Francesco Mallardo  avrebbe avuto in relazione all’uccisione di Michele Di Biase detto “Paparella ”.
Aniello Di Biase: “Ci fece togliere la “roba” da mezzo a noi… Michele, diglielo ai ragazzi… là, se lo è faticato e noi… Francù ti sei dimenticato? Il primo giorno, dissi, questo ha fatto togliere tutta la “roba” da mezzo… si è preso, ha preso il tempo, un anno, due anni di roba. Lo iniziava a temere… perché se questo inizia… dice, quello che si è messo in testa”.
Gennaro Catuogno: “Allora che gli ho detto io”.
Aniello Di Biase: “Dice, se questo Michele si appara, lui e altri 3-4 di loro, dice, questo m’ stut’ a me”.
Michele Di Biase scomparve il 2 ottobre 2015. Quella sera partì da Giugliano, presumibilmente senza dire a nessuno dove andasse, e arrivò a via D’Avalos all’Arenaccia) a bordo di una Fiat “Panda” intestata al fratello, ma spesso nella sua disponibilità.I sicari lo affiancarono mentre era seduto al posto di guida, senza dargli il tempo di scendere lo centrarono alla testa. La polizia trovò molto sangue all’interno della macchina e un cappellino con visiera forato sul lato sinistro. Il finestrino, sempre dal lato guida, era infranto in due punti e i colpi avevano sforacchiato anche il vetro dall’altro lato. e. Nell’abitacolo c’era- no anche un paio di occhiali, anch’essi sporchi di sangue. Sotto il parasole, gli investigatori trovarono la sua patente di guida. L’ipotesi più accreditata è che gli assassini abbiano prelevato il cadavere dalla “Panda”, lo abbiano caricato e trasportato con una macchina rubata in una zona di campagna. Poi l’avrebbero sotterrato, anche se due affiliati al clan Mallardo intercettati facevano riferimento a dell’acido. Ma sarà lo sviluppo dell’inchiesta a chiarire questo mistero.

 

(nella foto da sinistra Nello Di Biase, il padre Michele e Gennaro Catuogno ‘ o scoiattolo)

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